Il gallo come simbolo – Coccodrillo e alligatore. – Album. – Dolce settembre. – Massacro di Rock Springs – L’oro verde. – I figli del vento…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

l gallo come simbolo Insieme al tricolore rosso, bianco e blu, al giglio, alla Marsigliese e alla

Marianna, il gallo è uno degli emblemi che rappresentano la Francia. I più lo collegano per associazione ai Galli, gli antichi Celti che prima della conquista da parte di Giulio Cesare (58-51 a.C.) abitavano il territorio transalpino. In effetti, il primo a rimarcare che il termine gallus in latino poteva indicare sia il volatile che un individuo appartenente alle tribù galliche fu lo storico Svetonio, vissuto tra il I e il II secolo d.C. L’animale, però, non aveva alcun valore particolare per i Galli, che riconoscevano come totemici, ossia rappresentativi delle proprie comunità, l’allodola, il corvo e soprattutto il cinghiale, incarnazione della forza e della tenacia. Ad attribuire per la prima volta il gallo ai francesi come popolo fu, nel Medioevo, Filippo II Augusto (1165-1223): rispondendo agli inglesi che ironizzavano sull’assonanza per denigrare i suoi, il re decise di rendere il volatile un simbolo in quanto spavaldo, rissoso e coraggioso, adattissimo quindi a incarnare lo spirito nazionale nella lotta contro i nemici. Il gallo venne usato nel Rinascimento su effigi reali e monete, ma fu durante la Rivoluzione del 1789 e negli anni immediatamente successivi che raggiunse la sua massima popolarità: campeggiava infatti sui berretti frigi dei rivoluzionari, sul sigillo del Primo Console e sulla bandiera della Guardia Nazionale. Napoleone tenterà invano di sostituirlo con l’aquila imperiale, ai suoi occhi ben più nobile e gratificante. Oggi il gallo, per quanto non ufficialmente, è usato soprattutto in ambito sportivo, onnipresente sulle divise della Federazioni nazionale di calcio e di rugby. Un gallo adorna anche diversi monumenti ed è assiso sul cancello del Palazzo dell’Eliseo, residenza del Presidente della Repubblica Francese.
Favria, 29.08.2023   Giorgio Cortese

Buona giornata.  Ogni giorno cerchiamo di affrontare i veri problemi che celnao opportunità e tralasciamo  il nulla delle amenità. Felice martedì.

Coccodrillo e alligatore.

Questi due rettili  vengono spesso confusi. Ebbene il coccodrillo e l’alligatore non sono lo stesso animale. La parola coccodrillo deriva dal greco e la  radice pare derivi dal sanscrito karkata, granchio. La parola  alligatore deriva dall’inglese alligator a sua volta deriva dallo spagnolo lagharto, lucertola. Per riconoscerli basta guardare il muso. Il coccodrillo ha un muso più a forma di V, mentre quello dell’alligatore è arrotondato, più a U. Per quanta riguarda il colore, gli alligatori sono più scuri, mentre i coccodrilli sono solo più lunghi. I primi preferiscono l’acqua salata, mentre gli alligatori amano trascorrere il tempo nell’acqua dolce. La possibilità di incontrare entrambi gli animali avviene solamente negli Stati Uniti, mentre in Cina risiedono soltanto gli alligatori.

Favria, 30.08.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. È nella natura degli esseri umani pensare in modo saggio e agire stupidamente. Felice mercoledì.

Album.

Oggi l’album significa un quaderno in cui sono raccolti autografi, motti, fotografie e collezioni in genere, oppure una  raccolta di brani musicali. La parola  deriva dal latino col significato di bianco, ma anche albo. L’etimologia della parola album è da ricondursi alla radice albh  o alf  da cui il greco alphòs,  bianco, e, per estensione, “superficie bianca che colpisce gli occhi”ed il latino albus, bianco, oggi in senso lato il  volume che raccoglie fotografie, francobolli, figurine o altro. Questo latinismo crudo è sempre nei nostri discorsi  e ha un successo globale. Ora, il fatto che album in latino sia il colore bianco possono averlo in mente tante persone, ma il percorso che porta da questo bianco alla raccolta di   brani musicali che ascolto sul vinile o sull’applicazione, passando per quella di figurine e francobolli, non è noto a tutti. Qualcuno penserà che c’entri il colore bianco della carta del quaderno, ma la realtà è un po’ più complessa e ci richiede un bel viaggetto nello spazio e nel tempo fra costumi sorprendentemente vicini a noi. Album nell’antica Roma non era solo il bianco, ma anche quello che oggi comunemente chiamiamo albo, ovviamente dalla stessa origine, cioè quella sorta di bacheca dove troviamo scritti annunci istituzionali. Insomma, in effetti non stupisce che sull’albo pretorio su cui scrivono i sindaci scrivessero anche i pretori romani. Si chiamava album perché semplicemente era una tavola sbiancata, anche nota come tabula dealbata, su cui magistrati e pontefici scrivevano nero su bianco e che veniva affissa in pubblico. E vi scrivevano cose importantissime per Roma, come gli annali e i censimenti dei senatori. Poi passano i secoli e arriviamo in Germania. Secondo alcune fonti nel Settecento, ma secondo altre già nel Seicento, studenti e dotti presero l’abitudine di raccogliere autografi di colleghi e conoscenti in quaderni rilegati, e presero a chiamare il quaderno che usavano così album amicorum, l’album degli amici.  La dimestichezza che costoro avevano col referente latino degli alba e con le loro antiche liste di fatti e nomi non deve stupire: ai tempi studiare diritto significava in buona parte studiare diritto romano, e questo era specialmente vero in Germania, e lo sarebbe stato ancora per un bel pezzo. Così questi album degli amici iniziarono a girare per l’Europa  e album ritorna in nell’italico stivale dal  francese, e a mano a mano ampliarono la loro funzione conservando giusto il nucleo di quaderno di raccolta. Prima con motti, versi, ritratti e disegni, poi con francobolli e fotografie. Quando i dischi musicali iniziarono a prendere piede si pensò subito a creare delle custodie che potessero contenerne diversi, specie perché all’inizio le tracce che si potevano incidere sull’intero lato di un disco avevano una durata massima davvero scarsa. Bei raccoglitori a buste. Begli album. Dal contenitore al contenuto con una facile metonimia, e col progresso tecnologico si arriva alla raccolta di brani musicali sul disco singolo, fino a quella del tutto smaterializzata. Il bianco c’entrava, ma si doveva passare per le affissioni romane sbiancate con la calce, per i libroni con gli autografi degli amici degli studiosi tedeschi di un’altra epoca e per gli eleganti raccoglitori in pelle per dischi 78 giri. Concludo con la locuzione latina : “albo signanda lapillo, da segnare con pietra bianca, sottinteso dies, giorno. Espressione, tratta da frasi usate proverbialmente da vari autori latini, che si ripete a proposito di giornata memorabile, di avvenimenti felici e insperati o in genere straordinari, e ogni giorno è memorabile perché siamo vivi.

Favria, 31.08.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Agosto finisce, sono scalzi i giorni, fioriti gli astri già si sente il freddo, ecco l’autunno simile ad una lumaca che sporge le corna. Felice giovedì

Dolce settembre.

L’estate è ormai giunta al suo termine, mentre settembre, mese che dà inizio alla stagione autunnale, ritorna. Ma perché, il nono mese dell’anno si chiama così? Il mese di settembre deve il suo nome alla sua originaria posizione all’interno del calendario romano. Il nome Settembre, deriva  dalla parola latina septèmber, settembre, a sua volta, è l’unione di  sèptem, sette con l’aggiunta del suffisso -ber/-brem,  ovvero,  tempo. Per cui, il termine settembre, volendo fare una traduzione letterale si può rendere letteralmente con “settimo arco di tempo”, quindi, il settimo mese dell’anno per l’appunto, posizione originariamente assunta all’interno dell’antico calendario romano. Così come luglio, chiamato  Quintilis, ovvero il quinto mese dell’anno cambiato poi in Julius, in onore di  Giulio Cesarenato proprio in questo periodo. Poi allo  stesso modo, Augustus, in origine Sextilis, successivamente così chiamato in onore dell’imperatore Augustto. Settembre deve sì il suo appellativo all’originaria posizione tenuta nel calendario romano ma, tuttavia, per un breve periodo mutò il suo nome in Germanico in onore al padre dell’imperatore  Caligola. Alla morte dell’imperatore, però, il suo nome tornò nella sua forma originale. Solo nell’ 89 d.C , fu nuovamente mutato in Germanico, questa volta, però, il cambiamento fu da attribuire alla celebrazione di una vittoria dell’imperatore  Domiziano dui Catti, antica popolazione germanica. All’assassinio dell’imperatore  Domiziano, il nome del mese fu nuovamente ripristinato. Durante la riforma del calendario operata dall’imperatore Commodo, al mese si attribuì il nome di Amazonius, tuttavia, anche in questo caso, il destino del nome riguardante il settimo mese fu di breve e fugace durata. Oggi l’inizio dell’anno non gennaio ma settembre, perchè è il mese in cui tutto inizia. Dai progetti personali a quelli lavorativi. Perché l’inizio dell’anno non è stato sempre il primo gennaio. Nell’antichità ad esempio, secondo lo stile fiorentino e pisano ma anche a Vienna e in Inghilterra, l’anno iniziava secondo la credenza del concepimento di Gesù: nove mesi prima della sua nascita, quindi il 25 marzo, vicino all’equinozio di primavera. Il cambiamento dello stile di vita in Occidente dal dopoguerra in poi ci ha portato a percepire mentalmente il vero e proprio inizio di un nuovo ciclo annuale a settembre. Ha contribuito l’inizio della scuola con l’inizio dell’autunno, le vacanze estive, lo spostamento dei lavori in casa per gli operai in ferie a settembre.  Oggi dobbiamo convincerci che la nostra vita  è un insieme di cadute e di momenti difficili da superare. Se tendiamo a vivere emozioni e vissuti angoscianti dobbiamo rivolgerci ad uno psicoterapeuta per capire perché ci siamo “inceppati”. Non esiste la sconfitta, esiste solo l’esperienza. Ogni errore, dopo un’attenta valutazione, ci può restituire un io più forte, più determinato, più felice. Dobbiamo guardare il futuro con ottimismo, perché esso è nelle nostre mani, in ogni nostra azione, anche quella che sembra più insignificante. Se proprio vogliamo essere infelici, è sufficiente vivere i giorni tutti uguali. Il cambiamento e i problemi da superare fanno parte della vita umana, vanno accettati e affrontati. E non siamo soli: dal senzatetto al più ricco degli imprenditori. Ognuno ha la sua sfida e può essere sereno nel migliorare la propria condizione e quella degli altri.

Favria,  1.09.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ecco che sono arrivati i giorni di settembre, con dell’estate il meglio del tempo, e dell’autunno il meglio dell’allegria.  Felice venerdì

Massacro di Rock Springs 

Negli Stati Uniti della seconda metà dell’Ottocento la tensione tra gli immigrati bianchi e quelli cinesi raggiunse il livello d’allarme, alimentata da pregiudizi razziali e da una dissennata politica padronale che lucrava sulla possibilità  di assumere manodopera orientale a costi più bassi di quella “bianca”, soprattutto irlandesi, gallesi e svedesi, già in parte sindacalizzata. Varata nel 1882, la “Legge di esclusione dei cinesi” stabiliva in tutti gli Stati Uniti un divieto decennale di immigrazione dalla Cina, ma fu preceduta dall’arrivo in massa di migliaia di immigrati dall’Oriente che di fatto ne vanificarono gli effetti. Molti di questi lavoratori finirono per essere assunti dalla Union Pacific e destinati alla posa della ferrovia, altri a lavorare nelle miniere di proprietà della stessa società. Come a Rock Springs, nel Wyoming, dove fino al 1875 nelle miniere operavano soltanto immigrati bianchi. In quell’anno i minatori diedero vita ad uno sciopero per rivendicare migliori condizioni di lavoro, ma nel giro di due settimane si videro sostituiti da altrettanti lavoratori cinesi. Mentre il risentimento contro i crumiri andava crescendo,  la Union Pacific aveva ripreso i lavori con 50 bianchi e 150 orientali, a Rock Springs apriva i battenti una sezione dei Knights of Labor, potente organizzazione sindacale statunitense, tra le prime ad alzare la voce contro l’invadenza dell’immigrazione cinese. La guerra tra poveri per uno stipendio da fame prosegui per alcuni anni in un crescendo di tensione tra bianchi e cinesi che ben presto assunse connotazioni razziali. Infine, esplose sanguinosa il 2 settembre del 1885, allorchè gli immigrati europei intimarono a quelli orientali di allontanarsi dalla miniera. Nella rissa che segui due cinesi furono brutalmente malmenati e uno dei due mori poco dopo a causa delle lesioni. Il lavoro venne interrotto e un gruppo di bianchi seguendo la linea ferroviaria marciarono verso la città. Poco dopo non meno di cinquanta minatori armati, divisi in due gruppi, fecero irruzione nel quartiere abitato dai cinesi. Presi tra due fuochi, molti immigrati orientali vennero ammazzati nelle loro case, quelli che tentarono di fuggire trucidati lungo la strada, altri ancora morirono nel rogo che in poche ore ridusse in cenere l’intera Chinatown. L’odio latente covato per anni esplose con una ferocia brutale e incontenibile: ci furono casi di impiccagione, decapitazione e smembramento dei cadaveri, molti dei quali vennero gettati tra le fiamme. Al termine del massacro le vittime accertate erano almeno 28 e 15 i feriti, ma altre fonti affermarono che i morti non erano stati meno di cinquanta. Il massacro ebbe una vasta eco in tutta la nazione e comporto un peggioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Tuttavia, dopo i primi arresti, la totalità dei sospettati per il massacro furono scagionati ed accolti con ovazioni da una folla festante. I cinesi sopravvissuti furono scortati dall’esercito nella città più vicina dove trovarono un aperto clima di ostilità e rimasero vittime di altri crimini. Dopo i fatti di Rock Spings, condannati dalla stampa locale che tuttavia supporto le ragioni degli immigrati bianchi, come d’altronde il sindacato, un’ondata di violenze anticinesi si propagò anche in altri stati dell’Unione

Favria,  2.09.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. I giorni di settembre hanno il calore dell’estate nelle loro ore più centrali, ma nelle sere che si allungano c’è il soffio profetico dell’autunno. Felice sabato

L’oro verde.

Originario dell’Oriente, l’olivo trovò terra fertile a Creta in età minoica, circa 4mila anni fa. Ne sono prova il ritrovamento di numerose anfore destinate alla conservazione dell’olio. Ma un gran numero di lucerne in alabastro, in marmo o in materiale meno nobile come l’argilla, così come presse e vasche di stoccaggio, forniscono ampia testimonianza di una vera e propria civiltà dell’olivo. I Fenici iniziarono a coltivare quest’albero più o meno nello stesso periodo dei cretesi ed è senza dubbio a loro che se ne deve l’introduzione in Egitto. Nella Valle del Nilo l’olivicoltura è attestata intorno al 1500 a.C. e l’olio veniva utilizzato nelle offerte agli dèi e ai faraoni e come ingrediente per la realizzazione di balsami e unguenti. La sua introduzione nella farmacopea egizia ne fece un prodotto ricercatissimo e di primo piano. Verso il 1800 a.C. l’olivo si diffuse in Grecia, come elemento fondamentale della civiltà palaziale micenea. Sembra che la coltivazione dell’olivo si sia poi definitivamente stabilita in tutta la penisola greca al tempo di Solone (640-558 a.C.), che promulgò specifiche leggi destinate a regolarla. Poco tempo dopo, nei suoi scritti, il drammaturgo Eschilo chiamò Samo “l’isola degli olivi”, fatto che probabilmente dimostra come anche le altre isole dell’Egeo si dedicassero già a questa coltivazione. Da allora, l’olio fu adottato come prezioso unguento per mantenere il corpo idratato, utile nelle battaglie navali quando faceva molto freddo, non c’erano ancora guanti e cappotti,  e nelle competizioni sportive. Sparta fece da apripista. Numerosi reperti raccontano l’importanza che l’olivo e l’olio rivestono per questa civiltà: nella cucina, per illuminare, nei ginnasi, ai funerali. E agli atleti vincitori veniva conferito come premio olio raffinato, riposto in anfore a due manici. In Italia l’oro verde iniziò a diffondersi in modo più capillare intorno al VII secolo a.C. grazie all’opera di mercanti fenici e coloni greci. Nelle città della Magna Grecia venne utilizzato in vari modi: non solo nell’alimentazione, ma anche nella cosmesi, nei riti religiosi, come medicamento, per la salute del corpo e per illuminare. Dato il ruolo sempre più importante dell’olio, ben presto Etruschi e altri italici iniziarono ad apprendere dai mercanti greci e fenici le tecniche per coltivare l’olivo ed estrarre il prezioso liquido dai suoi frutti. Fu così che nacquero in Italia innumerevoli oliveti. Furono poi i Romani a diffondere la pianta in tutti i territori dell’impero. E sempre loro classificarono l’olio in base alle tipologie di spremitura. Infine, l’idea portò con sé notevoli risvolti commerciali: il mercato, infatti, mostrò interesse e apparvero i venditori di olio. La  Commercializzazione fu razionalizzata e disciplinata con la creazione di una sorta di borsa merci dove erano trattati i prezzi di compravendita. Del resto per quanto riguardava vino e olio, l’industria era una risorsa per le comunità: un’organizzazione solo familiare non sarebbe bastata. Non a caso sono stati trovati resti di grandi fattorie in Giordania. E non a caso i re possedevano centinaia di ettari di oliveti.

Favria, 3.09.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. A settembre, c’è nell’aria una strana sensazione che accompagna l’attesa. E ci rende felici e malinconici. Un’idea di fine, un’idea di inizio. Felice domenica.

I figli del vento.

Il mito dei Gitani risale al XV secolo, quando un primo flusso migratorio proveniente dall’Europa centrale penetrò attraverso i Pirenei nella penisola iberica. Il gruppo fu considerato oriundo dell’Egitto Minore,  detto anche Piccolo o Basso .termine che allora nel Medioevo indicava l’attuale zona di Cipro e della Siria. È per questa ragione che i nuovi arrivati in Spagna sarebbero stati chiamati “egiziani”  e poi “gitani”; in Italia si passò alle forme “zigano” e “zingano”, che hanno dato origine a “zingaro”. Nel loro arrivo in Europa, i gitani ricevettero nomi molto diversi. Una possibile origine della parola “zingari” deriva sicuramente dal sanscrito tchinganes, “uomo di razze diverse”, ovvero come i rom chiamavano sé stessi. In Francia furono chiamati manouches, uomini, termine derivante dal sanscrito. Erano anche detti boemi per via del passaggio in questo territorio mitteleuropeo, o saraceni, perché venivano dalle terre dominate dall’islam. È senz’altro più corretto definire questo insieme di gruppi migranti e nomadi con le parole rom, che significa “persona, uomo”, oppure sinti, da Sindh, una regione del Pakistan occidentale dalla quale forse giunsero. Al giorno d’oggi, infatti, si ritiene che la popolazione rom abbia avuto origine nel nord-ovest dell’India, nel territorio del Punjab, sebbene alcuni studiosi individuino come nucleo fondativo l’attuale stato dell’Uttar Pradesh, più a est. Le principali tracce di origini indiane si riscontrano nella lingua parlata da alcune comunità sinti, il romanes, o romaní, che condivide parecchi vocaboli con il sanscrito. Per esempio, “vecchio” si dice in romanes puranoe in sanscrito purana; “albero” in romanes è ruke in sanscrito vrksa. I linguisti classificano il romanes tra i dialetti pracriti, ovvero indoarii medi sviluppatisi accanto al sanscrito, diffusi in India tra il VI secolo a.C. e l’XI secolo d.C. La storia dei rom precedente al loro arrivo in Europa presenta numerose lacune. La migrazione dall’India, iniziata sicuramente nell’XI secolo, si contraddistinse per diverse fasi e passaggi, nonché per vari percorsi intrapresi. Persia, Armenia e Grecia costituirono tre tappe importanti, e lo si può desumere dal fatto che il romanes possiede parecchi termini di origine persiana, armena e greca. Nel corso di questo spostamento i sinti presero a insediarsi più stabilmente quando raggiunsero l’Europa, e in particolare i Balcani, che ben presto iniziarono ad accogliere nutriti gruppi di nomadi. Questi territori possono dunque essere considerati la culla europea delle popolazioni rom. L’espansione dell’impero ottomano in Europa orientale, avvenuta intorno alla fine del XIV secolo, avrebbe poi mosso tali gruppi a intraprendere l’ultima fase della migrazione e a penetrare in Europa occidentale. Recarsi nei luoghi sacri del cristianesimo come Roma o Santiago de Compostela assunse per alcuni di loro il senso di un cammino di redenzione, di un pellegrinaggio E così nei primi anni del XV secolo in Europa occidentale s’inizia ad annotare la presenza di questo gruppo di popolazioni. Le prime menzioni di questi popoli nomadi in Assia risalgono al 1414; un cronista accennava all’arrivo a Lubecca, nel 1417, di una comitiva composta tra le trecento e le cinquecento famiglie. Un’altra cronaca annotava l’ingresso in Svizzera, l’anno seguente, di 14mila gitani divisi in più comunità. Nel 1424 giunsero a Ratisbona, sul Regen, altri gruppi numerosi, fino a trecento membri, con molte donne e bambini. Nei territori delle Fiandre si attestarono nel 1422 e a Parigi nel 1427. Agli ordini di uomini provvisti di titoli nobiliari, come quello di conte o di duca, i rom adattarono le proprie strategie al contesto religioso in cui si calavano, così da poter accrescere le proprie possibilità di sopravvivenza Per esempio una narrazione francese riferisce che nel 1427 “vennero a Parigi dodici penitenti, a loro dire, cioè un duca, un conte e dieci uomini, tutti a cavallo, che si dicevano buoni cristiani, originari del Basso Egitto”. Raccontarono di essere stati assaliti in passato dai musulmani e di essere stati costretti a cambiare fede, e che tempo dopo l’imperatore e altri regnanti cristiani li avevano nuovamente sottomessi e obbligati a tornare al cristianesimo, condannandoli a una vita da nomadi. Solo il Papa avrebbe potuto concedere loro delle terre, e per questo erano stati mandati a Roma. Sebbene di aspetto stravagante, assicuravano di appartenere alla nobiltà. “Quasi tutti avevano entrambe le orecchie forate e in ognuna di queste indossavano uno o due anelli di argento. Dicevano che nel loro Paese era segno di nobiltà”, aggiunge il resoconto. I sinti avevano con sé salvacondotti e lettere di protezione emanati dai sovrani di ciascun territorio. Per esempio a Basilea, nel 1422, il cosiddetto conte Michele del Basso Egitto e i suoi subordinati mostrarono una missiva del Papa simile a quella che sarebbe stata rilasciata ad Andrea, duca dell’Egitto Minore, nel 1423. Non vi sono però prove certe dell’autenticità di tali documenti, soprattutto perché la contraffazione era all’epoca un florido commercio. In alcune occasioni i rom suscitarono diffidenza e reazioni anche ostili. Una cronaca descriveva in tali termini una comunità giunta a Tournai, in Belgio: “La maggior parte di loro viveva di furto, soprattutto le donne, che erano vestite in modo sciatto e s’introducevano nelle case, alcune chiedendo l’elemosina  ed era difficile non perdere niente, pur stando in guardia”. Tra Spagna e Italia In Spagna un’iniziale ondata migratoria entrò dai Pirenei negli stessi anni in cui si diffondeva in altri Paesi d’Europa. Nel 1425 il re Alfonso V di Aragona autorizzò “il nostro amato e devoto don Giovanni del Basso Egitto” a viaggiare per un trimestre lungo i suoi possedimenti. Un successivo flusso migratorio penetrò nella penisola iberica nella seconda metà del XV secolo dalla Grecia, e per questo i suoi membri vennero detti “greciani”, pur finendo poi per essere inglobati nel più generico “gitani”. Intanto il duca Michele del Piccolo Egitto e il fratello Andrea, intorno al 1420, si diressero verso l’Italia. Il primo fu ucciso a Milano; il secondo “a dì 18 di luglio venne in Bologna con donne, putti, e uomini del suo paese, e potevano essere ben cento persone. Il qual duca avea rinegata la fede cristiana”. Negli anni seguenti i seguaci del duca Andrea scesero lungo la penisola fino ad arrivare a Napoli tra il 1423 e il 1430. Ma il trattamento riservatogli nella città partenopea fu decisamente diverso da quanto successo fino ad allora. Di solito le popolazioni rom venivano scacciate dalle città italiane: nel 1493 Ludovico il Moro li avrebbe espulsi dal ducato, “sotto pena dela forcha”, a causa di alcuni crimini di cui si erano macchiati. Nel 1534, a Milano, con uno stretto giro di vite, si autorizzò “qualunque persona di potere prendere ogni sua robba et farli captivi consegnandoli pero nelle mani della iusticia”. Nella città partenopea, invece, forse a causa della necessità di manodopera, se integrati nel tessuto cittadino i rom potevano ricevere la cittadinanza e tutti i diritti a essa connessi. È quanto avvenne fino al 13 luglio 1559, quando un editto del vicerè Pedro Afán, duca di Alcalá, stabilì “che tutt’i zingari, che si ritrovano in questa magnifica, e fedelissima città di Napoli, e nel Regno predetto, si debbano fra il termine di mesi due dipartire, ed uscire fuora del Regno, numerandi dal dì dell’emanazione del presente bando”.

Favria, 4.09.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nonostante sia tradizionalmente associato con la fine dell’estate e l’imminente arrivo dell’autunno, settembre a me è un mese di inizi, una sorta di primavera. Felice lunedì.