Futuro. – Trigomiro o trogomigo – Settembre. – Il tempo della vita – L’attualità delle Metamorfosi – Esercizio del grazie – La pagina bianca, l’inizio dell’avventura. – La forza del latino – La Sicilia luogo dei miti – Ajassin. -La vite, e in vino veritas! – Marte, Venere e Vulcano. – Gotham City -Abbainare…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Futuro. La parola futuro significa ciò che sarà o accadrà in un tempo a venire; il

tempo che verrà. La parola deriva dal latino: futurus participio futuro del verbo esse essere. Questa parola è una declinazione dell’essere. Ancora non esiste perché, lungo la sicura linea del tempo, ci sta davanti, un davanti che però non vediamo, che qui davanti al computer, adesso, non posso indicare: si sviluppa attimo per attimo da una dimensione informe, enorme di promesse o di minacce.

In grammatica, in diverse lingue troviamo il futuro indicativo, un imperativo futuro, un infinito futuro, un participio futuro. In italiano il futuro dell’indicativo, detto anche fututo semplice, in quanto formato, nell’attivo, di una sola parola: io farò, io andrò, per distinzione dal futuro anteriore,  tempo composto, che rappresenta anch’esso un’azione futura, ma passata rispetto a un’altra futura, avrò fatto, sarò andato.

Il  futuro italiano proviene da una precedente forma perifrasi del latino volgare: darò da dare habeo; in varie lingue, invece, la perifrasi, procedimento espressivo consistente nell’usare, anziché un termine unico, un insieme di parole che quel termine definiscono o suggeriscono,  è ancora presente: così in tedesco, dove si ricorre all’ausiliare werden, divenire, o in inglese, dove si utilizza shall, dovere  e will, volere.

Nel mondo, esistono delle popolazioni, che  hanno un’idea invertita di passato e futuro: per loro il passato sta avanti, perché è noto, si vede; il misterioso futuro arriva alle spalle. E forse non sarebbe una cattiva immagine da adottare forse così potremmo capire meglio che il pianeta blu, la Terra, non è eredità dei genitori, ma prestito dei figli. E specie in un momento di grave incertezza sul futuro, come questo, può essere una prospettiva che rende equilibrio nell’imprimere ciò che potrà o dovrà essere. In conclusione la parola futuro, è necessaria e piena di promesse, ma anche di preoccupazioni e di incertezza, soprattutto per chi ha perduto casa o lavoro o affetti o luoghi. Sarà complicato imparare a fare i conti con il futuro e con il passato, perché i confronti saranno difficili tra due tempi che rischiano di essere molto diversi, come prima e dopo una guerra.

Favria, 30.08.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata.  Ogni giorno cerco di trattenere quello che vale la pensa di tenere e poi, con il fiato della gentilezza soffio via il resto. Felice

Trigomiro o trogomigo

Avete mai avuto la sensazione di essere preda di un raggiro? Oppure ancora, la sensazione che qualcuno cospirasse alle vostre spalle mente voi, ignari, procedevate in buona fede? Ecco, la parola che in piemontese che definisce queste sensazioni: trigomiro.  Una parola che pare uno scioglilingua; il suo gioco di lettere fa presagire proprio ad un raggiro, con cui vi è anche assonanza. In piemontese si dice trigomigo o trogo miro per indicare un pasticcio, impiccio o anche raggiro. Pare che derivi, secondo gli esperti dal larino tricas, cosa da poco, impedimenti, fastidi oppure dal lemma latino triconem, persona che raggira dallemma latino tricari, usare raggiri o sotterfugi. La seconda parte della parola migo o miro potrebbe essere un’alterazione scherzosa della prima parte, probabilmente alterazione scherzosa che va a creare un suono labirintico, metafora di imbroglio che non lascia scampo. Secondo altri la parola deriva dall’occitano marsigliese rigoumigo, che è la smorfia, dunque conseguentemente una maschera unita al e il piemontese intrig, intrigo.  La maggior parte delle volte, viene citata infatti soltanto la prima parte della parola, trigo. Nella fattispecie quando qualcuno esclama pianta gnun trigo – sta esortando l’interlocutore a non fare confusione, a non complicare le cose più di quanto lo siano di già. Tra le filastrocche tradizionali che riguardano i paesi, ce n’è una irriverente che tira in ballo, anche se in senso lato, la parola di oggi: va pian, va fòrt, ma ‘ntȓig-te mài con coi ëd Monfòrt, senza avere nulla verso gli abitanti di Monforte che, tra l’altro, sono anche simpatici!

Infine con il termine trigomigo si indica anche un insieme storie che s’intersecano tra loro. Un tempo queste storie venivano raccontate da cantastorie che giravano per i paesi e oltre a raccontare questi uomini compravano oggetti, vendevano unguenti, guarivano da piccoli e grandi mali. Oppure erano leggende che si ascoltavano al calore della stalla, riscaldati da mucche compiacenti, nelle sere d’inverno, alla luce di un’unica lampada, precusori della rubrica “Il cantastorielle” della rivista del Candido di Guareschi, su proprio lui quello di Peppone e don Camillo, ma questa è un’altra storia.

Favria, 31.08.2022   Giorgio Cortese

Buona giornata. Oggi 31 Agosto: il malinconico sapore della fine dell’estate. Addio, mio bel mese d’agosto. Tu chiudi le tue porte come la spiaggia chiude gli ombrelloni, come le case chiudono le terrazze, come i fuochi d’artificio chiudono l’estate, come chi ha avuto la prima cotta estiva chiude il suo cuore. Felice  martedì.

Vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo oggi a FAVRIA  VENERDI’ 2 SETTEMBRE  2022, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

 Settembre.

A settembre e febbraio giorno e notte sono uguali. Settembre chiude l’estate, ci riporta alle consuete occupazioni ritemprati e rinnovati. Ci ricompensa degli ozi perduti con giornate dolcissime, splendenti e luminose, tiepide, mai troppo calde o troppo fredde. Ci dona la dolcezza dei suoi frutti: uva, fichi, pere, mele, le prime castagne sfuggite ai ricci. E la dolcezza contiene in sé anche la malinconia: le ore di luce diminuiscono, le foglie cominciano a ingiallire, qualche folata di vento già le stacca. Settembre è mese di una felicità sommessa.

Favria, 1.09.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. A volte mi manca quell’età in cui l’unica ansia e problema che avevo a settembre, era finire di colorare il libro dei compiti per le vacanze. Felice

Vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo oggi a FAVRIA  VENERDI’ 2 SETTEMBRE  2022, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

Il tempo della vita

 Certi giorni gli anni hanno il sapore del tempo, delle stagioni invecchiate, appassite buttate via. Pare che il tempo beffardo si diverte a disegnare tristi pareti di solitudine dotate di un fascino grigio nell’alba appena nata. Ecco siamo prigionieri dei ricordi, di un passato logoro, polveroso e pare che la vita scorra indolente tra illusioni e rimpianti. Poi alzo lo sguardo e sorrido nell’immaginare dietro alla nuvola un bellissimo sole. Rifletto che nella vita quotidiana posso ricevere tutti i regali possibili, posso essere in possesso di qualsiasi bene materiale, ma cosa c’è di più importante del tempo? Tempo per amare la vita, per vivere, arricchire me stesso miei affetti. Tempo per viaggiare, sentire, provare, rischiare. Il tempo per ritagliarmi un posto in questo mondo per arricchire sempre il mio animo con ottimismo!

Favria, 2.09.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Settembre ha sempre il retrogusto della fine e dell’inizio, che è sempre un concentrato di “è tempo di”. Un punto in mezzo a tutto il resto. Felice 

L’attualità delle  Metamorfosi

Nelle Metamorfosi, Ovidio racconta più di duemila anni fa dei personaggi mitologici che stanno ancora cercando sè stessi, immaturi e inaffidabili, l’amore, il desiderio di soddisfazione fisica. Esseri umani che osano sfidare le divinità e che, infine, viene punita, l’invidia e l’ira che si traducono spesso in duelli. Temi e storie poi riprese da tutta la letteratura e che ci parlano di noi oggi qui nel presente. Pensate che le Metamorfosi sono scritte venti anni dopo l’Eneide, ma sono differenti, in quanto il poeta non è più grancassa del potere di Augusto e del suo programma politico. Se nell’Eneide di Virgilio il protagonista è Enea personaggio che più di ogni altro incarna la tradizione romana, che cerca di fare scordare al popolo il terribile periodo delle guerre civili che avevano dilaniato Roma, con Ovidio abbiamo l’opposto. Qui non  c’è un solo eroe Enea ma un grande numero di personaggi legati insieme solo dal tema delle metamorfosi, il cambiamento. Con Ovidio  non più un protagonista dall’identità salda e dai forti ideali, ma più spesso personaggi che stanno ancora cercando se stessi, talvolta ancora immaturi e inaffidabili con una  trama narrativa  mutevole e imprevedibile.  Le Metamorfosi sono una raccolta di tutti i grandi miti classici, un grande repertorio d’immagini e di personaggi per la fantasia degli scrittori di ogni epoca. Non a caso Dante pone Ovidio tra i grandi di tutti i tempi, nel Limbo, dopo Omero e Orazio, subito prima di Lucano. Nel Paradiso della Divina Commedia Dante apre con  due miti ovidiani, l’episodio di Marsia, sconfitto e scorticato da Apollo, e la trasformazione di Glauco in divinità marina. Marsia e Glauco sono emblemi rispettivamente della presunzione umana e della grazia divina.  Questo tema lo troviamo già nell’Inferno dove  il poeta ha evidenziato nel canto I, la superbia che si traduce in desiderio di autonomia e il riconoscimento che l’uomo ha bisogno di essere salvato da un Altro. Gli stessi miti ovidiani sonoripresi più volte all’interno delle tre cantiche assumendo significati differenti. Mi viene da citare il mito di Fetonte e di Dedalo e Icaro oppure alla storia di Giasone che nel terzo Regno diventa emblema del viaggiatore baciato dal successo. L’importanza delle Metamorfosi sarà notevole nelle letteratura, non è certo Ovidio l’inventore dei miti, ma la rielaborazione e la rilettura da lui condotte renderanno immortale la memoria di quelle storie, come il mito di Adone  nella letteratura, nell’arte e nella musica del Rinascimento e del Barocco, e qui il nome Adone diventerà per antonomasia sinonimo di giovane bellissimo. Nel 1623 Giovan Battista Marino scriverà il poema L’Adone, uno dei più lunghi mai scritti nella storia della letteratura. Shakespeare nel 1593 scriverà il poemetto Venus and Adonis e Monteverdi nel 1639 musicherà il libretto di P. Vendramin, rappresentato a Venezia nel 1639. Altro celebre mito quello di Narciso che ha generato la parola narcisismo per descrivere quegli atteggiamenti che hanno in comune la tendenza all’ammirazione e all’amore di sé che porta all’incapacità di amare l’altro. Il mito di Narciso descrive il destino di distruzione e di morte che attende noi esseri umani e la nostra civiltà in quanto ci avvitiamo sempre più su noi stessi in maniera egocentrica e autoreferenziale incapaci di riversare l’amore sugli altri. Ovidio aveva già  compreso  come la storia dell’umanità non sia altro che una lunga e perpetua catena di metamorfosi e tra dei e mortali non c’è alcuna differenza. Sia gli uni che gli altri si lasciano andare a capricci e passioni, e il poeta non li giudica mai, regalandoci il dono di capire che anche in un sasso nascosto in un greto fangoso può celarsi la storia di un dramma umano meritevole di non essere taciuto. Le metamorfosi di Ovidio sono il poema dell’umanità nonostante il confino, la relegatio, una sorta di esilio, nella lontano e gelido Mar Nero a gelida Tomi, nell’odierna Romania, colpevole secondo l’imperatore con le sue opere di avere offeso la religione e i costumi di Roma, offrendo modelli pericolosi e inaccettabili. Ma la  relegationon affossò le Metamorfosi nè la poesia di Ovidio, infatti, saranno lette da tutti portando a ogni latitudine  la fama eterna di Ovidio

Favria 3.09.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Che belle le sere blu di settembre dove la luce morente dell’estate ha la dolcezza delle palpebre, quando il sole si è addormentato. Felice

Esercizio del grazie

Esercire, esercizio, esercitare, esercitarsi, esercitazioni, esercito. Quello di esercizio è un concetto che abbraccia un vasto novero di significati: lo svolgimento di una professione, la gestione di un’impresa, l’impresa stessa e perfino l’attività economica che svolge in un dato periodo ad esempio l’esercizio finanziario; l’allenamento del corpo a certi movimenti o discipline, arrivando con l’essere in esercizio al significato di buona forma fisica e abilità, ma anche l’allenamento della mente, mi viene da pensare a quanti esercizi di matematica abbiamo fatto o chi ha fatto esercizi dello spirito, ad esempio coi celebri e durissimi esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Infine, può arrivare a significare anche “uso”: mi riferisco all’esercizio della forza o del potere. Forse l’immagine originaria del concetto di esercizio, sottesa a tutti questi significati, si trova nell’uscire fuori e nell’allontanarsi: fuori dalla sicura pace domestica a conquistare abilità nuove; muoversi all’esterno manifestando una capacità. Un concetto vitale, per quanto implichi una certa scomodità: il verbo latino arcere ebbe in origine, quando emerse dall’indoeuropeo, anche i significati di travagliare, molestare, ma come affermava  Dante nel XXIV dell’Inferno: “seggendo in piuma,/ in fama non si vien, né sotto coltre.” Come si vede quante parole sono generate dalla stessa parola che portano a pensare dall’apprendimento alla guerra, passando dal commercio alla ginnastica. Guarda caso, le guerre così quella in corso, cominciano spesso in forma di esercitazione. Truppe vengono schierate in una zona che è di confine non solo nel senso geografico, di qua è Russia, di là è Ucraina, ma anche nel senso politico: stando di qua è pace, andando di là è guerra. E poi la parola esercito che in origine  in origine designava proprio la rivista militare di  schierarsi,  insomma il dispiegamento di forze che esercita, dal latino exercitus, esercizio, qui l’esercito esibisce la sua pronta disponibilità. Ma il biblico Dio degli eserciti è da sempre emblema di una nazione  che   ha la migliore artiglieria e i migliori generali. Il lugubre Gott mit uns, il blasfemo “Dio con noi” dei nazisti, dovrebbe far riflettere su tutte le infami strumentalizzazioni a cui sono sottoposti i simboli e le idee religiose, crocifisso compreso. Un altro francese, il maresciallo Henry Turenne ribadiva che “Dio sarebbe sempre dalla parte dei grossi battaglioni”. Bisogna, perciò, evitare ogni contaminazione della religione con interessi politici, economici o di parte. Non umiliamo la religione piegandola a nostro vantaggio; lasciamo che essa conservi la sua forza di verità e di amore universale; non strattoniamo Dio a nostro uso e consumo, riducendolo a idolo perché la locuzione biblica Jhwh sebaot, “Signore degli eserciti”, non rimanda tanto alle armate ebraiche di soldati, quanto piuttosto a un’immagine marziale applicata a Dio per celebrare la trascendenza e la signoria cosmica: nella fattispecie gli “eserciti” sarebbero gli angeli e le costellazioni celesti. È solo dall’italiano del Trecento che la parola “esercito” ha cominciato a specializzarsi nel suo senso militare. Sino ad allora quel che chiamiamo “esercito” si diceva: “oste” e in Dante “essercito”, con due “s”  significava perlopiù “moltitudine.  Come si vede la parola esercizio dal lemma latino dal latino exercitium, da exercère, composto da ex fuori e arcere ‘allontanare’, che però in origine aveva il significato di molestare e tenere in esercizio. Mi soffermo sul secondo significato, tenere in esercizio la grazia dell’amicizia e la gratuità.

Questa parola ha una mole di parole che ne derivano: grazioso, graziare, aggraziato, disgrazia,ingraziarsi, ringraziare, sgraziato. Quanti sentimenti positivi assolutamente fuori dal comune si concentrano in questa parola assolutamente comunissima. Pronunciarla, anche sola, ha l’effetto proprio di sferrarla completamente in tutta la sua massa, svincolata, liberandola in ogni sua articolazione. Quando si pronuncia un grazie, davanti anche al gesto più minuto, perfino anche solo dinanzi all’intenzione, vi si appone un inestimabile marchio di valore, che nobilita oggetto e soggetto, un marchio intrecciato, complesso, consapevole,  simbolo, segno e vessillo insieme di favore amicale, di bellezza e piacere, di gentile e autentica riconoscenza, insomma di quella gratitudine sentita che è propria di chi sa l’intima statura delle cose, l’altezza vertiginosa a cui quel valore, riconosciuto, si eleva, anche se in fondo è solo un “grazie”, o no!

Favria,  4.09.2022   Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno con difficoltà cerco di mettere in pratica l’umiltà per non perdere la più bella delle virtù. Felice

La pagina bianca, l’inizio dell’avventura.

Ci siamo mai domandati  cos’è la pagina bianca? Una pagina intonsa che aspetta di essere scritta con parole che trasmettono le nostre emozioni. La pagina bianca da sempre è un’iniziale contemplazione della purezza che, nello stesso istante, innesca il desiderio di profanarla per lasciare traccia del nostro umano passaggio? Questo dipende da noi nel disporre dei simboli, le nostre parole per trasmettere cosa vogliamo fare leggere agli altri, poi se non lo facciamo immediatamente, o se non riusciremo mai a farlo, non è paura nello scrivere, ma mettere nero su bianco i nostri pensieri, sia su un foglio di carta che su di uno schermo di un computer, per iniziare l’avventura, come adesso. Iniziare a scrivere significa proprio oltrepassare la soglia del foglio bianco, incidere sulla carta, perché scrivere deriva dal latino scribere, che etimologicamente vuole dire incidere, lasciare impressi i segni. Possiamo quindi immaginare l’atto dello scrivere come un atto scultoreo: il legno, la roccia, il marmo, rendono meglio la fatica di questa scrittura iniziale e, di conseguenza, l’attenta valutazione di cosa incidere. Noi scriviamo su un foglio bianco. Il bianco è un colore superiore perché assomma tutti i colori, mentre noi, che scriviamo, almeno io scribacchio solo, siamo solo quello scuro, una macchia di simboli che infrangono il colore immacolato.

Quando iniziamo a scribacchiare, assaporiamo il gusto di sporcare il foglio bianco, il riuscire ad abbattere anche questa volta, con ogni argomento, la pagina bianca perfetta.

Poi se lo scritto non piace e appatoliamo la carta per  lanciarla nel cestino o spegniamo lo schermo del computer dove possiamo correggere e riscrivere sopra, ecco che allora l’incanto svanisce e sparisce quel brivido di adrelanina  come quando abbiamo provato prima di scrivere e poi  l’insoddisfazione che tutto sia finito.

Ma dopo essere riusciti a macchiare il foglio e la sua inarrestabile scomparsa provoca in noi piacere, sempre ogni volta.

Del resto, le storie che leggiamo allietano e conquistano proprio perché leggendole troviamo dei sentimenti ed emozioni che ci mettono in sintonia con lo scritto.

Le parole che scriviamo si susseguiranno sulla pagina, una dietro l’altra, formando una catena via via più lunga e stringente, tutto diventerà progressivamente legame, relazione a volte passando per strettoie di congiuntivi. Poco per volta come abili tessirori daremo una trama al racconto, con l’ordito delle parole  e le pagine che si accumuleranno tracciando un solco  vergato di  simboli.

Si abbiamo usato vergare, con il significato  di tracciare linee parallele come nello scrivere a mano una volta nelle pergamene, parola che deriva da virga, verga, bastone.

Una volta lo scriba tracciava impalpabili linee, prima di intingere il pennino e disegnare le lettere, in modo che le sue righe fossero perfettamente dritte, come i quaderni di scuola con le righe prestampate.

Il  gesto del segnare queste linee, il vergare, è sempre stato talmente caratteristico dello scrivere a mano che il suo nome è passato a intendere lo scrivere a mano stesso, non senza una certa solennità.

Mi immagino lo scrivere come tracciare di continuo dei solchi, dritti ad ogni riga dove io come un mulo trascino l’aratro dei miei pensieri, e l’emozione  guida il giogo con la semina delle parole.

Ma a volte nello scrivere non seguiamo la direzione di quel quieto e faticoso solco,
scavato con le nostre stesse mani. A volte ci piacciono i colpi di scena o la suspense. Cos’è il colpo di scena se non la capacità di trovare ancora spazio per una deviazione? Cos’è se non una ribellione alla prevedibilità? La meraviglia del lettore è nello scoprire che, nonostante il cammino sia segnato, ci sia ancora spazio per una brusca sterzata. La suspense, invece è simile, come una sosta del respiro. Se nell’esistenza reale l’unica direzione del tempo è la progressione regolare, chi narra può restringerlo o dilatarlo, accelerare o esasperare l’attesa.  Con lo scrivere possiamo trasformare il chrònos in kairòs, il tempo cronometrico in un tempo che porta il soggetto fuori da sé. Anzi, forse è grazie a questa facoltà, di cui beneficia anche il lettore, che tutti amiamo le storie. Nello scrivere molte volte facciamo piazza pulita delle azioni scontate, per calarci parola dopo parola im un  tempo emotivamente più denso, ripulito dalle scorie della prevedibilità.

Ecco al foglio finalmente scritto, parola dopo parola abbiamo macchiato la pagina bianca nel parlare appunto di essa.

L’idea iniziale si è trasformata in inchiostro, parole su parole. Le emozioni dall’animo sono state trasformate in parole e di questa trasformazione non ho la formula matematica.

Come si vede scrivere è l’arte non soltanto di cercare la parola che più combaci con l’idea, ma quella di entrare in relazione con chi mi legge, nel trasmettere e comunicare emozioni.

Scrivere non è solo mettere nero su bianco ma stringere un patto faustiamo con le parole e storie. Tradirlo, beh allora si perde il fascino dello scrivere o no!

Favria, 5.09.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana le piccole cosa hanno la loro importanza, è sempre per le piccole cose che ci si perde. Felice

La forza del latino

Il  greco ed il latino non sono affatto “lingue morte”, sono più vive di quanto immaginiamo, ed in particolare il latino è racchiuso dentro le parole che pronunciamo ogni giorno, fa parte della nostra storia e del nostro presente. Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, la capitale francese ha deciso di dare voce al proprio dolore e alla propria forza attraverso le parole:”Fluctuat nec mergitur”, la nave che “È sbattuta dalle onde ma non affonda”. Il latino è una lingua tuttora in grado di dare un senso alla nostra identità, lo strumento espressivo che è servito e serve a fare di noi quelli che siamo.  La conoscenza del Latino permette di apprezzare maggiormente molti aspetti della realtà. Lo studio di una lingua antica e morta insegna a ragionare e sviluppa la logica.  In primo luogo, l’esperienza c’insegna che il Latino spalanca la comprensione del presente come epoca che è figlia di un passato. La nostra tradizione occidentale ha le sue radici nella cultura greca, in quella romana e in quella cristiana. Il ragionamento, la filosofia, il gusto della bellezza, sono in gran parte eredità lasciataci dai Greci, il diritto, il senso dell’unità dello Stato,  provengono dai Romani, l’avvenimento cristiano ha, poi, introdotto una nuova concezione della persona, della civiltà, della società, etc. Quindi, studiare la civiltà, la letteratura e la lingua latina significa conoscere le proprie radici, è un po’ come conoscere meglio un proprio genitore. Permette di cogliere ciò che accomuna l’uomo di oggi all’uomo antico e, nel contempo, introduce alla comprensione del cambiamento avvenuto nei secoli. La lingua e la parola raccontano la storia di una civiltà, dell’evoluzione umana, della cultura di un popolo. Vorrei qui portare un solo esempio. Pensiamo al vocabolo cultura. Il fascino di una parola risiede nel fatto che essa descrive una storia, racconta una parte dell’avventura umana. Il verbo latino colo, che è alla base della parola cultura, sottolinea e descrive il passaggio dell’uomo dalla condizione nomade a quella sedentaria. Il verbo significa coltivare, abitare, venerare. Un popolo che diventa sedentario ha imparato a coltivare la terra, la abita e venera le divinità del luogo. Nel termine cultura risiede questo radicamento nelle proprie origini e nella propria terra, senza il quale non è possibile crescere e dare frutti. Da questo radicamento scaturisce la possibilità di trarre linfa vitale, ovvero la possibilità di germogliare, di crescere nel fusto e di dare frutti buoni. Capiamo allora che la cultura non ha a che fare con la conoscenza di tante componenti della realtà, ma deriva da un passato, il terreno in cui siamo cresciuti, la tradizione,  e si apre ad una domanda sul presente e sul futuro. La lettura delle grandi opere della letteratura latina, di Virgilio, di Orazio, di Seneca, di Cicerone, per citare solo qualche nome illustre,  permette di incontrare i grandi del passato, di confrontarci con loro,  di scoprire il loro pensiero, i loro vertici artistici.

Favria, 6.09.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. I giorni di settembre hanno il calore dell’estate nelle loro ore più centrali, ma nelle sere che si allungano c’è il soffio profetico dell’autunno. Felice

La Sicilia luogo dei miti

Oltre Atene e il Partenone, la Sicilia fu il luogo dei miti. E lo è ancora, la Grecia non è solo il Partenone, o Atene. Terra arida e inospitale, la Grecia ha sempre costretto i suoi figli a viaggiare, disperdendoli in tutto il Mediterraneo, sviluppando colonie fiorenti, e città meravigliose. Soprattutto in Italia meridionale, la Magna Grecia: Taranto, Reggio, Crotone,  e ancora di più in Sicilia. I primi a saperlo erano proprio gli Ateniesi, quando nella città si era diffuso il “mal di Sicilia”, come scriveva lo storico Tucidide, quando nel  415 a.C., il desiderio per quella terra lontana, si era diffuso come un morbo tra le strade di Atene. Sognavano quelle lande misteriose, s’immaginavano come i padroni del mondo, una volta che anche la Sicilia fosse stata loro. La spedizione che organizzarono contro Siracusa si risolse in una catastrofe. I soldati superstiti furono rinchiusi e fatti morire di fame nelle latomie, grotte ancora oggi visibili nel parco archeologico della città, non lontano dall’isola di Ortigia. In Sicialia, in estate si allestono le tragedie e commedie, di Eschilo, Sofocle, o Euripide. La  Sicilia lontana e misteriosa faceva parte a pieno titolo del mondo greco. Era lungo le sue coste che Ulisse aveva dovuto superare le sue prove più difficili: Scilla e Cariddi, che inghiottono ogni nave; le mandrie del dio Sole che non andavano toccate e che i suoi marinai mangiarono, e pagarono tutti con la morte; o ancora Polifemo. Il viaggio di Ulisse in Sicilia entra in un mondo di giganti, ninfe e divinità mostruose.

Ed è sempre in Sicilia che è ambientato il mito forse più bello. Il viaggiatore che avesse la pazienza di lasciare le coste assolate, inerpicandosi per le alture che incombono da lontano, si sarebbe imbattuto in un lago inquietante, dalle acque calme e scure, senza fiumi in entrata o uscita. E’ il lago di Pergusa, dove si aggirava Persefone, quando Ade, il signore degli Inferi, l’aveva rapita. Demetra, la madre, era quasi impazzita cercandola. Non pensava ad altro, e i campi avevano smesso di offrire le loro messi. Era dovuto intervenire Zeus in persona, per renderla alla madre, e rimettere tutto a posto. Solo per metà dell’anno, però, perché Persefone, assaggiando un chicco di melograno, si era legata per sempre al regno degli Inferi. È il ciclo della vita e della morte che sempre si ripete, e non è cosa di poco conto lo spettacolo raro delle onde del lago che s’increspano.  Più a nord ancora, risalendo verso la costa settentrionale, e poi in mare verso le isole del sole, le Eolie appunto, era il regno del fuoco. Perché la Sicilia è terra di contrasti, tutta l’Italia lo è, come avrebbe spiegato Platone nel mito che chiude il Fedone. Sembra un prodotto della sua fervida fantasia la descrizione di corsi d’acqua e laghi che scorrono accanto a fiumi di fuoco e di lava rovente. È una descrizione accurata della Sicilia e dell’Italia meridionale, Vulcano, e l’Etna,  la terra dei fuochi. Del resto, non aveva imparato a sue spese anche Proserpina che sotto quelle lande così belle si celava il regno degli Inferi? E Platone sapeva di quello che parlava, visto che in quell’isola, a Siracusa, era stato ben tre volte, su invito del sovrano Dionisio. Ci era andato nella speranza di fondare la sua città perfetta. Un’idea ridicola, con una conclusione prevedibile. I rapporti si erano presto deteriorati mentre il sovrano cercava di spiegare a Platone il suo pensiero. Nel corso di una delle interminabili cene che scandivano le notti a corte, seccato da alcuni commenti del filosofo sulla giustizia, il sovrano lo aveva apostrofato, dicendo che le sue parole sapevano di rimbambimento senile.”E le tue invece sanno di tirannide”, il filosofo aveva prontamente risposto. Era stato venduto come schiavo, e si salvò solo perché sulla piazza del mercato lo aveva poi riconosciuto un amico, riscattandolo e rispedendolo ad Atene. Una sorte diversa da quella di Eracle, che non lontano da lì aveva compiuto una delle sue imprese mirabolanti, rubando la mandria di Gerione. Una mandria composta di buoi dal pelo rosso, perché è tutto rosso in Sicilia, l’isola dove tramonta il sole. E ancora: Taormina, Selinunte, la Grecia che si confonde con Cartagine nella zona più occidentale… non mi  resta che andare e iniziare a cercare. I secoli passano, ma i Greci sono ancora lì

Favria a 6.09.2022   Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana le grandi cose sono spesso più facili di quanto si pensi. Felice

Ajassin.

Ajassin, occhio di pernice, durone, callo dei piedi. La parola ajassin ricorda qualcosa di piccolo ma che provoca fastidio, un dolore acuto. Sfociamo così nel lessico della sanità, pur sapendo che la parola di oggi non è un termine prettamente medico. La zona del corpo che maggiormente viene colpita dagli ajassin (indistintamente singolare o plurale) sono i piedi, soggetti appunto a ispessimenti cutanei per lo più di consistenza dura, causati da uno sfregamento continuo e ripetuto, o per effetto di una pressione eccessiva a carico dell’area affetta. Dunque, come anticipato dal titolo, si tratta di calli, duroni, occhi di pernice. I disagi dell’ajassin provocano difficoltà nella camminata o, anche soltanto, infilandosi le scarpe. I rimedi per la rimozione passando per creme, cerotti o persone pratiche in quella materia che riescono ad incidere ed estrarre la zona interessata. Devo confessare che questa parola è in lista d’attesa da un po’ di tempo. Me la suggerì un’assidua e cara lettrice della rubrica, curiosa soprattutto dell’etimologia di questa parola così diversa tra italiano e piemontese. Lì per lì, quando me la suggerì, ci inoltrammo in una serie di tentativi etimologici molto fantasiosi ed esilaranti. Per esempio, scherzando, abbiamo pensato che potesse arrivare dalla reazione esclamativa conseguente al dolore provato, cioè: ahi, sassìn! Poi è venuto in mente che nel piemontese di queste parti l’ajàssa è la gazza, termine che può essere traslato simile all’italiano occhio di pernice (sebbene siano volatili differenti). In ogni caso, il dizionario Neuv Gribaud ci dice che un tempo il callo, sia in provenzale, sia in francese antico, era già chiamato agacin. Il passo verso ajassin è davvero breve. E quando qualcuno ci dà fastidio e vogliamo rimproverarglielo con una metafora, lo reguardiamo così: sgnacme nen j’ajassin! (non mi schiacciare i calli!). Da queste parti, però, c’è un sinonimo assunto dall’italiano che indica i calli: càj. Molto meno efficace e sonoramente meno doloroso di ajassin. Diminutivo ma severissimo.

Favria, 7.09.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana i grandi uomini mostrano tutta la loro grandezza nel modo in cui rispettano i loro simili. Felice

La vite, e in vino veritas!

Quando beviamo un buon bicchiere di vino forse non ci rendiamo conto che la storia di questa pianta e del suo frutto  risale, secondo gli storici, a novemila o diecimila anni fa a.C.,  quando, fortuitamente, è stato prodotto e consumato nella zona del Caucaso. Da profano, accostarmi alla vite e al vino non è facile,  quello che posso dire è che la vite e il vino raccontano la storia del suo territorio ma anche dei suoi uomini. E dentro questa storia, si racchiudono i miti, le leggende, la fatica degli esseri umani nel trasformare l’uva in vino, che tenterò di narrare.  

Come si può dedurre il vigneto e il vino sono stati una parte importante delle società fin dall’antichità, intimamente associati alla loro economia e alla cultura popolare tradizionale. Il vino è divenuto nel tempo sinonimo di festività, convivialità e purtroppo anche di ubriachezza. La sua esistenza è frutto di una lunga storia turbolenta.

Nel Mediterraneo la vite è stata introdotta dai Fenici dal mare Pontus Axeinus, ovvero Mare inospitale, così chiamato allora dai Greci l’attuale Mar Nero, che non ha mai goduto di buona fama. Ma furono proprio i Greci, i primi a operare delle selezioni, insegnando poi ai Romani varie tecniche di coltivazione che permisero, insieme alle scelte delle varietà migliori, una produzione di vino abbondante e costante.  I Greci vi dedicarono anche un culto, quello di Dionisio, che poi sarà traslato dai Romani in Bacco. Nella nostra penisola pare che già gli Etruschi avessero delle conoscenze approfondite sulla vite e il vino.

Nella Bibbia la vite e il vino vengono citati, attribuendo a Noè la coltivazione della prima vigna, descritta come “uno dei beni più preziosi dell’uomo”, mentre il vino viene elogiato perché “rallegra il cuore del mortale”, per arrivare al primo miracolo di Gesù alle nozze di Cana.

Passiamo ai miti degli antichi Sumeri che parlano dell’epopea di Gilgamesh. In uno dei racconti si narra che alla morte dell’amico Enkidu, l’eroe re di Uruk, si spaventò talmente tanto che decise di cercare un rimedio alla morte, conscio che tale sorte sarebbe toccata anche a lui in futuro. Durante questa ricerc, Gilgamesh incontrò Siduri, la donna del vino e ostessa sacra che viveva in un vigneto vicino al mare. La donna saggia, alla richiesta di indicazioni per evitare la morte, offrì vino a Gilgamesh, consigliando all’eroe di lasciare perdere quella ricerca disperata e preferire le gioie della vita.

Arriviamo poi al mito greco dove Zeus (Giove), molestatore seriale, tra le varie amanti mortali iniziò ad avere una relazione con una principessa chiamata Semele, figlia del re di Tebe. La relazione si svolgeva di notte, così che non potessero essere visti, ma Era (Giunone), moglie di Zeus, una volta scoperto il tradimento e preso atto che Semele era incinta di suo marito, andò su tutte le furie.  Per evitare le ire della moglie, Zeus scagliò un fulmine e uccise Semele, ma decise di salvare il bambino, Dionisio, che diventerà finalmente Bacco. Giunone detestava questo figlio di suo marito, e Dionisio fu costretto a girovagare tra i popoli, sempre in fuga, ma Bacco, grazie  alla sua capacità di mutare sé stesso e gli altri in vite, grazie al dono di Zeus, venne accettato nell’Olimpio tra gli dei, e adorato dagli uomini come dio del vino.

Riprendendo la storia della vite, i Romani furono invece i protagonisti della seconda introduzione della vite e lavorazione del vino, introducendo la pianta e il frutto in tutta Europa, anche in paesi freddi come la Germania, la bassa Inghilterra e il nord della Francia, dove oggi vengono prodotti i famosi Champagnes. Al tempo dei Romani la produzione di vino abbondava, anche quella di basso costo per le classi meno agiate. Dagli scritti di Catone, Plinio e Columella possiamo oggi  conoscere i metodi di produzione, le attrezzature e i sistemi di allevamento molto avanzati per l’epoca. Naturalmente la caduta dell’impero significò anche la caduta della produzione e l’introduzione di nuove bevande sostitutive, di scadente qualità in buona parte dei territori da loro assoggettati.

Nel Medioevo le coltivazioni subirono un’ulteriore contrazione a causa dell’abbandono delle campagne. Il vino divenne un affare quasi esclusivo del clero che conservò tecniche e coltivazioni dall’estinzione. Solo nell’Alto Medioevo la vite ricominciò lentamente ad espandersi anche grazie ai sempre più fiorenti traffici commerciali, che andavano ad incontrare le esigenze della popolazione.

I grandi traffici commerciali contribuirono altresì all’espansione della vite anche verso le Americhe e nell’ultimo secolo verso l’Australia. Furono le colonie anglosassoni le più interessate, grazie alla passione che questi popoli hanno sempre avuto verso le bevande alcoliche. Questo però costituì anche un problema per l’Europa, che vide l’introduzione di nuove malattie della vite, come l’oidio, la fillossera e la peronospora.

La fillossera, un afide proveniente dal Nord America, costituì un serissimo pericolo fin da subito e in particolare alla metà dell’Ottocento, quando un’epidemia particolarmente devastante mise in serio rischio di estinzione la pianta stessa, salvata solo grazie all’aiuto delle viti americane, dapprima introdotte per sostituire direttamente le varietà europee, nonostante la loro scarsa qualità, e poi con l’utilizzo dei soli portainnesti, che consentirono così di conservare la vite europea. I portainnesti americani infatti erano immuni alla fillossera e da allora quasi tutte le uve europee li utilizzano. La cosa curiosa è che l’unico paese al mondo esente dalla filossera fu il Cile, questo dovuto alla sua posizione geografica.

Con il frutto della vite la storia umana ha compiuto una grande conquista, trasformando un frutto dalla conservazione passeggera in vino, grazie al lavoro umano, senza  il quale non esisterebbe del buon vino e berremmo solo aceto! Concludo con Moliere: “Grande è la fortuna di colui che possiede una buona bottiglia, un buon libro, un buon amico”.

“Libiam, libiamo ne’ lieti calici, che la bellezza infiora e la fuggevol,/  fuggevol ora s’inebriì a voluttà”

Prosit!

Favria, 8.09.2022 Giorgio Cortese

Marte, Venere e Vulcano.

Un altro passo molto bello, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, vede protagonisti Marte, Venere e Vulcano e parte dal racconto di un adulterio. Venere, moglie di Vulcano, si innamora di Marte e con lui tradisce il marito nella propria camera nuziale. Il Sole scopre l’adulterio e lo rivela subito a Vulcano.  Quest’ultimo naturalmente si arrabbia molto e decide di vendicarsi in un modo alquanto originale: costruisce intorno al letto nuziale una rete invisibile, così che i due amanti, colti sul fatto, restino intrappolati. Ma la vendetta di Vulcano non finisce qui: egli infatti decide di deridere Venere e Marte chiamando a raccolta tutti gli dèi intorno al letto nuziale dove sono intrappolati gli adulteri, così da coinvolgere dei testimoni del ‘fattaccio’. Infine sarà Nettuno a liberare i due amanti dalla rete invisibile costruita da Vulcano. Anche in questo mito descritto da Ovidio, troviamo delle importanti metafore.  Innanzitutto, vi è il Sole che rivela l’adulterio a Vulcano: questo è un chiaro simbolo di verità, dell’importanza della sincerità. Il Sole è la luce che squarcia le tenebre della menzogna. I due amanti, vengono intrappolati infatti in una rete invisibile: la gabbia della menzogna che loro stessi hanno generato.

Favria, 9.09.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Gli alberi che sono lenti a crescere portano i migliori frutti. Felice 

 Gotham City

New York prima di essere definita Big Apple,“la città che non dorme mai”o Empire City, come la chiamava George Washington,  era Gotham. A darle questo nome nella rivista letteraria Salmagundi fu nel 1807 lo scrittore Washington Irving, famoso per i suoi racconti su Sleepy Hollow, portati sul grande schermo da Johnny Depp. Nulla c’entra la Gotham City inventata da Bill Finger, il coautore di Batman, che prese ispirazione dal nome di una ditta di gioielli trovata sull’elenco telefonico. Il termine gotham risale invece all’Inghilterra medievale e nei proverbi inglesi indica il villaggio dei folli, da goat, capra, usato forse da Irving per evocare l’eccentricità dei newyorchesi, qualità che di certo non mancava a lui e ai suoi amici, giovani letterati dediti al divertimento. Lo skyline. Nel 1866, alla fine della Guerra di secessione americana (1860-1865), la città contava 800mila abitanti ed era un agglomerato concentrato al di sotto della 23a strada, come scrive Esther Crain in The Gilded Age in New York, 1870-1910. L’edificio più alto era la Trinity Church, con la sua guglia di 85 metri. La Fifth Avenue era una strada sconnessa e ci voleva un lungo viaggio in carrozza per arrivare a Central Park. Brooklyn si raggiungeva solo imbarcandosi su un traghetto per attraversare l’East River. Alla fine del secolo era tutto cambiato e la città cominciò ad acquisire il suo caratteristico skyline a mano a mano che venivano costruiti i suoi grattacieli.

Favria, 10.09.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana il perdono non cambia il passato, ma allarga il futuro. Felice

Abbainare.

La parola chiave è abbainare” espressione che rimanda ai richiami chiassosi dei venditori dei mercati di Palermo. Un linguaggio pubblicitario sui generis pieno di allusioni e metafore,  funzionali alla vendita dei prodotti esposti. Una liturgia, insomma, che quotidianamente si ripete nei tre mercati più grandi della città: la Vucciria”, Ballarò” e il Capo”. Visitare questi luoghi è esercizio indispensabile per approfondire il genius loci” del capoluogo siciliano in cui sono ancora evidenti le influenze della lungadominazione araba. Tracce che rimandano ai termini utilizzati per attirare i compratori, ma anche alla capacità dei mercatali di accogliere gli extracomunitari che negli ultimi anni hanno aperto bottega a fianco le attività storiche. Insomma, il kebab con crocchè e arancine.

In una parola: Mediterraneo.

Favria, 11.09.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nel momento in cui cessiamo di amare, cessiamo di esistere. Felice

Vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo oggi a FAVRIA  MERCOLEDI’ 12 OTTOBRE  2022, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio