Contrasti barocchi tra emozione ed intelletto – La bagna cauda! Il gusto del territorio, le nostre radici-Da Acta Diurna agli odierni avvisi-Da wip a vip veramente inconcludente perdigiorno…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Contrasti barocchi tra emozione ed intelletto
Sabato 16 gennaio, sono stato a Rivarolo ad ascoltare il concerto della rassegna Contrasti barocchi, tra emozione ed intelletto, a Rivarolo, ore 21,nella chiesa di San Giacomo. Protagonista della serata è stata la musica di J.S.Bach , grande esponente della musica barocca, in particolare la cantata, con le arie e recitativi di cui è composta. Personalmente quel parruccone di Johann Sebastian Bach mi è sempre piaciuto. Pensate che Bach ci teneva alla parrucca a riccioloni ancora in pieno Settecento, quando da decenni non si usava più. Quanto alla musica, erano tanti che al suo tempo trovavano antiquata anche quella, perché non si piegava alle eleganze più facili dei giovani, tra cui stavano persino alcuni della sua ventina di figli, e tirava diritto per la sua strada. Sapeva più di tutti gli altri. Per esempio una volta, entrato in un salone, disse che se, voltato verso il muro, avesse sussurrato qualche parola, l’avrebbe udita chiara solo chi stesse nell’angolo opposto come lui; ed era vero. Forse sapeva anche che la sua musica, dall’angolo lontano d’un mondo fra Barocco e Illuminismo, avrebbe raggiunto nitida l’angolo opposto del Duemila, sempre meravigliosamente moderna. Nella musica di Bach che ho ascoltato dal giovane e soprano torinese, Ilaria Zuccaro, accompagnata all’organo dal Paolo Tarizzo, bravissimi entrambi, e grazie a loro ho potuto apprezzare ancora di più. Ascoltare Bach tra corali, fantasie, toccate, preludi e fughe riempiono il mio animo di felicità. Ritengo da profano la la musica di Bach di immediata comunicazione eppure di profondi contenuti un punto fermo su cui riflettere nel bombardamento quotidiano di informazioni effimere, vuote e gridate a cui siamo costantemente sottoposti. La musica di Bach mi aiuta a vedere oltre la superficie delle cose, ad approfondirle, a conoscerle. In questa società liquida governata sempre di più dalla cupidigia dell’ economia di mercato la musica di Bach è un esempio di dedizione disinteressata e costante, lontana dalle mode e dall’ambizione avida
Favria, 23.01.2016 Giorgio Cortese

Certi giorni ho l’impressione che i binari della vita non sempre viaggiano dritti, a volte ci sono delle svolte, impreviste, l’importante è saperle superare con la forza d’animo sereno.

La bagna cauda! Il gusto del territorio, le nostre radici
La bagna cauda, bagna caoda, o letteralmente “salsa calda” in dialetto piemontese, è un condimento a base di aglio, olio e acciughe che viene servito assieme alle verdure sia cotte che crude. La bagna cauda può essere intesa come la variante calda del pinzimonio, il contorno che ritroviamo in tavola in primavera ed estate, in quanto sia per la temperatura di servizio sia per l’intensità dei sapori si presta meglio alle temperature autunnali e invernali, anche se in Piemonte, dove ha le sue origini, la bagna cauda non è semplicemente una salsa che accompagna le verdure e come tale non va “sminuita”, bensì è un vero e proprio rito, un simbolo di allegria, amicizia e convivialità. La bagna cauda nasce nel Medioevo come piatto povero, che i contadini preparavano per proteggersi dal freddo e che i nobili aborrivano per via della presenza massiccia dell’aglio che rendeva il fiato pestilente, per di più in un’epoca in cui ancora non esisteva il dentifricio… In particolare alcune testimonianze storiche fanno risalire la nascita della bagna cauda nel basso Piemonte, nelle zone dell’Astigiano, del Monferrato, delle Langhe e del Roero, dove i vignaioli per festeggiare la spillatura del vino nuovo, a novembre, si riunivano con gli amici e la famiglia e mangiavano verdure e bagna cauda. Da allora il rito di sedersi attorno alla tavola con al centro il fojot, il contenitore di terracotta che tiene in caldo la salsa, è sopravvissuto fino ai nostri giorni, e di certo non mancano osterie e trattorie piemontesi che hanno inserito nel menù questo piatto, prima relegato solo alla tradizione contadina, e oggi rivalutato e rivalorizzato in tutte le sue varianti. Non ci si deve stupire se uno degli ingredienti fondamentali della bagna cauda siano le acciughe, un pesce, anche se il Piemonte non confina con il mare e non è mai stato una terra di pescatori. Il Piemonte è stato piuttosto una terra di acciugai, in particolar modo nel Medioevo quando il prezzo del sale era alle stelle e molti montanari e contadini piemontesi percorrevano quelle che oggi conosciamo come le vie del sale fino alla Liguria e alla foce del Rodano dove acquistavano il sale a prezzi più accessibili e lo trasportavano in barili nascosto sotto strati di acciughe. Una volta ritornati in patria rivendevano il sale a prezzi più alti e le acciughe a prezzi stracciati, acciughe che, tra l’altro, essendo state a contatto con il sale, erano diventate più saporite e si conservavano per più tempo. Esistono numerose varianti della ricetta tradizionale della bagna cauda che è molto semplice e composta di soli tre ingredienti: olio, aglio e acciughe. Queste varianti sono nate principalmente per rendere la salsa meno forte e meno intensa, c’è chi fa bollire l’aglio nel latte per addolcirlo, chi lo mette a bagno nel vino o nel latte, chi elimina il germoglio centrale dello spicchio, chi aggiunge panna o burro, oppure per chi lo vuole eliminare del tutto lo si può sostituire con le noci. Le verdure da “pucciare” nella bagna cauda sono verdure cotte e crude e uova. Le verdure da servire crude sono il cardo gobbo, il topinambur, la verza e l’indivia belga. Quelle cotte, lessate o arrostite sono le patate, il cavolfiore, le cipolle, i peperoni e le barbabietole. Infine, le uova. Si possono intingere sode, oppure rotte direttamente nel pentolino. Le verdure vanno preparate prima: quelle cotte devono raffreddare prima di essere servite e quelle crude vanno tagliate e presentate come più vi piace. Dei cardi gobbi si eliminano le parti esterne e si staccano i cambi e i filamenti. Vanno tagliati in pezzi di circa cinque centimetri e poi buttati in acqua e limone. Il cuore del cardo, invece, si deve affettare sottilmente.
I topinambur, una volta puliti e sbucciati, vanno serviti interi.I peperoni, poi, occorre pulirli dei semi, eliminare il torsolo e la costa bianca e poi tagliarli a fettine non troppo piccole. I cipollotti devono essere freschi e si servono tagliati alla base in un bicchiere a marinare nella barbera. La scarola e l’indivia, invece, si presentano intere. Il galateo della bagna cauda prevede che si intingano prima tutte le verdure e, infine, per raccogliere l’ultima salsa nel dian, si faccia cuocere un uovo (si può anche intingere sodo), eventualmente con una grattata di tartufo bianco. Nel passato si usava anche bere del brodo prima di iniziare a mangiare la bagna cauda per “aprire” lo stomaco, oppure dopo, con una funzione digestiva. Sarebbe vietato, durante il rito della bagna cauda, immergere pezzi di pane, ma come si fa a resistere mangiando questo piatto in compagnia e amicizia e poi quella mangiato con i soci della Pro Loco Favria era superlativa, grazie sincero al Direttivo e alle cuoche che hanno saputo ancora una volta stupire il mio animo e mandare in sollucchero le papille gustative, grazie di cuore per la bella serata
Favria 24.01.2016 Giorgio Cortese

Per vivere non vasta sopravvivere, ma assaporare la vita con passione, e allora tutto ha un diverso gusto

Da Acta Diurna agli odierni avvisi
Un sabato mattina sono passato a fare segnare una Santa Messa e ho trovato l’amico Giuseppe che preparava al computer gli Avvisi religiosi da mettere nella bacheca fuori dalla casa parrocchiale. Non ho potuto non collegare questi moderni avvisi con quelli scritti a mano nell’antica Roma, gli Acta Diurna che allora, in assenza dell’attuale e troppa informazione, erano il resoconto ufficialmente autorizzato degli eventi degni di nota accaduti a Roma. Allora i contenuti degli Acta Diurna erano in parte ufficiali, notizie giudiziarie, decreti del senato e magistrati, in seguito dell’imperatore e in parte privati, annunci di nascita, di matrimonio e di morte. L’origine degli Acta è attribuita a Giulio Cesare, che per primo dispose la tenuta e la pubblicazione degli Atti del popolo a cura di pubblici ufficiali nel 59 a.C., come citato da Svetonio in “ Vita di Cesare”. Gli Acta erano stilati giorno per giorno, ed esposti in luogo pubblico su una tavola imbiancata. Dopo essere rimasti in visione per un ragionevole lasso di tempo, venivano rimossi per essere conservati insieme ad altri documenti pubblici, così da poter rimanere disponibili per future ricerche. Esistevano pure gli Annales, la cui tenuta, peraltro, era già cessata nel 133 a. C., dove venivano trattate le questioni più importanti e più degne di nota, mentre negli Acta erano riportate anche notizie di minor nota. Gli Acta durarono fino alla fondazione di Costantinopoli nel 330. Passato il tumultuoso periodo delle invasioni barbariche fra il ‘500 ed il ‘600 dato che l’esercizio della stampa non era libero ed ogni opera nuova, doveva essere vagliata prima della pubblicazione. Era quindi impossibile stampare notizie in proprio, sia le buone nuove, sia le notizie che mettessero in cattiva luce il sovrano e allora, per aggirare il regime autorizzatorio nacque il costume di scrivere fogli avvisi manoscritti non firmati. Si trattava di fogli d’informazione sotto forma di lettere. Le prime città in cui apparvero gli Avvisi furono Roma e Venezia. Erano composti generalmente da quattro fogli non rilegati, scritti sia sul recto che sul verso. I fogli avvisi romani diffondevano le informazioni che da ogni parte del mondo giungevano nel principale centro della cristianità; inoltre riportavano le notizie più aggiornate dal Centro Italia e dal Mezzogiorno; sui fogli avvisi veneziani si pubblicavano abbondanti notizie dai principati tedeschi, Venezia era la città italiana che aveva più relazioni con i Paesi di lingua tedesca e slava, e dai Paesi levantini. L’esempio di Roma e di Venezia si propagò rapidamente nelle altre principali città d’Italia, specialmente a Genova e a Milano. Genova era una capitale commerciale e, alla fine del Cinquecento, gli avvisi erano dei tipici fogli commerciali: contenevano gli orari degli arrivi e delle partenze delle navi, notizie sul traffico ed i prezzi delle merci. Non mancavano di riferire le mosse dei pirati barbareschi che dalle loro basi di Algeri e Tunisi attaccavano le coste dell’Italia e di altri Paesi. Gli avvisi milanesi riferivano soprattutto dei fatti della corte di Spagna in Lombardia, Milano era un possedimento spagnolo dal 1535 al 1706, nonché della vicina Svizzera e delle Fiandre. In tutte le città italiane gli Avvisi si diffusero con grande velocità. I fogli, quasi tutti a periodicità settimanale, si spedivano di sabato, giorno in cui i corrieri postali partivano da Roma, Venezia, Genova e Milano. Venivano spesso allegati ai dispacci diplomatici o ai carteggi privati. Le vendite consentirono ai loro anonimi estensori di realizzare buoni guadagni. Nella Repubblica di Venezia i fogli avvisi erano venduti a 2 soldi. Dal momento che la moneta veneta da due soldi si chiamava gaxeta, i fogli avvisi assunsero il nome di tale moneta, italianizzato poi in gazzetta. Le gazzette manoscritte veramente affidabili erano molto poche. Tra i pochi novellieri romani che firmarono i propri fogli avvisi vi furono Guido Gualtieri, Giovanni Poli, Orazio Renzi e Maurizio Cattaneo. La maggior parte dei fogli avvisi conteneva notizie esagerate e diffamatorie. Inoltre molti gazzettanti rivelavano informazioni riservate portandole al di fuori dei palazzi del potere, a Roma furono chiamati “menanti” e i loro fogli furono detti “Avvisi segreti”. Menante deriva dal verbo menare, sinonimo ormai antiquato di copista, amanuense. Nel sec. 16° erano così chiamati coloro che non solo ricopiavano ma anche stendevano quelle lettere, dette notizie, fogli a mano, avvisi, gazzette, che erano poi diffuse in molte copie, costituendo i primi saggi delle future gazzette stampate e una forma rudimentale di giornalismo; in seguito, il termine fu usato spesso come sinonimo di gazzettiere, pubblicista. Tornando agli avvisi del ‘600, esisteva il costume di affiggerne diverse copie nottetempo, in punti ben noti delle città, fogli contenenti maldicenze nei confronti dei personaggi più in vista. A Venezia venivano affissi alla statua del Gobbo di Rialto, mentre a Roma erano appesi al collo della statua di “Pasquino”, da cui il termine “pasquinata”. Gli avvisi scritti da Giuseppe hanno invece oggi un grande valore informativo, perché oltre ad indicare le ore in cui avvengono le sacre funzioni ci raccontano con disarmante semplicità i vari eventi della Comunità, nascite, morti, matrimonio e S. Messe di suffragio che hanno a parere mio un grande valore comunicativo concreto in questa società liquida dove anneghiamo da milioni di informazioni provenienti dalle più disparate parti del mondo ma poi perdiamo di vista la vita attiva del luogo in cui viviamo che è costituito in una sua ossatura dagli avvisi parrocchiali, grazie Giuseppe per l’insostituibile impegno come volontario che fai
Favria, 25.01.2016 Giorgio Cortese

Certi giorni il mio animo mi invita a dare peso a quello che sono, non nel senso fisico perché li farei un figurone ma di riprendere l’equilibrio dei miei pensieri ad essere più che apparire, dando spazio ai miei silenzi per ascoltare di più gli altri, ma soprattutto per ascoltare me stesso. E così nella frenesia quotidiana mi prendo ogni tanto delle piccole oasi di quiete nel caos della vita.

Da wip a vip veramente inconcludente perdigiorno
L’acronimo si usa per identificare il concetto di Work In Progress, tradotto dall’inglese “lavoro in fase di completamento”, tecnicamente indica il quantitativo di pezzi che si lavorano nello stesso momento in un organismo di produzione. Si tratta della progressione lavorativa di merci che necessitano di più fasi di lavoro e terminata una fase, passano a quella successiva, continuando così fino alla fine del processo. Da questo significato tecnico-linguistico si è passati a un utilizzo più comune che identifica in progress come un’attività, una creazione in divenire, qualcosa che ha bisogno di vari controlli e più verifiche per giungere al risultato finale per arrivare ai nostrani Vip, Veramente Inconcludente Perdigiorno. Ma forse al posto di Perdigiorno, il lemma che rende meglio è quello di Flaneur, personaggio di primaria importanza nella fauna urbana, stanziale nei bar per ore con il giornale in mano o in giro senza meta. La storia di questa ambigua parola francese che presenta delle origini molto incerte, infatti, secondo alcuni deriverebbe dall’antico scandinavo flana che significa correre vertiginosamente qua e là, secondo altri ad una parola che corrisponde grosso modo al nostro libertino. L’unica notizia certa di cui disponiamo è che questo termine era utilizzato nel XIX secolo per definire un bighellone e un perdigiorno, una persona che trascorre il tempo passeggiando in città, facendo acquisti o guardando la folla. In italiano abbiamo la parola corrispondente con il modo di dire “fare flanella”, espressione che significa bighellonare e trascorrere il proprio tempo oziando. Ma forse mi sbaglio, il flaneur, non ozia ma studia i nostri comportamenti umani di impiegati sempre stressati dai ritmi lavorativi. E allora il flâneur diviene un osservatore privilegiato dei riti consumistici di massa, si muove tra le vie del mercato e dei mercati economici, visitando e celebrando la nascita e la morte di mode e luoghi. È un esploratore libero, che si muove nella fiumana della folla come un fotone in un fascio di luce, che, pur mantenendo la sua identità, il suo aspetto e colore, cambia posizione come foglia nel vento. Allora un vero Vip altro che Perdigiorno, con spirito libero, vagabonda tra le strade con sguardo curioso, attento alle varietà del mondo. Scruta con attenzione e porta con sé le albe e i tramonti delle manie cittadine. Indisturbato, studia il mondo e i suoi cambiamenti, segue le linee di spazio tracciate che sono le vie e le piazze, ma creando nuovi percorsi. Con accesa forza, porta ed esprime la curiositas degli antichi Romani ed è differente dalla curiosità frivola del turista. Egli è il vagabondo moderno che ama il mistero delle strade, da esse si fa guidare, dai colori si fa impressionare, dei profumi e delle musiche si innamora e ricorda. Il turista vaga con mete precise, con spirito vacanziero e precisione imprenditoriale, il flâneur, invece, si fa guidare dall’istinto e dalla novità, da piccoli solchi celati tra i mattoni e i marmi degli edifici e anche dalle buche delle strade. Egli porta con sé taccuini di pensieri, ogni suo passo è un aforisma o una poesia e fonte di ispirazione.
Favria 26.01.2016 Giorgio Cortese

Nella vita le scelte e le conseguenze vanno sempre nella stessa direzione perché le occasioni della vita, sono io!