Gli scacchi sul ghiaccio, il Curling! – La bardana! – Covare il covo, cubare! – La rudis – Il numero sette – Re Sigurd, il crociato! – Le migrazioni…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Gli scacchi sul ghiaccio, il Curling!
Il curling, detto anche bocce su ghiaccio, è uno sport di squadra nel quale si gioca sul

ghiaccio con pesanti pietre di granito levigate, dette semplicemente pietre, Stone in inglese, dotate di un’impugnatura. I giocatori, suddivisi in due squadre, fanno scivolare queste pietre su un pavimento di ghiaccio verso un’area di destinazione, detta casa, contrassegnata da tre anelli concentrici.
La parola curling appare per la prima volta in una stampa del 1620 a Perth, nella prefazione in versi di una poesia di Henry Adams on. Il gioco era noto anche come The Roaming Game, il gioco che ruggisce, a causa del rumore caratteristico prodotto dalle Stone che scorrono sul ghiaccio.

Il nome curling non è altro che il verbo, to curl, utilizzato in inglese per descrivere l’andamento curvilineo del percorso della Stone, pietra. 

Nel passato le Stone, pietre, erano semplicemente sassi di fiume a fondo piatto, a volte dentellate o di forma irregolare.

I giocatori, a differenza di oggi, avevano scarso controllo sul sasso, e si basavano più sulla fortuna che sull’abilità o sulla strategia.

Si racconta che a Darvel, in Scozia, i tessitori si rilassassero giocando a curling. Le Stone usate erano i pesi di pietra dei filatoi, dotati di un manico staccabile. Fra una partita e l’altra, più di una moglie teneva la maniglia in ottone del marito per le Stone da curling, lucidata fino a brillare, sulla mensola del caminetto.  Le sue origini si perdono in secoli lontani, ma generalmente l’invenzione di questo gioco viene fatta risalire al XVI secolo, in Scozia. La datazione è confermata da un ritrovamento, avvenuto durante il drenaggio di un antico stagno a Dunblane, una cittadina situata nella parte centrale della Scozia: una grossa pietra di granito, grezzamente sbozzata, con sopra inciso “STIRLING 1511” e per questo divenuta famosa come la Stirling Stone.

Il gioco doveva essere in realtà già diffuso nella prima metà del 1500 in nord Europa se in due famosi dipinti di Pieter Bruegel il Vecchio sono immortalati alcuni contadini olandesi intenti a giocare sul ghiaccio con delle pietre.

Il gioco, nato in Scozia, in principio, si faceva scorrere una pietra, Stone, il più lontano possibile. Poi si passò a cercare di lanciarla fino ad un punto prestabilito, puntando non più sulla forza bruta, si lanciavano pietre di granito, pesanti più di 40 kg., ma sulla precisione. Come si può facilmente immaginare il Curling richiama il famoso gioco delle bocce, in specifico nel libero, quello su ghiaia battuta. Nonostante il passare dei secoli e l’introduzione di innovazioni tecniche, questa disciplina ha mantenuto invariato il suo antico stile di gioco.

Tornando al gioco le due squadre, ognuna composta da quattro giocatori, lanciano a turno le pietre con un effetto detto curl, roteare in inglese, grazie al quale la pietra percorre una traiettoria curvilinea. Ogni squadra ha a disposizione otto lanci per ogni intervallo di gioco, detto end, in cui ogni giocatore lancia due pietre.

Lo scopo del gioco è di accumulare, nel corso della partita, un punteggio maggiore dell’avversario. I punti si calcolano in base al numero di Stone più vicine al centro della casa alla conclusione di ogni mano. Una mano si completa quando entrambe le squadre hanno lanciato tutte le proprie pietre. Un gioco può essere costituito da dieci o da otto mani.

La traiettoria curvilinea può essere ulteriormente influenzata dall’azione delle scope da curling, che vengono usate per abradere la superficie del ghiaccio di fronte al sasso alterandone le caratteristiche. Strategia e gioco di squadra determinano il percorso ideale e il posizionamento della pietra in ogni lancio; il compito della squadra è far sì che la pietra arrivi nel punto desiderato. Per la strategia e la tattica applicata questo sport è soprannominato scacchi su ghiaccio sul ghiaccio”.

In Italia nel 1953 il FISG, Federazione Italiana Sport del Ghiaccio, riconosce il curling come attività sportiva. Il Curling ebbe successo in Italia come disciplina alternativa, che permetteva ai villeggianti di diversificare la loro voglia di neve. Per questo la culla di questo sport nella nostra penisola è Cortina, la perla, delle Dolomiti, che importò nel nostro paese la disciplina per rendere ai loro ospiti più gradevole la vacanza. 

Oggi con la medaglia oro a Pechino, parafrasando l’indimenticabile Gian Pier Piero Galeazzi nel 1988 alle Olimpiadi invernali di Calgary che dopo la storica doppietta di Tomba “la bomba” disse che gli italiani potevano gridare con orgoglio la celebre frase “Siamo tutti dei grandi sciatori”.

Da oggi siamo tutti lanciatori di pietre.

Favria, 15.02.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Da lontano, ho visto un mostro. Avvicinandomi, ho visto un fratello. Parlandogli, ho trovato un fratello, proverbio indiano. Felice martedì

La bardana!

La bardana, arctium o arctium lappa, è una pianta perenne della famiglia delle Asteraceae, conosciuta come dermopatica e utilizzata per acne, dermatiti, eczema, seborrea, forfora e psoriasi. Questa pianta è diffusa nelle zone temperate dell’Europa e dell’Asia, compreso Giappone. In Italia la bardana è abbastanza comune in tutta la penisola, infestante, diffusa dalla pianura alla montagna, nei terreni incolti, vicino ai vecchi muri e nei sentieri. Il nome Arctium, come tanti altri, fu introdotto nella sistematica da Linneo, ma sicuramente l’origine è più antica. Arctium in greco vuol dire orso. il nome  deriva dalla parola di greco antico àrcteion che significa orso, tale nome era in uso, per identificare la pianta, già ai tempi di Dioscuride, medico greco, vissuto nel I secolo d.C., con molta probabilità il nome fu dovuto all’aspetto peloso della pianta stessa. Per quanto riguarda, invece, la specie di appartenenza “lappa“, il nome dovrebbe derivare addirittura dal termine celtico llap che significa mano, dovuto anche in questo caso ad un’altra caratterista della pianta, i fiori, infatti, si attaccano a qualunque cosa li sfiori, come una mano che si aggrappa a ciò gli passa accanto. Il significato del nome lappa venne, però, utilizzato anche da Plinio il Vecchio il quale sosteneva che il nome deriva dal termine greco labein che significa attaccarsi o aggrapparsi. La pianta è conosciuta fin dall’antichità come ortaggio e pianta medicinale. Nell’antica medicina popolare era antidoto contro i morsi dei serpenti velenosi e dei cani affetti da rabbia, ciò indica quanto valore si attribuisse alla capacità della bardana di “penetrare” in profondità e di “attaccare” con i fiori uncinati. Vi sono numerosi documenti storici che attestano l’uso della bardana sin dall’antichità, effettivamente fu una pianta coltivata per moltissimi secoli, veniva impiegata sia come ortaggio, quindi a scolpo alimentare, che come pianta medicinale, veniva infatti utilizzata come rimedio in caso di infezioni gravi ed epidermide. Secondo alcuni dati storici, il medico italiano Pena riuscì a guarire Enrico III di Castiglia (1379-1406) da una malattia infettiva della pelle utilizzando gli estratti di bardana. Inoltre, esiste un antico proverbio di epoca medievale legato alla bardana e le sue proprietà che ne testimonia l’efficacia e l’uso “se la vecchiaia vuoi tener lontana, fatti amiche cicoria e bardana”. Una leggenda vuole che, durante la notte di solstizio, lanciando i fiori di Bardana sulle spalle della persona amata senza essere visti, questa si legherebbe a colui o colei che li lancia.

Un’antica tradizione popolare voleva invece che le ragazze in età da marito dimostrassero la loro scaltrezza e abilità portando non viste quanti piú fiori possibile, per poi lanciarli sui ragazzi prescelti: se quest’ultimi non se ne fossero accorti, la ragazza avrebbe ricevuto dal prescelto tanti baci quanti i fiori impigliati negli abiti. La curiosa Bardana è stata fonte di ispirazione per George de Mestral, l’ingegnere svizzero inventore del velcro, che nel 1948 lo realizzò e nel 1955 lo brevettò.

Il nome “Velcro”, nasce dalla combinazione delle parole francesi velours, velluto, e crochet, uncino. Ancora oggi è prodotto e commercializzato in tutto il mondo.

Una curiosità la pianta della Bardana viene menzionata anche da Sheakespeare nel Re Lear: “Essi non sono altro che bardane, ve lo assicuro; si riappiccicano dove sono stati scacciati”, questa la definizione che dà dei parenti del sovrano nella famosa tragedia.

Favria,  16.02.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno trovo qui sui social  qualcuno a cui raccontare qualche storia per avere la  possibilità di vivere un’altra volta. Felice mercoledì

Covare il covo, cubare!

Il verbo covare deriva dal latino cubare, stare coricato, giacere. E pensiamo subito alla chioccia che cova le uova, le tiene sotto di se per comunicar loro il calore necessario allo sviluppo dell’embrione e alla nascita dei piccoli pulcini. Si usa anche per dire covare le lenzuola, per chi poltrisce a letto, covare la cenere per indicare una  persona freddolosa o oziosa che se ne sta pigramente presso il fuoco. Ma anche per dire gatta ci cova per dire che c’è sotto qualche mistero o qualche imbroglio. Diversa e meno bella la parola covo, che significa tana, luogo segreto di riunione, specie per attività illecite, l’origine è sempre la stessa dal latino cubare, giacere ma nel covo non resta nemmeno un’ombra dei tratti materni del covare e dell’amorevole chioccia. La parola covare è una paretimologia, parola che indica il processo con cui una parola viene reinterpretata sulla base di somiglianze di forma o di significato con altre parole, deviando dalla forma o dal significato originario.  Tra il IV e il VI secolo d.C. il latino popolare, già più simile al volgare di quanto si possa credere, presentava difficoltà a distinguere il suono b da quello v. oggi a noi  può sembrare strano, ma è proprio per questo che si passa dall’imperfetto latino a quello italiano, come in laudabam, io lodavo. Ho scritto questa premessa perché come già detto all’inizio il verbo latino cubare,  significa:  giacere, coricarsi. In questi secoli, però, le persone meno colte tendevano a pronunciare qualcosa come  cuvare, e ci sentivano dentro  ovum, cioè uovo. Ciò portò a fare un’erronea ma affascinante associazione di idee: l’uccello che si corica sulle uova per riscaldarle. E così nasce il nostro covare, usato propriamente per l’accovacciarsi sulle uova.  Dalla stessa voce  è giunta fino a noi il lemma cubare che significa oltre a giacere anche calcolare la cubatura. La parola deriva dal greco kubos, dado, che ha poi dato la forma geometrica del cubo. Dal cubo arrina anche le parole come incubo, succubo e concubino,  che scaturiscono proprio dal cubare latino, forte di significati più articolati, anche riguardanti al dormire e all’avere rapporti sessuali. Originariamente, nella tradizione romana, l’incubo e il succubo erano demoni, rispettivamente di genere maschile e femminile, che si univano sessualmente,  giacendo sopra o sotto,  alle persone dormienti, fiaccandone l’energia vitale e le capacità procreative. E i concubini altri non sono che coloro che illegittimamente condividono il letto con qualcuno. Tutte parole che passano per quel giacere che il cubare significa.

Favria, 17.02.22 Giorgio Cortese

Buona giornata. Possiamo avere più o meno tante conoscenze, ma le dita di una mano sono troppe per contare i veri amici. Felice giovedì.

La rudis

La rudis era una semplice spada di legno che veniva assegnata ai gladiatori a fine carriera. E aveva un grande valore simbolico. La rudis era una semplice verga o una spada di legno che veniva assegnata ai gladiatori a fine carriera. Possibile che, dopo tanti anni di fatiche e sacrifici, i combattenti sopravvissuti alle lotte cruenti negli anfiteatri ricevessero un oggetto tanto umile? In realtà, a dispetto del suo scarso pregio economico, la rudis aveva un incommensurabile valore simbolico, perché la sua assegnazione liberava il gladiatore dall’obbligo di esibirsi nelle arene. Essa, inoltre, veniva utilizzata dalle giovani reclute per impratichirsi nella lotta all’interno delle caserme, andando così a simboleggiare l’arte stessa della gladiatura. 

Se ricordate il film il Gladiatore di Ridley Scott, il personaggio di Proximo, ex combattente divenuto lanista, i lanisti erano istruttori o proprietari di una scuola per gladiatori, a cui l’imperatore Marco Aurelio aveva dato la libertà insignendolo, appunto, della rudis.

Alcuni autori ipotizzano che il rudis potesse essere anche il bastone maneggiato dagli arbitri nell’arena. Peraltro, i gladiatori non erano gli unici a maneggiare armi inoffensive durante l’addestramento: nel trattato militare L’arte della guerra, lo scrittore Publio Flavio Vegezio (IV secolo d.C.) scrive che la formazione dei legionari avveniva utilizzando uno scudo di vimini simile a un canestro, cratis, e  una robusta spada di legno molto simile a una rudis, chiamata clava.

Tanto i soldati quanto i gladiatori, raccontano i contemporanei scrittori romani,  imparavano a maneggiare queste finte armi contro un palo conficcato nel terreno e combattevano come se avessero di fronte un avversario in carne e ossa. Vegezio racconta che si confidava molto nell’efficacia di questo tipo di esercitazione, ecco infatti cosa scrive a tal proposito: “Né l’arena né il campo di battaglia hanno mai accettato qualcuno come invincibile nelle armi, se non colui che si era allenato con diligente esercizio al palo.

Favria,  18.02.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Il fatto è che non è difficile fare amicizia, ma la difficoltà è mantenerla quando si cresce davanti alle sfide che ci mette la vita. Felice venerdì.

Il numero sette

Il numero sette è considerato fin dall’antichità un simbolo magicoe e religioso della perfezione, perché era legato al compiersi del ciclo lunare. Gli antichi riconobbero nel numero sette, un numero increato, poiché non prodotto di alcun numero contenuto tra 1 e 10. Presso i Babilonesi erano ritenuti festivi, e consacrati al culto, i giorni di ogni mese multipli di sette. Tale numero fu considerato simbolo di santità dai Pitagorici. I Greci lo chiamarono venerabile, Platone anima mundi. Presso gli Egizi simboleggiava la vita. Da sempre gli esseri umani misurano tutto il mondo, per conoscerlo e per conoscere se stessi e qui parlo delle sette unità che misurano l’Universo. Sono sette ingredienti che mescolati tra loro permettono di quantificare qualsiasi fenomeno, dagli affettati presi al banco dal salumerie quando si va a fare la spesa, dal misurare la frebbre, fino bosone di Higgs, per arrivare alle onde gravitazionali generate da uno scontro tra buchi  neri.  I sette ingredienti sono il chilogrammo, il metro, il secondo, la mole, la candela, l’ampere e il kelvin. Ogni giorno usiamo le  unità di misura per conoscere ciò  che ci circonda, ma anche per  conoscere meglio noi stessi e  perfino il nostro rapporto con il   soprannaturale. La divinità egizia Anubi era raffigurata con   una bilancia con cui pesava il cuore dei   defunti prima di ammetterli  nel regno dei  morti. Da queste sette unità di misura ne derivano molte altre che sono decine.  Se devo acquistare una casa devo conoscere la superficie, la cui unità di misura sono i metri quadrati. Se invece devo scegliere la batteria per la mia automobile, devo conoscere la tensione, che si  misura in volt. E un volt si tiene  moltiplicando un chilogrammo per un metro al quadrato e  dividendo per un ampere e per un  secondo al cubo. Insomma, usando  quattro delle sette unità  fodamentali.  Gli esseri umani hanno sempre cercato di misurare quello che avevano intorno per conoscerlo meglio, ci  sono tracce antichissime di   tacche su barrette di avorio o su  pietre che registrano le fasi lunari.  Una sorta di calendario  preistorico. E poi l’uso del corpo  umano come strumento di misura,  che resiste fino ai nostri giorni nei  nomi di certe unità, come piedi e  pollici. Pur nella variabilità delle stature, una spanna è più o meno  la stessa ovunque, circa 20 centimetri,  e poteva essere usata  per comprare stoffe in Cina come a Venezia. Grande successo ebbe  nell’antichità anche il cubito, la  distanza tra il gomito e le punta delle dita della mano: è in cubiti  che Dio dà a Noe le istruzioni per costruire l’Arca. C’è un equivoco  sul passo romano, che valeva un  metro e 48 centimetri, ma non  perché avessero chissà quale  falcata: era la distanza tra le impronte successive dello stesso piede, quindi due dei nostri passi. Poi grazie a due  rivoluzioni:  quella francese e, ancor prima,  quella scientifica di Galileo Galilei  che mette la misurazione al centro  del suo metodo hanno messo ordine alle varie unità di misura. I rivoluzionari  francesi invece liberano il pensiero  e le persone e sentono la necessità  di un sistema metrico decimale uguale per tutti, ma ci vorranno  anni prima che la novità si  diffonda. Nell’Europa ottocentesca  si trovavano ancora unità diverse addirittura tra città limitrofe.  L’ultima rivoluzione è  recentissima, risale al 2018, quando gli scienziati hanno deciso di ridefinire le unità del sistema  internazionale non più in base a  eventi periodici o a manufatti  umani, come per esempio il  cilindro di platino e iridio che  rappresentava il chilogrammo  campione. Il chilogrammo, il  metro e le altre unità fondamentali  sono stati definiti a partire da  costanti fisiche universali, come la  velocità della luce nel vuoto o la  costante di Planck. Ed è una vera  rivoluzione, perché significa  assumere che leggi naturali che  governano l’universo, pur essendo  state dedotte dagli esseri umani in base alle osservazioni, sono  immutabili e costituiscono una  base più solida per la misura del  mondo degli oggetti materiali. Una rivoluzione che va oltre i sistemi di  misura e coinvolge quello che sappiamo di noi e del mondo.

Favria, 19.02.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita  nutrire l’animo con le piccole le gioie quotidiane, è il modo migliore per vivere meglio. Felice sabato

Re Sigurd, il crociato!

Nel nostro immaginario i vichinghi hanno poco a che fare con il Mediterraneo. Li immagino lontani, protesi verso le isole britanniche, il nord della Francia, verso l’Islanda, la Groenlandia o addirittura le coste settentrionali delle Americhe, la mitica Vinland. Invece di gente del Nord che, nel corso del Medioevo, guardò al Mediterraneo con incanto e, perché no, cupidigia ce ne fu. E tanta. Eppure, questa presenza è stata spesso ignorata, considerata estranea rispetto al nostro scenario. Ancora una volta una vicenda nascosta, sottratta alle nostre percezioni, ritenuta lontana, marginale.  Oggi Vi voglio parlare del re di Norvegia Sigurd Magnusson. vissuto tra 1089 e 1130. Perché parlare di lui al cospetto del Mediterraneo? Per un motivo preciso: che dal 1107 fu protagonista di un’impresa eccezionale che gli regalò, in patria, un appellativo straordinario: Jórsalafari, l’«uomo che è andato a Gerusalemme. Come tanti re cristiani, anche Sigurd desiderava partecipare alle Crociate. Ma per farlo, visse un viaggio che sembra come addensarsi per gravità dalla periferia più estrema del mondo cristiano verso l’ombelico di esso, la Terrasanta. A seguire la spedizione si resta stupiti, per l’epoca in cui essa fu effettuata e per l’immensità degli spazi solcati. La flotta di Sigurd salpa nel 1107 dalla città di Bergen, in Norvegia, alla volta del Mediterraneo. Non era la prima volta. La strada era già stata aperta in precedenza, nell’844, poi nell’859 con la spedizione del capo vichingo Hásteinn che, con una flotta di 62 navi, raggiunse e mise a sacco la città di Algeciras, in Spagna, le Baleari e diversi centri nel Sud della Francia; e leggenda vuole che saccheggiasse anche Luni, in Liguria, scambiandola per Roma. Sembrava già allora un’epopea, considerate le distanze. Ma questa gente del Nord aveva dalla sua un’indole particolare: erano sì guerrieri pronti all’avventura ma soprattutto eccellenti marinai. Al centro di questa loro capacità, c’era una nave dal profilo nuovo, frutto di una tecnologia secolare, dalla tipica forma stretta e lunga, dotata di chiglia per affrontare le disagevoli condizioni dei mari del Nord e di un duplice ordine di remi oltre che di una vela quadra; ma che presentava un altro aspetto innovativo: la doppia prua, ovvero, poppa e prua egualmente rialzate e quasi simmetriche, progettate per ripartire rapidamente dal luogo di attracco, che spesso coincideva con il luogo di attacco, senza bisogno di invertire la nave.  Un’imbarcazione dai tanti nomi: langskip, nave lunga, snekkjail serpente o il più delle volte dreki, il drago, al plurale drekar, da cui drakkar, termine oggi molto in voga ma in realtà secondo gli storici inesistente nelle fonti. Erano  sessanta le navi della flotta di Sigurd e 5 mila gli uomini al comando di un uomo che, benché solo diciottenne, ha dalla sua fascino e autorità. Lo spinge verso l’imprevisto una doppia tensione: spirituale, da un lato, propria della esperienza crociata. Dall’altro, il desiderio di avventura, di fama, d’oro, tipico della cultura vichinga. Due facce della stessa medaglia che convivono perfettamente nella stessa persona del re. La rotta seguita fu davvero lunghissima. Dopo una sosta iniziale in Inghilterra per trascorrere l’inverno, la flotta raggiunse la Spagna. Prima toccò le regioni cristiane della Galizia poi al-Andalus, possedimento musulmano, saccheggiando numerose città. Superato lo stretto di Gibilterra, i norvegesi toccarono in successione le Baleari e la Sicilia, dove Sigurd incontra, alla corte normanna, un adolescente Ruggero II d’Altavilla. Da qui, la meta diviene Gerusalemme, dove il norvegese viene accolto caldamente da re Baldovino I, insieme al quale pianifica l’assedio di Sidone, città che cade nel 1110. Dopo l’impresa, Sigurd era sicuro di avere assolto al proprio voto da crociato. Poteva così riprendere di nuovo il mare, questa volta in direzione della più straordinaria città del Mediterraneo, Costantinopoli, dove per qualche tempo fu ospite dell’imperatore Alessio I Comneno. Ma qui il viaggio cambia forma: continua, con ciò che resta dell’esercito, non più per mare, ma per terra: attraverso la Bulgaria, l’Ungheria, la Baviera, la Sassonia, la Danimarca. Fu questa l’ultima tappa, prima del rientro in patria, nel 1111. Erano passati quattro anni, vissuti in una sorta di anabasi, sulla quale fiorirono subito racconti e leggende perché, scriveva Snorri Sturluson, 1179-1241, “tra gli uomini si diceva che nessuno, come Sigurd, aveva mai intrapreso un viaggio così onorevole”. Un crociato sui generis, Sigurd, figlio di un mondo lontano, la cui storia, arricchisce la nostra percezione di un Mediterraneo medievale che fu più ricco e vasto di quanto in genere ci immaginiamo

Favria,  20.02.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Conta la vera amicizia quando c’è qualcuno su cui puoi contare veramente. Felice domenica.

Le migrazioni

Le migrazioini umane a volte nella storia sono state provocate  da eventi naturali, come i Cimbri e Teutoni  che provenienti dalla lontana Danimarca arrivarono fino nella pianura padana scontrandosi con i Romani, oppure la Grande Seca brasiliana negli anni Settanta dell’Ottocento o il Dust Bow, conca di polvere, che colpì con particolare veemenza gli stati dove si estendono le Grandi pianure: Colorado, Kansas, New Mexico, Texas e Oklahoma  negli anni Trenta del Novecento. Prima gli irlandesi emigrati negli Usa e che a metà dell’Ottocento con la peronospera della patata aveva provocatro una carestia chiamata la Grande Fame. Andando indietro nella storia famosa è la migrazione dei Goti che chiesero protezione per entrare nell’impero data la forte pressione esercitata su di loro dagli Unni. L’imperatore Valente riteneva i Goti una banda di  straccioni  e costituisse un pericolo dato che nel 376 a Marcianopoli più di 5mila Romani guidati dal comandante Lupicino furono uccisi. Lo scontro tra Valente e i Goti avvene ad Adrianopoli  nel 378 e si  concluse con una nuova, sorprendente s confitta dei Romani e c on la morte dello stesso Valente. Secondo lo storico romano del tempo Ammiano Marcellino, si stava a prendo la strada che avrebbe portato alla rovina dell’Impero romano. In effetti si trattò della prima invasione di massa di barbari oltre il limes. ivasione, che, cento anni più tardi, si concluse con la caduta del’Impero d’Occidente. Dopodiché, trascorsi altri due secoli, anche il predominio dei Goti venne meno per l’arrivo dal Nord di un altro popolo di migranti, i Longobardi che invasero la penisola italca. In epoca moderna assistiamo con la scoperta nel 1545 delle ricchissime miniere di argento di Potosí, odierna Bolivia, che  nel volgere di un cinquantennio divenne una delle città più popolose e più ricche dell’emisfero occidentale, superata solo da Londra e Parigi. Per lo sfruttamento di quelle miniere il viceré Toledo escogitò un sistema di reclutamento che coinvolgeva circa quattordicimila indios, importati per un tempo di dodici mesi ogni sette anni,  da centoventicinque comunità sparse in una fascia dell’altopiano del Perù lunga 1.400 chilometri e larga 400. Un sistema che resterà in vita per due secoli e mezzo finché non verrà abolito da Simón Bolívar nel 1825.  Allota nel Cinquecento gli sopstamenti delle popolazioni venivano decisi per una politica di miglior  controllo di una popolazione tradizionalmente abituata a vivere dispersa su enormi e spesso impervie estensioni nel Nuovo mondo, poi per assicurare la conversione e l’indottrinamento ed infine per raccogliere maggiori tributi. In Europa dopo la Guerra dei Trentanni, 1618- 1648, in Germani  si sperimentò un nuovo fenomeno migratorio detto DrangnachOsten, la spinta verso Est, cioè l’espansione tedesca oltre l’Elba che pure affondava le sue radici nell’Alto Medioevo. Dopo la guerra dei Trent’anni, si sviluppò gradualmente una migrazione organizzata e finanziata da principi, vescovi, ordini religiosi, fatta di contadini tedeschi che si spostavano oltre i confini orientali.  Questo movimento fu  incoraggiato da Caterina di  Russia che, negli anni Sessanta delSettecento, finanziò l’insediamento dei coloni fornendoli di attrezzi, bestiame, sementi e concedendo vasti appezzamenti di terreno in  proprietà. Questa migrazione vincente e si si protrasse per decenni. Gli immigrati tedeschi, avevano dalla loro parte una importante innovazione tecnologica, erano provvisti dell’aratro pesante a ruote con coltro e vomere, avevano grosse scuri con c ui disboscare f oreste a ssai impegnative e dissodare, per messa a coltura, terreni tra i più pesanti. Questo successo migratorio venne ripreso nel Novecento dal Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler che teorizzava l’allargamento della razza tedesca verso est. Altre migrazioni furno dei genocidi di massa, come quello degli Armeni nell’impero toomano ad opera dei giovani turchi, dal 1912 fino al 1922. Poco tempo dopo, fu l’Unione Sovietica staliniana a provocare uno tra i più giganteschi spostamenti forzati di popolazioni ben descritti da Aleksandr Solženitsyn, ArcipelagoGulag, la descrizione minuta delle condizioni in cui avvennero gli spostamenti di popoli nell’Urss. In quel tempo per volere di Stalin milioni di persone vennero sradicate contro la loro volontà, dai loro storici insediamenti. Solo dopo il XX Congresso del Pcus (1956), nel quale Krusciov denunciò i crimini di Stalin, venne concesso a parte dei deportati di tornare nelle loro patrie. Come si vede le migrazioni nella storia, Non tutti i migranti ebbero i medesimi motivi per lasciare la loro terra e cercarsene un’altra. Alcuni furono cacciati in terra altrui dallo sterminio della loro città, fuggirono soccombendo alle armi nemiche e privati di ogni loro cosa,  altri furono spinti all’espatrio in seguito a sedizioni interne, altri ancora furono costretti ad andarsene per eccessiva densità di popolazione. Altri dovettero fuggire da pestilenze e terremoti. Come si vede i  fenomeni migratori si sviluppano, con meccanismi e modalità diversi nella forma, ma simili nella sostanza.

Favria,  21.02.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno affrontiamo la giornata con un sorriso, che è contagioso come un’epidemia. Felice lunedì.