Epitome – Res gestae favriesi, gli Ordinati Comunali. – Scripta manent, sequestro Moro. -L’afrore del caramogio-Scripta manent, le cinque giornate di Milano-Peccato di Pantalone, pronta assoluzione di Giorgio Cortese

Il coraggio di immaginare alternative è il mio carburante quotidiano, capace di aggiungere colore e passione a tutta la mia vita

Epitome
Epitome lemma che deriva dal tardo latino epitomare, con il significato di compendiare, condensare, epilogare, riassumere, sintetizzare, sunteggiare. La parola latina deriva dal greco, epitome, composto di epi sopra e temno tagliare. Ciò che resta dei tagli. La necessità di un’epitome si sviluppò nel mondo antico in presenza di opere importanti ma particolarmente lunghe, ed era già in uso nell’antica Grecia, dove si ebbero epitomi delle Storie di Erodoto e delle opere morali di Plutarco, e poi in Roma, frequenti specialmente le epitomi dell’opera di Livio, fiorì in genere nelle età di scarsa cultura originale, e fu assai coltivata nel medioevo occidentale e bizantino, che in tale forma ci ha conservato parecchi scritti perduti negli originali. Insomma l’epitome è la sintesi di un’opera estesa operata tagliando le parti ritenute meno importanti, e se da un lato ha il vantaggio di mantenere, nelle parti salvate, il testo originale, dall’altra il taglio è ovviamente arbitrario, e quindi possono risultare escluse dall’epitome parti dell’opera invece importanti. Volendo estendere il significato, l’epitome è una crema, un distillato, una sceltissima combinazione che, pur incompleta, è capace di rappresentare qualcosa di più ampio, un libro singolo potrà essere valida epitome dell’intera produzione di un autore, un servizio televisivo su un comico ci preparerà un’epitome dei suoi sketch più famosi e nei fumetti l’acerrimo nemico dell’eroe potrà essere l’epitome del male
Favria, 14.03.3015 Giorgio Cortese

Non devo mai cercare di risolvere questioni gravi nel bel mezzo della notte. Nella notte l’unica cosa su cui posso sempre contare è il contare le pecore.

Res gestae favriesi, gli Ordinati Comunali.
Gli Ordinati erano il verbale della Convocazione del Consiglio Comunale e corrispondono grosso modo ai verbali dei nostri Consigli Comunali, con la differenza che essi riportano solo le decisioni finali, non descrivono le varie fasi della discussione, ma solo gli “ordini” a cui la popolazione si deve attenere. Nell’ordinato del 29 gennaio 1731, viene riportata una lamentela della Contessa nei confronti degli Agenti della Comunità incaricati di riscuotere la tassa sui beni della Contessa; si viene a sapere che anche i beni dei feudatari erano sottoposti alla tassa Regia e che, in ossequio agli ordini dell’Intendente, erano incaricati di compiere tale esazione dei Particolari delegati dalla Comunità. La Comunità aveva nei confronti del potere centrale impegni ancora più fitti: il pagamento delle tasse regie spettava alla Comunità, il Segretario compilava i vari “quinternetti” contenente l’elenco dei particolari per quanto dovevano per il sale, per il “Quotizzo personale” e la suddivisione dei lotti d’acqua. Per l’acqua si rileva che Particolari che possedevano meno di “un’ottava parte di emina” di acqua non avevano diritto a “voltare” l’acqua nei loro prati, ciò per evitare un’ eccessiva dispersione di essa con conseguente spreco (Ordinato del 30.8.1729). Questo divieto viene confermato dall’Ordinato del 27 febbraio 1731 dove viene espressamente proibito ai “Particolari” di “non voltare acqua in minore quantità d’ottava parte d’una emina” poiché la riduzione della “tangente d’acqua” ad un partizione troppo tenue rende impossibile il servirsi d’acqua “senza pregiudizio, e danno delli altri Particolari partecipanti”. Il Consiglio Comunale nel 1600 e 1700 veniva sollecitato dal potere centrale agli inventari dei beni comuni. Ad esempio l’ordinato del 14 gennaio 1730 in risposta alle “Reggie Costituzioni” che richiede “tute le Comunità, e Particolari possessori de boschi si cedui che d’alto fusto di fare una Consegna fra mesi sei dopo della quantità e qualità de suddetti boschi”, contiene un elenco con la descrizione dei boschi comuni della Comunità. Da tale elenco si apprende che i boschi comuni erano tre: il bosco denominato Manesco di giornate sessantanove tavole cinquantasette, attraversato da una strada pubblica che “va alli luoghi di Rivarossa, San Benigno ed altri luoghi”; il bosco della Favriasca di giornate quattrocentosei tavole ventuna, comprendenti la strada Reale che va a Torino; il bosco Senziasco di giornate centoquaranta, attraversato dalla strada che va da Barbania a Busano. Viene inoltre precisato sempre nello stesso ordinato che sui “tenimenti di Favriasca e Senziasco vi è il pascolo riservato de bestiami delle due Comunità di detto luogo e di Vauda”. Il Consiglio Comunale doveva stilare ed aggiornare l’elenco delle “piazze dei notaij e degli speziari” presenti in Favria dal 1679. Questo ordinato era connesso all’editto reale del 14 aprile 1696 e editto del 9 agosto 1679. In obbedienza a tale ordine veniamo a sapere che nel 1696 erano state fissate due piazze da speziario, mentre il vecchio speziario Giovanni Domenico Battuello, in quell’anno cessò la sua attività. Le “piazze” furono incantate dalle “Reggie Finanze” a Franco Antonio Tarizzo e a Domenico Francesco fu Martino Gaijs, “ambi d’esso luogo”. Per quanto riguarda le piazze dei notai con l’editto del 1679 furono fissate nel numero di tre, comprate rispettivamente dai notai Giovanni Battista Caresio, Michele Tarizzo e Giovanni Battuello, il costo di ciascuna piazza era di quattrocento lire. Nel 1707 erano state aggiunte altre due piazze da notaio, una esercitata da Antonio Maria Bima e l’altra ubicata in contrada di San Pietro vecchio, da Giovanni Francesco fu Domenico Vajra. Nel 1731 troviamo come notai Cocchiello, Giovanni Battista Tarizzo e Giovanni Battista Caresio, oltre a quelli segnalati nel 1707, in quel periodo a Favria c’erano cinque notai con una popolazione di 2.076 abitanti. Infine ma non per questo meno importante altro onere della Comunità era quello della riparazione delle strade.
Favria, 15.03.2015 Giorgio Cortese

Chissà perchè la felicità è quasi sempre attaccata dall’invidia ed invece la povertà non è invidiata da nessuno!

Scripta manent, sequestro Moro.
Con il sequestro Moro del 16 marzo 1978, iniziato con l’agguato sanguinario. La tormentata prigionia. La condanna a morte. Tutto in 55 giorni, i più lunghi della storia della Repubblica italiana, che segnarono il passaggio tra due epoche e il tramonto di un progetto politico che forse avrebbe potuto scrivere un futuro diverso per il Paese.
Nel panorama dei cosiddetti anni di piombo, il 1977 aveva segnato una decisa svolta verso lo scontro violento sul piano politico e sociale, combattuto tra i gruppi eversivi di sinistra e di destra e tra questi e le forze dell’ordine. Il ’78 non era iniziato con migliori auspici: la sera del 7 gennaio si era consumata la strage di Acca Larentia, in cui avevano perso la vita tre giovani del Movimento Sociale. Sul piano politico c’era una situazione instabile, che a meno di due anni dalle elezioni aveva già portato alla caduta del governo monocolore della Democrazia Cristiana, guidato da Giulio Andreotti. Di fronte a quest’impasse e per dare una risposta convincente al Paese, attraversato da una profonda crisi sociale, il presidente della DC Aldo Moro sostenne l’ipotesi di un governo di solidarietà nazionale, con la partecipazione dei comunisti. Si trattava di un gesto politico di considerevole portata, i cui echi oltrepassarono i confini nazionali. Il PCI del segretario Enrico Berlinguer si diceva pronto al compromesso storico, rivendicando lo strappo con Mosca. Le resistenze però erano forti sia all’interno della DC, sia tra gli alleati internazionali dei due principali partiti italiani. Da un lato gli USA timorosi che, nell’ottica della guerra fredda, un partito filosovietico al governo avrebbe potuto minare i piani militari della NATO. Dall’altro l’URSS giudicava tale prospettiva una forma di emancipazione dal modello sovietico, in favore di quello americano. In questo scenario destò molti sospetti il coinvolgimento di Moro nello scandalo Lockheed, dal nome dell’azienda americana che ammise di aver pagato tangenti a politici e militari stranieri, per vendere a Stati esteri i propri aerei. Ne uscì con una piena assoluzione il 3 marzo, tredici giorni prima che accadesse l’irreparabile. La mattina di giovedì 16 marzo Moro era atteso alla Camera, dove Andreotti avrebbe dovuto presentare il nuovo governo con il sostegno, per la prima volta, dei comunisti. Alle 9 scese dalla sua abitazione romana e salì a bordo della Fiat 130 blu di ordinanza, seguita dall’Alfetta bianca della scorta. All’incrocio tra via Fani e via Stresa, ad attenderlo un commando di 19 brigatisti (11 secondo un’altra versione), armati di mitragliette automatiche e pronti a far scattare un agguato in pieno stile RAF, gruppo terroristico tedesco di estrema sinistra. Bloccando il corteo con due auto all’inizio e alla fine dello stesso, e ostruendo le vie di fuga laterali con altri veicoli parcheggiati, i terroristi entrarono in azione facendo fuoco sulla scorta e sulle due guardie del corpo dell’auto blu. La fotografia che si parò davanti alle prime persone accorse sul posto era agghiacciante: sulla strada un tappeto di bossoli e sangue, nei due abitacoli crivellati di colpi i corpi senza vita di Domenico Ricci, appuntato dei Carabinieri, Oreste Leonardi maresciallo dell’Arma, Francesco Zizzi, vice brigadiere di Polizia, Giulio Rivera e Raffaele Jozzino, entrambi agenti di Polizia. Passarono 48 ore prima che le Brigate Rosse rivendicassero l’attentato e il sequestro di Moro, attraverso una foto dello stesso, ritratto con alle spalle la famigerata “stella a cinque punte” e un comunicato in cui si annunciava che il presidente della DC sarebbe stato processato da «un tribunale del popolo». La reazione dei cittadini si tradusse in cortei e manifestazioni per gridare il proprio dissenso alla violenza brigatista.Le istituzioni reagirono approvando una serie di “leggi speciali” volte a dare più poteri alle forze dell’ordine e agli investigatori nell’attività di contrasto al terrorismo. Sul piano politico emersero forti divisioni tra chi era per trattare con i sequestratori, come il PSI, e la maggioranza, DC e PCI in testa, che era invece per la linea dura. Nonostante il dispiegamento di forze, con migliaia di blocchi stradali e perquisizioni, le indagini sembravano non portare da nessuna parte. Nei 55 giorni che seguirono ci fu uno stillicidio di comunicati delle BR, ipotesi giornalistiche e polemiche politiche, con il blocco moderato che accusava l’area comunista di essere contigua agli ambienti brigatisti. Il conflitto sociale non si fermò e alcuni episodi, come l’omicidio di due giovani di sinistra del centro sociale “Leoncavallo”, lo esacerbarono ulteriormente. Nel frattempo le speranze di vedere liberato Moro si facevano sempre più deboli, nonostante gli accorati appelli di personalità di rilievo mondiale, come papa Paolo VI e il presidente degli Stati Uniti d’America, Jimmy Carter. Il 6 maggio, le BR comunicarono l’esecuzione della condanna a morte. Tre giorni dopo il corpo di Moro fu rinvenuto in via Caetani, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata, simbolicamente, tra via delle Botteghe Oscure e Piazza del Gesù (dove avevano sede rispettivamente il PCI e la DC). Della strage di via Fani e dell’omicidio Moro furono accusati e processati 14 brigatisti, la maggior parte dei quali oggi è in regime di semilibertà. Inchieste giornalistiche successive fecero emergere il possibile coinvolgimento nella vicenda di altri soggetti, tra cui la loggia P2, la rete clandestina della NATO e i servizi segreti di diversi paesi. A supportarle gli innumerevoli ritardi e punti oscuri nelle indagini svolte all’epoca dei fatti e alcuni aspetti nella dinamica del sequestro e della prigionia, secondo alcuni, non riconducibili al modus operandi tipico delle Brigate Rosse.
Roma 16 marzo 1978-Favria 16 marzo 2015 Giorgio Cortese

L’entusiasmo è il carburante del successo, e senza passione ed entusiasmo non si è mai compiuto niente di grande.

L’afrore del caramogio
Tranquilli non sono impazzito ma ho trovato leggendo dei libri queste due poco usate parole ed allora inizio dalla prima-. Il lemma afrore significa odore acre e deriva dalla parola afro. Su questa parole le opinioni divergono c’è chi dice che deriva dall’antico tedesco eiver, simile all’antico francese aibhor, sempre con il significato di acre, piccante, ma anche il lemma francese affreux, con il significato di orribile. Secondo altri deriva dal lemma latino asper, aspro. La parola afro serve ad indicare un sapore o odore che abbia in se dell’acre. Da li deriva afrezza, una parola molto fine per indicare con precisone un odore acre e penetrante e non un certo puzzo generico. Con questa parola non si vuole dire che l’odore non è necessariamente sgradevole, ma sicuramente un odore che colpisce, come certi profumi femminili. Ma l’afrore può essere quello di un sottobosco autunnale, ma anche il profumo del vino nuovo ma forse dove calza meglio è l’odore di un corpo sudato. E così arriviamo al caramogio che indica una persona piccola e ridicola. Beh di caramogio ogni tanto ne incontriamo nella vita, ma la cosa curiosa è che deriva dal persiano kharmush , grosso topo! Certo non è una parola invitante, siamo quasi sul confine tra scherno ed offesa. Il caramogio è la persona piccola e grottesca, espressivamente accostata al grosso topo, il binomio di una visone insieme ridicola e ripugnante. Qualcuno afferma che come espressione indica anche il balordo. Ma balordo è diverso come significato anche perché deriva dal francese balourd, derivante dal francese antico beslourd, composto della radice bis, per aumentare il significato e dal latino luridus ‘pallido’, e quindi di sbalordito. Oggi significa per designare un delinquente e allora tra caramogio e balordi la differenza è abissale. In maniera molto appropriata, invece, caramogio è stato usato anche come nome per certe statuine grottesche di porcellana, che raffigurano la caricatura di certe persone. Ma un dubbio mi assale, ma come ha fatto arrivare questa parola in italiano dal persiano, ratto, e rimanere poi a significare dei soggetti con una certa taglia? Mah!
Favria, 17.03.2015 Giorgio Cortese

La vita quotidiana è come un immenso un puzzle senza nessuna immagine di riferimento, con tanti e innumerevoli tasselli. Colmare gli spazi vuoti significa amare, sognare, sperare. La vostra felicità dipende dall’interezza di ogni puzzle. Perciò, auguro a tutti di essere sempre completi, solo così potrete vivere davvero!

Scripta manent, le cinque giornate di Milano
Cinque giornate di Milano, il 18 marzo 1849, al grido di «Viva l’Italia, viva Pio IX; a morte i tiranni!» ebbe inizio l’evento più noto della storia risorgimentale, che aprì la strada all’impresa unitaria. In preda al malcontento per la politica repressiva della polizia austriaca, che nel mese di gennaio aveva provocato numerose violenze contro cittadini inermi, i Milanesi si sentivano pronti al grande passo. A dare il via all’azione fu la concessione di costituzioni liberali in altri Stati (su tutte quella concessa da Carlo Alberto nel Regno di Sardegna) e la notizia di un’insurrezione a Vienna. La mattina del 18 marzo 1848 la popolazione insorse, occupando il Palazzo del Governatore e alzando barricate per strada contro l’esercito austriaco comandato dal generale Josef Radetzky. La tenace resistenza degli insorti sorprese quest’ultimo, costretto ad ordinare il ritiro delle truppe nel Quadrilatero. Il 22 marzo Milano venne liberata e affidata a un Governo provvisorio, guidato da Gabrio Casati, e a un Consiglio di guerra, con a capo Carlo Cattaneo. La contemporanea rivolta di Venezia, dove fu proclamata la Repubblica, fornì al re sabaudo Carlo Alberto il pretesto per dare inizio alla Prima guerra d’indipendenza (23 marzo 1848 – 24 marzo 1849).
Favria 18.03. 2015 Giorgio Cortese

Per vivere la vita in modo positivo bisogna osservare il mondo circostante come tutti l’hanno visto per poi pensare ciò che nessuno ha pensato

Peccato di Pantalone, pronta assoluzione.
Leggo sui media della scontata notizia di questa ennesima assoluzione, Ma se in Italia ormai i giudici assolvono ogni giorno i responsabili di centinaia o forse di migliaia di morti a causa dell’amianto, che cosa volete che siano i “peccatucci” dell’ex-cavaliere? La sua definitiva assoluzione da parte della Corte di Cassazione, è un evento destinato a lasciare comunque il segno. Sicuramente come la si pensi sulla vicenda, pro o contro si deve prenderne atto con rispetto. Mi viene da riflettere con l’assoluzione si può fare questo tipo di ragionamento che il personaggio in questione non sapeva che la ragazza partecipante alle famose, voluttuose e chiacchierate “cene”, fosse minorenne. Ma allora è davvero la nipote di Mubarak? Affidare una minorenne ad un consigliere regionale non è illecito? Chiamare da Presidente del Consiglio in questura e mentire sull’età, seppure inconsapevole, e affidare una ragazza in chiaro stato confusionale non conferisce reato? Potrei proseguire per ore sui dubbi circa questa assoluzione. Ma preferisco parlare di una questione, anche se molti fanno finta di non aver sentito e capito, morale che mi sta a cuore come cittadino contribuente italiano, il dovere morale e laico sancito dall’art. 54 della Costituzione repubblicana di “adempiere con disciplina e onore” a ogni pubblico ufficio e tanto più al massimo ruolo di governo. Certo, oggi, è stato assolto ma l’assoluzione non coincide sicuramente con un diploma di benemerenza politica e di approvazione morale! Queste sentenze non fanno ridere e quelli che ridono, ridono amaro. Come diceva un simpatico personaggio del capolavoro di Monicelli “La grande guerra”: “Peccato di Pantalone, pronta assoluzione”. E così IL Patrio Stivale va avanti, anzi indietro, facendo lo slalom tra uno scandalo e l’altro e prendo atto che nonostante l’assoluzione da parte della Cassazione, il declino e l’eclissi politica di questo personaggio è oramai inevitabile, come per Napoleone anche per lui si avvicina S.Elena!
Favria, 19.03.2015 Giorgio Cortese

Sicuramente non posso ridere di tutto e di tutti, ma ci posso sempre provare ogni giorno