Da nuovo di trinca a nuovo di “pacca”. – Sorridere e respirare – I quotidiani patentati…-“Do”, se do qualcosa a Te… Tutti assieme appassionatamente! – I marghè, i custodi delle valli alpine.- Da califfo a sultano.. di Giorgio Cortese

Da nuovo di trinca a nuovo di “pacca”.
Trinca deriva dallo spagnolo trincar, con il significato di legare strettamente. In marina, un robusto collegamento di due o più parti mediante cavo o catena, a più passate, fitte e parallele, tesate al massimo. La trinca prende il nome al palo dove anticamente veniva appesa la vela latina, triangolare che si metteva davanti alle navi da li albero di trinchetto. In una nave a vela si può trovare la trinca del bompresso, collegamento tra il piede del bompresso e il dritto di prua, oppure le trinche dell’invasatura, cavi di canapa che legano simmetricamente le colonne dell’invasatura passando sotto la chiglia della nave sullo scalo, dette anche embrici. Ci sono poi le cosiddette trinche dei vasi, più comunemente dette bozze, sono quelle che trattengono a terra le testate dei vasi, fino all’istante nel quale si tagliano, lasciando libera la nave di scivolare in mare, da quest’ultimo uso è nata la rara l’espressione “tagliare, lasciare di trinca , come sinonimo di colpo, di botto. Il legare strettamente specialmente nell’attrezzatura navale, fatta con più passate ben accostate di catena o cavo sui velieri, secondo alcuni ha fatto nascere il modo di dire “di trinca”, con il significato di nuovo di zecca, nuovissimo. Per altri anticamente la trinca era lo stampo con cui venivano fatti gli oggetti alcuni perciò nuovo di trinca vuol dire nuovo di stampo. Come si vede questo dovrebbe essere il significato di trinca nel linguaggio comune che ha poco da spartire con il verbo trincare che deriva dal tedesco trinken, bere, con il significato di bere avidamente e con gusto, intendendo sempre del vino o di alcolici in genere. Gli oggetti nuovi vengono anche chiamati nuovi di zecca, perchè la zecca è dove si stampano le banconote e si coniano le monete. l’espressione nuovo di zecca significa che è appena stato creato, appena uscito dalla zecca, e quindi che è nuovo, pulito e luccicante e brillante. Ma nel linguaggio comune esiste anche il termine nuovo di “pacca”. Secondo i linguisti corretto sarebbe scrivere nuovo di “alpacca”. Alpacca, alpaca o àlpaca detta anche Argentone o Argento tedesco è una lega di nichel-zinco-rame. L’alpacca grazie alla presenza del nichel assume un aspetto molto simile a quello dell’argento. Un tempo usata per la produzione di posate, è oggi apprezzata nella costruzione di piccole parti meccaniche. In particolare, l’alpacca viene utilizzata nella costruzione di strumenti musicali economici. In lingua tedesca chiamata Neusilber, Alpaka/Alpacca, Hotelsilber, in francese Argentan, Minargent, Cuivre blanc e Maillechort, così come in spagnolo Plata Alemana, in inglese German Silver, in cinese Packfong. L’Alpacca galvanizzata è conosciuta anche come Argento cinese. Anni fa, probabilmente quando la Ditta Berndorf ha creato i primi servizi da tavola in alpacca, qualcuno ha avuto la brillante idea di affiancare qualcosa di nuovo a questa preziosa e lucente lega metallica. Ed è nata così l’abitudine di assimilare una nuova cosa all’alpacca e dire: è nuovo di “alpacca”. E alpacca è diventato sinonimo di nuovo. Sicuramente quando è nata per diversi anni è stata detta così ed è poi stata evidentemente stroppiata tralasciando l’al iniziale e diventando anacronisticamente “pacca” e provocando una grande confusione. Specialmente fra i giovani che ne fanno largo uso. Alcuni anziani si ricorderanno del termine esatto. Come ben sapete la pacca è quel gesto scherzoso, amichevole o di complimento che si fa a qualcuno battendogli il palmo della mano sulla spalla.
Favria, 20.03.2015 Giorgio Cortese

Nella vita non devo mai essere tenero con me stesso, devo evitare sempre di cadere di credere nella mia misera conoscenza, che è solo somma di ignoranza ottusa. Perché così senza sapere nulla, credendo di sapere tutto, continuo così a sbagliare

Sorridere e respirare
L’altra settimana mi sono spaventato un po’ per un episodio dove una persona quasi rischiava il soffocamento. Mi trovavo al mattino presto prima di andare al lavoro al bar con l’amico e collega Bruno quando un avventore improvvisamente è stato preso da una forte e convulsa tosse che quasi gli costava il soffocamento. E’ diventato improvvisamente rosso in viso e quasi piegato su se stesso e ha fatto segno al barista di battergli la schiena. In quel momento ho pensato che avesse trangugiato qualche corpo solido che gli impediva di respirare. Allora sono intervenuto anch’io nel percuotere con le dovute maniere la schiera. Dopo un quasi un interminabile minuto l’avventore si è ripreso ha detto di non aver ingoiato nulla ma gli era andata la saliva di traverso con qualche briciola di ciò che avevo finito di mangiare, un croissant. Ha affermato che lì per lì ha sentito la classica tossetta e il raschio in gola, fa per finire il cappuccino, ma la tosse aumenta e sentiva come la gola chiudersi, ed iniziava ad avere degli spasmi e quasi non respirava più, come se si chiudesse la glottide. Per istinto si è piegato su se stesso con il rantolo che aumentava per cercare di espellere cosa gli ostruiva il respiro e poi forse grazie ai provvidenziali colpetti sulla schiena si è ripreso. Successivamente mi sono informato e mi hanno detto che fortunatamente non si può soffocare, a volte capita che durante particolari sforzi nel tossire l’epiglottide si “incastra” alla base della lingua come un tappo e se si sforza per respirare si strige ulteriormente ma ad un certo punto l’epiglottide che è elastica torna per forza al suo posto con immediato sollievo respiratorio e minor sollievo dovuto allo spavento. L’epiglottide è indispensabile per noi mammiferi per impedire il soffocamento quando ingeriamo del cibo, per evitare che vada nella trachea. L’epiglottide è situata davanti all’orifizio superiore della laringe, su cui si abbassa come un opercolo, quando la laringe, nell’atto della deglutizione, si alza. Il lemma epiglottide deriva da due parole greche epi, sopra, vicino e glottis, lingua. Questo episodio mi ha fatto riflettere sulla semplicità dei nostri organi che ci tengono in vita come il meccanismo semplice e perfetto che regola la respirazione e del sorriso. Talvolta mi dimentico della semplicità. Mi devo sempre ricordare che ho iniziato la vita con un inspirazione e la finisco con un espirazione concludendo il ciclo, il respiro è vita. E allora ho tre ragioni nella giornata per essere felice e sorridere. La prima ragione è quando mi sveglio, perché ho tutta una giornata davanti a me per fare bene tutto ciò che non ho potuto fare ieri, e quindi sono felice. La seconda ragione è a mezza giornata, perché, se non sono riuscito a fare molto, ho ancora davanti a me una mezza giornata per migliorare e mi rallegro. La terza ragione è alla sera, perché la giornata è finita e se è andata bene sono felice, se invece è andata male, pazienza, sono felice che sia finita. Nella giornata se sorrido la gente mi sorride, pensate che ci vogliono settantadue muscoli per fare il broncio ma solo dodici per sorridere! In effetti sorridere è semplice dona a me e infonde agli altri un sentimento positivo. Il sorriso è una forma di comunicazione. Ritengo che nella vita siamo come degli specchi e il sorriso manifesta simpatia, ottimismo, benessere e apertura nei confronti di un’altra persona e nella cultura comune rappresenta l’espressione della felicità.
Buon sorriso a tutti!.
Favria, 21.03.2015 Giorgio Cortese

Sono entusiasta del lavoro di squadra che è la sintesi dell’abilità di lavorare insieme verso una visione comune, è il collante che permette a persone comuni con varie capacità di ottenere molte volte dei risultati eccezionali

I quotidiani patentati…
Il lemma patentato è un aggettivo, participio passato di patentare, insomma persona munita di patente, cioè di un documento, rilasciato dalle competenti autorità, che autorizza all’esercizio di un’attività. Oggigiorno tale significato rimane in uso solo, negli annunci economici, con il significato di “munito di patente di guida di un’autovettura”, mentre altri modi di dire come maestro patentato, lavoratore patentato, dentista patentato, molto comuni una volta, sono stati sostituiti, secondo i casi, da autorizzato, diplomato, abilitato. Mi viene da pensare nella storia alle patenti imperiali prima e poi regie patenti o reali patenti che furono atti ufficiali, leggi o decreti, emanati dai vari sovrani in Europa e anche dal sovrano del Regno di Sardegna, dal re, per permettere la nascita di progetti di ampio respiro riguardo ad ambiti di particolare rilevanza per lo Stato. Per esempio, le regie patenti del 13 luglio 1814 sancirono la nascita dell’ Arma dei carabinieri, mentre le regie patenti del 21 settembre 1828 vietarono la caccia allo stambecco nei territori del Regno, dando una prima forma di protezione involontaria al territorio che diventerà il Parco Nazionale del Gran Paradiso, salvando di fatto lo stambecco dall’estinzione. Ma le patenti mi ricordano anche la lettera di corsa o , detta anche lettera di marca o patente di corsa, era una garanzia, o commissione, emessa da un Governo o da un re che autorizzava l’agente designato a cercare, catturare o distruggere, beni o personale appartenenti ad una parte che aveva commesso una qualche offesa alle leggi od ai beni od ai cittadini della nazione che rilasciava la patente. Questa veniva di norma usata per autorizzare dei gruppi di privati ad assalire e catturare bastimenti mercantili di una nazione nemica, esempio di queste lettere di corsa furno i corsari. I corsari avevano più possibilità di fare buoni bottini dei pirati: le loro navi partivano, legalmente, da un porto, quindi potevano essere preparate già in cantiere e progettate appositamente come navi da guerra leggere, quando catturavano una preda essa era legittima, quindi potevano prendere prigioniero l’equipaggio, vendere il legno catturato all’asta, depredare tutto il carico con comodo, e non limitarsi ad arraffare i preziosi e scappare con il bottino come i pirati, inoltre il bottino poteva essere venduto all’asta con calma, in piena legalità, cercando di spuntare il prezzo migliore per l’armatore. A differenza che nella pirateria però i profitti andavano in preferenza all’armatore-investitore e ai suoi ufficiali in comando, mentre tra i pirati le quote del bottino erano ripartite più democraticamente. Con il trattato del 1713 di Ultrech venne vietata la lettera di corsa e poi con la Dichiarazione di Parigi del 1856 definitivamente bandita. Una curiosità al riguardo di Stati Uniti non hanno mai firmato la Dichiarazione di Parigi, ed ancora oggi il Congresso ha la facoltà di concedere delle lettere di corsa, e onestamente saprei dove mandare questi agenti, a catturare quegli animali che uccidono e depredano nel medio Oriente nascondendosi dietro al dito della religione. L’ultima volta che negli Usa sobo sate utilizzate è stato durante la guerra di secessione da parte degli Stati Confederati d’America, che emisero queste patenti di corsa. Il contenuto formale della garanzia era in realtà un’autorizzazione rilasciata all’agente ad oltrepassare i confini nazionali, “marca”, sta per frontiera, perché una volta oltre confine potesse legittimamente cercare, catturare o distruggere beni o personale della fazione ostile “una rappresaglia”, in modo e con un’entità che fosse proporzionata all’offesa originale, obiettivo da raggiungersi, originariamente, in una sola “corsa”. Dopo questa divagazione sulle patenti, oggi forse il lemma patentato viene usato per indicare in modo spregiativo e rafforzativo un bugiardo, imbroglione, mascalzone, ladro, dandole quasi un pubblico e legale riconoscimento. Patente deriva dal latino “patet” il cui infinito presente era “patère”, con il significato di “appare, é evidente, è manifesto”. Perciò, oggi, “patente” significa: che è evidente, che è palese, che è manifesto, che appare. Mentre la forma sostantivata, al femminile, “la patente” è un documento che rende manifesto un fatto. Però oggi, anche se non tanto spesso, si sente ancora dire: “la cosa è patente”. Cioè: il fatto è evidente, è manifesto, appare chiaramente.Il contrario di “patente” è “latente”. Vale a dire: che non si vede, che è nascosto. Dalla parola latina deriva anche la parola patera, piatto o tazza, e poi padella. E poi patibolo, sempre da patere, essere aperto, manifesto, originariamente il patibolo era il luogo su cui il condannato veniva legato e esposto al pubblico. Tornato al patentato, nell’indicare i bugiardi, questi fingono di sapere anche quando non sanno, e se sono messi alle strette ti scartano dal loro cammino per paura di essere smarcherai. Per i bugiardi patentati la loro verità è una malattia, ma per mia fortuna non hanno mai una buona memoria per poter essere dei perfetti bugiardi, e poi quando li incontro e fanno i cerimoniosi penso sempre che forse mi vogliono ingannare o mi hanno già imbrogliato e per me per me rimangono sempre degli impostori bugiardi patentati.
Favria, 22.03.2015 Giorgio Cortese

Nella vita la gara non è sempre del più veloce, ma per coloro che continuano a correre

“Do”, se do qualcosa a Te… Tutti assieme appassionatamente!
Sono stato una domenica pomeriggio a Torino a vedere il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Tratto dall’all’omonimo film del 1965. La storia è super nota. Ma mai ovvia. Non per nulla parlo di uno più famosi musical di Brodway The sound of music, conosciuto con il titolo di Tutti insieme appassionatamente grazie, scritto dal celebre duo “Rodger&Hammerstein”, diretto da Robert Wise, protagonisti Julie Andrews e Christopher Plummer, vincitore di cinque Oscar che ne hanno fatto uno dei film musicali più amati di tutti i tempi. La storia, in un’Austria ormai prossima all’Anschluss, annessione alla Germania nazista, la novizia Maria, diventa la nuova istitutrice della numerosa famiglia del comandante di marina Von Trapp, sarà un’esperienza che metterà in crisi le sue certezze più profonde. Non sarà infatti facile relazionarsi con un vedovo che pensa di essere ancora al comando della propria nave e con un gruppo di ragazzi scalmanati in cerca di affetto. La pellicola interpretata magistralmente da Julie Andrews uscì nelle sale nel 1965 e da allora rimane uno dei classici che si tramandano, ben tre generazione hanno cantato Do-re-mi da bambini e ancora oggi questo Musical è riuscito con la musica e il ritmo ad essere coinvolgente. Spettacolare l’intero cast, notevole la voce delle attrici nei panni delle suore. Tutti insieme appassionatamente rappresenta un caposaldo del cinema musicale, potendo vantare un repertorio senza tempo ormai universalmente riconosciuto ed apprezzato, che ha saputo divertire ed entusiasmare più generazioni, ricordando quanto può essere bello stare insieme in famiglia. Una famiglia, per alcuni, fin troppo numerosa, ma che può diventare un “paradiso” se ben oliata nei suoi meccanismi. Infatti, tra le montagne dell’Austria, immersa nel verde e travolta dalla magia della musica, la famiglia von Trapp racchiude in un abbraccio l’amore. Quello con l’A maiuscola. Capace di andare oltre le avversità. Sopravvivendo senza gli agii dei ricchi ed alimentandosi solo con il lusso dell’affetto. Alcuni potrebbero dire che in fondo è solo un musical, cioè una magnifica finzione che non corrisponde alla realtà, ma forse in pochi sanno che la pellicola è tratta dai racconti di vita della signora Maria Von Trapp, e che quindi Tutti insieme appassionatamente è una storia un po’ zuccherosa, ma vera.
Favria 23.03.3015 Giorgio Cortese

Nella vita la felicità non è nell’essere arrivato alla meta, ma è nel camminare verso la meta.

I marghè, i custodi delle valli alpine.
Con malga si intende il fabbricato, o il complesso di fabbricati, di legno o misti di legno e muratura, che si trovano sul terreno del pascolo per il ricovero del bestiame, il deposito del latte e degli attrezzi, e l’alloggio temporaneo del personale. Ma indica anche il pascolo dove soggiornano gli animali, specialmente i bovini, tipico nelle valli alpine e anticamente era usato come sinonimo di mandria. Il lemma malga deriva dai dialetti alpini, voce di origine indoeuropea e pre romana. Nella malga durante la breve estate soggiornavano i malgari o margari meglio conosciuti come i Marghè! La loro vita, il loro ritmo di lavoro presso la malga, così come raccontata dai malgari stessi, è scandita non dall’orologio che portano al polso, bensì dal comportamento degli animali che sono chiamati ad accudire con passione. Tanta passione, perché senza la passione che carbura il loro animo, mitiga la vita della malga è pesante. Chi ama la natura ama gli animali, e chi ama la natura e gli animali ama doppiamente la propria famiglia. L’alpeggio è una pratica molto antica, che risponde a necessità economiche e tecniche a un tempo, sia perché permette di sfruttare la produzione foraggera di alta montagna, inutilizzabile in altro modo, sia perché irrobustisce gli animali e li rende più resistenti alle infezioni, particolarmente alla tubercolosi, portando ad una migliore qualità dei prodotti zootecnici. Essa consisteva nel trasferimento, per l’intero periodo estivo, del bestiame e della famiglia in baite a quote più elevate tra i 1400 e 1800 metri e coincideva solitamente con il periodo che va da metà maggio a inizio settembre. I fabbricati d’alpeggio erano molto primitivi, realizzati con pietrame a secco e tetto in lose. La tipologia variava molto in funzione dell’estensione dei pascoli, il clima, la disponibilità idrica, i materiali da costruzioni disponibili in loco. Le famiglie utilizzavano ciascuna una propria baita con una piccola stalletta e altri due vani per la lavorazione del latte e le funzioni abitative. Con le pietre raccolte sui pascoli si realizzavano anche lunghi muri di confine, per evitare sconfinamenti e controversie. Si costruivano poi i muri a protezione, dal bestiame, dei prati da sfalcio e degli orti, quelli di protezione, del bestiame, dai salti di roccia e burroni. La vita in malga, nell’alpeggio era ed è pesante, i margari, i marghè si si alzano prima dell’alba, le mucche venivano fatte uscire e la stalla ripulita dal letame, poi i pastori sorvegliano la mandria al pascolo mentre il malgaro e il casaro si occupano della lavorazione del latte. Ricavare il burro dal latte non era difficile, ma richiedeva tempo e fatica. Bisognava innanzitutto dividere la panna dal latte cosa che avveniva semplicemente lasciando riposare il latte appena munto: la panna risaliva alla superficie. Nel frattempo, si scaldava la zangola con acqua calda. Tolta l’acqua si versava la panna filtrandola con una tela grezza. Si metteva il coperchio e con il movimento di su e giù del pistone si sbatteva la panna fino a che si consolidava. Per tutto ciò occorreva circa un’ora. Arrivati a questo punto si colava il siero, destinandolo al maiale o ad altri usi. Si aggiungeva poi acqua fredda, e si sbatteva an-cora un po’ per l’indurimento finale. Si passava poi a dare le forme desiderate con uno stampo in legno. Si lasciava riposare al fresco per un giorno ed il burro era pronto per la cucina. Oggi negli alpeggi si usano le centrifughe, per separare la crema di latte, o panna. Però, a differenza del burro industriale, la temperatura fresca dell’alta quota permette alla panna di essere utilizzata senza pastorizzarla. La pastorizzazione nel normale processo industriale di produzione del burro serve a ridurre la carica batterica. Non essendo pastorizzata la crema di latte d’alpeggio mantiene intatto tutto il suo aroma, e così il burro che se ne ricava. Il burro di alpeggio, quello giallino, profumato di erba fresca, incomparabile per sapore, ma ad alta quota si possono trovare altri tesori, blu, buonissimi e tantissimi! I mirtilli! Il montanaro che un tempo viveva con quel poco che la montagna offriva svolgeva prevalentemente un’attività agricola. Ma l’altitudine, la configurazione geografica delle valli alpine, il clima costituivano un insieme di condizioni poco propizie a tale attività. Le colture tradizionali (segale, avena, patate) erano la base dell’alimentazione del montanaro, e necessitavano di molte cure, come anche l’allevamento del bestiame, bovino e ovino. Quelle attività impegnavano l’uomo durante la maggior parte dell’anno, con il ritmo delle stagioni che fluivano sui mezzi della sua sussistenza. Inoltre si preoccupava, senza delegare ad altri, di ripulire il sottobosco, di sistemare la diffusa rete dei sentieri, di incanalare le acque piovane, di ripristinare i muretti a secco, senza pretesa di vedersi riconosciuto il suo lavoro dai contributi di qualche ente, bensì riscontrando e usufruendo dei benefici pratici di cui egli si era reso artefice, convinto che la sua opera sarebbe servita ai figli e ai nipoti che ne sarebbero seguiti. Di anno in anno provvedeva a prepararsi la legna per quello successivo, attento alle fasi lunari e alle diverse proprietà delle essenze a disposizione. Ciascuno sapeva di avere un ruolo utile nell’interesse di tutti. Da una parte c’erano l’asprezza della vita, la povertà, la mortalità infantile, gli incidenti e l’emigrazione… dall’altra la tranquillità, la pazienza, l’aiuto reciproco, lo spirito comunitario,… le speranze, le illusioni, e l’orgoglio valori alpini di cui tutti oggi abbiamo un disperato bisogno
Da un brencio maret
Favria, 24.03.2015 Giorgio Cortese.

Nella vita non basta il l raggiungimento di una meta per essere felici, ma ci vuole la felicità per una meta raggiunta

Da califfo a sultano
Molte volte leggendo i media si sentono sulle riferite alle vicende del mondo mediorientale le parole califfo e sultano, ma che cosa vogliono dire. Califfo, in arabo khalīfa, successore, è stato nel passato il sommo monarca della comunità islamica universale, ummat al-islāmiyya. Secondo la dottrina ortodossa islamica, deve essere musulmano maggiorenne, sunnita, di condizione libera e discendente dei Quraish o Coreisciti, cioè da coloro che formavano la maggioranza della popolazione della Mecca al tempo di Maometto e ai quali Maometto stesso apparteneva. Esiste ancora oggi la diffusissima credenza che il califfo sia per i musulmani una somma autorità religiosa corrispondente a quello ch’è il Papa per il cattolicesimo è del tutto errata. Il concetto di califfo, invece, è assai vicino a quello dell’imperatore medievale, riguardato come sommo monarca di tutti i paesi cristiani. L’istituzione del califfato è immediatamente consecutiva alla morte di Maometto il 8 giugno 632, il quale non aveva provveduto in alcun modo a indicare in qual modo e da chi avrebbe dovuto esser retto dopo di lui lo stato da lui fondato, che allora non usciva dai confini dell’Arabia e che aveva come base la comunanza di fede religiosa, in quanto che i pagani o politeisti non vi erano tollerati, e gli ebrei e cristiani, piccolissima minoranza, erano posti in condizione giuridica assai inferiore a quella dei musulmani ed esclusi da tutti i pubblici uffici. Siccome per parecchi secoli, almeno per i primi quattro dopo Maometto, la diffusione della religione musulmana fuori d’Arabia s’ identificò con l’espansione territoriale dello stato musulmano, e siccome quelli che noi diremmo diritti civili appartennero sempre nella loro pienezza ai soli musulmani, si comprende che il diritto pubblico dell’islamismo abbia concepito le terre d’islām come formanti un’unica monarchia, un blocco unico contro tutti i paesi d’altra religione, e non abbia neppure preveduto il caso di musulmani soggetti a potentati non islamici; cosa che in quei secoli sembrava assurda. L’enorme estensione assunta ben presto dall’Impero musulmano e la lentezza dei mezzi di comunicazione portarono a una larga autonomia dei governatori di provincie lontane, i quali anzi miravano alla formazione di vere dinastie locali. Casi siffatti finirono col ricevere un aspetto legale mediante un atto d’investitura regolare, accordato dal califfo per un determinato territorio e rinnovato volta per volta ai successori del primo investito; la sovranità nominale del califfo era quindi sempre affermata e riconosciuta in maniera che ricorda le investiture feudali accordate dall’imperatore della cristianità a re, principi, marchesi. I titoli dati di solito a questa specie di sovrani vassalli erano amīr “principe, emiro” o anche malik “re”; soltanto dopo il 1000 circa appare il titolo di sultān “sultano”. È indispensabile rilevare, di fronte a errati concetti largamente diffusi, che i poteri riconosciuti dal diritto musulmano a questi principi o re o sultani sono assolutamente gli stessi che si attribuiscono ai califfi; il divario riguarda solo l’estensione territoriale, limitata nel caso dei principi vassalli, estesa a tutto il mondo musulmano nel caso dei califfi. Con la conquista di Baghdād fatta nel 1258 dalle orde tartare o mongole di Hūlāgū, la famiglia ‛abbāside fu distrutta e il califfato ebbe termine. Come già detto il iltolo di sultano venne assunto anche dai sovrani dell’Impero ottomano, fino al 1922 e anche da altri principi orientali. C’è da rilevare il grave errore della diplomazia europea che nel sec. XVIII sino al 1916, credeva che il monarca ottomano, fra l’altro non discendente dai Quraish e neppure di razza araba, fosse sultano in quanto capo dell’impero turco e califfo in quanto capo della religione musulmana. Oggi si chiamano sultani, i capi di alcuni Stati musulmani, fra cui l’Oman e il Brunei.
Favria 25.03.2015 Giorgio Cortese

Che bello quando riesco a vivere di piccole emozioni, e mi accontento di un semplice momento che dona felicità.