Il matrimonio nell’antica Roma – Da Contacc a countach!- Lo stupore nella vecchiaia – Le tre forme di matrimonio nell’Antica Roma 2. – A volte è questione di nuance. – Le api sono vitali. – La cerimonia matrimoniale nell’Antica Roma 3…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Il matrimonio nell’antica Roma Maggio è da sempre il mese dedicato alla

Vergine Maria, delle rose e anche dei matrimoni. Al riguardo dei matrimoni, nella Roma antica, il matrimonio era qualcosa di molto diverso rispetto a quello del nostro mondo contemporaneo. Non si trattava infatti di un’espressione d’amore, quanto piuttosto di una sorta di contratto stipulato tra due individui o, per meglio dire, tra due famiglie. Il termine matrimonium deriva da mater, madre, e munus, dovere, quindi dovere della madre. La donna abbandonava la propria famiglia ed entrava in quella del consorte, perdendo tutti i legami civili che la tenevano legata ai suoi antenati, alla sua gens, ai culti domestici. A livello giuridico, la donna entrava nella sua nuova famiglia non col grado di moglie, ma come figlia. Giuridicamente era infatti considerata inferiore al marito, allo stesso livello dei figli che lei stessa avrebbe generato o di quelli che il marito già aveva. Tanto che da questi ultimi sarebbe stata considerata alla stregua di una sorella. Inoltre,  non esisteva nemmeno una sola tipologia di matrimonio e si potevano dividere in due grandi categorie: il matrimonio cum manu e il matrimonio sine manu. Nel matrimonio cum manu, letteralmente “con manus”, il potere del pater familias, ovvero il marito aveva un potere e un controllo assoluti sulla vita della moglie, tanto da avere persino il diritto di ucciderla in caso di adulterio, o anche se la avesse solo sorpresa a giocare con le bambole, simboli dell’infanzia o a bere vino, in osservanza dello ius osculi, una forma di controllo per la quale il marito poteva verificare se la moglie avesse bevuto vino, attraverso un osculum appunto, ovvero un bacio piuttosto formale.
Favria,15.05.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Il matrimonio è, e resterà sempre, il viaggio di scoperta più importante che l’essere umano possa compiere. Felice lunedì.

Da Contacc a countach!

Contacc  è un’esclamazione di  stupore e di meraviglia tipica piemontese. Anticamente era il modo più rapido per indicare il contagio dalla peste e risale al terribile periodo tra il 1629 e 1630 che  a Torino provocarono migliaia di morti. Il contagio, contacc, si pensava fosse provocato da untori, alcuni dei quali vennero giustiziati, anche  nel tentativo di arginare la malattia, combattuta allora dal famoso sindaco Giovanni Francesco Bellezia. Poi la nebbia gialla come venne chiamata la peste svanì. Scomparvero i lazzaretti, i fumi dei roghi dove erano stati bruciati morti, suppellettili e qualsiasi cosa avesse contribuito a spargere il contagio.  Il 16 agosto venne offerta alla  chiesa di San Rocco una tavoletta d’argento per il voto fatto un anno prima perché la città fosse liberata dalla peste. Venne anche pubblicato un trattato sull’argomento redatto da Giovanni Francesco Fiochetto,  che si era adoperato con tutte le sue forze come protomedico  durante la peste del  1630. Il 5 luglio del 1632  Torino vide una solenne processione lungo le sue principali strade. Era il ringraziamento al Cielo per avere liberato la città dal flagello della peste, che nei momenti più drammatici era parso inarrestabile. L’espressione contacc o contagg come abbiamo letto nato durante una delle cicliche pestilenze che hanno afflitto il Piemonte, il sostantivo contàgio, ha una lunga storia con un lieto finale. Deriva dal latino contagium, “toccare, essere a contatto, contaminare” e inizialmente aveva un significato terribile, un’esclamazione disperata di chi era stato contagiato dalla pestilenza, usata talvolta come una maledizione “ch’at pija ’n côntacc, Che Ti prenda il contagio”.  Venne poi usato nell’esercito piemontese per esprimere  l’attuale  significato  di disappunto, contrarietà a cause impreviste. Tuttora è un’espressione di stupore, di meraviglia, di ammirazione. Da questa parola è stato dato il nome ad una famosa auto sportiva della Lamborghini anglicizzandola in Countach. Nel 1971 al Salone dell’Automobile di Ginevra, fa il suo debutto un’auto da sogno, un capolavoro di stile e di ingegneria che segnerà un’epoca. Sostituirà la Miura che aveva reso Lamborghini, uno dei brand di lusso del mondo dei motori. Si narra che la prima volta che Ferruccio Lamborghini vide il prototipo della LP 500 nella carrozzeria torinese Bertone un meccanico, colpito dalla bellezza della nuova vettura, esclamò “Contacc !”. Altri affermano che sia stato lo stesso Nuccio Bertone o la moglie o qualcun altro. Di sicuro era un Piemontese. Un’auto perfetta in tutto. Quell’espressione di stupore e meraviglia colpì talmente Ferruccio Lamborghini che decise all’istante di chiamarla così. Mentre la parola “contacc” è tipico del vocabolario della lingua piemontese, “countach” è un termine inventato in un simil-inglese che però si pronuncia praticamente nello stesso modo. Proprio in quegli anni la lingua inglese aveva soppiantato il francese come lingua internazionale ed era già molto in voga.

Favria, 16.05.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. La gioia più grande è sempre quella che non era attesa. Felice martedì.

Lo stupore nella vecchiaia

Non è bella, la vecchiaia, Non l’abbiamo mai né desiderata, né aspettata. Arrivato alla pensione, mitico traguardo di quando lavoravo, ed ora giorno dopo giorno divento quello che non avevo  mai desiderato diventare, e cioè vecchio. Come ogni altra fase della vita, la vecchiaia non è mai uguale a se stessa, ed ognuno di noi la affronta e la subisce in modo diverso. Certo, basta arrivarci, perché comunque l’alternativa,  l’unica che c’è, è decisamente peggio. Comunque sia e a qualunque età arriviamo, non è bella, la vecchiaia. Se lo fosse, sarebbe tutto diverso. Mi viene da pensare che se le rughe fossero parole sagge o divertenti scritte sul viso invece di mute crepe, se i capelli bianchi fossero infusi di una luce turchina invece che spenti, e si la  vecchiaia sarebbe tutta un’altra cosa. E invece non c’è proprio verso di camuffarla, se non con una patina ingenua, con qualche aggiustamento qua e là che riesce soltanto a far trapelare meglio quel che si vorrebbe nascondere, negare. La vecchiaia che si finge giovinezza è una pia illusione cui nessuno crede sul serio. Purtroppo il corpo racconta la verità senza infingimenti, dice tutte le cose come stanno con un misto di sincerità e beffardaggine. Come l’erba del vicino, anche l’età è sempre un po’ più verde di quella che non hai ancora o non più. Da ragazzo non vedevo l’ora di avere 18 anni, la voglia di crescere, e adesso sarebbe un sogno avere una manciata di anni in meno. Sinceramente non so se per ripetere le cose già fatte o provarne di nuove. Del resto, la vita è fatta proprio così: fiducia e incertezza, scoperta e monotonia.  Queste sono cose che ci accompagnano con tenace costanza e altre che si perdono per strada proprio come il profumo di freschezza della nostra gioventù. Certo che la vecchiaia è un cammino lungo come l’adolescenza e la maturità, ci accompagna giorno dopo giorno, a volte la si sente addosso con dei dolorini fastidiosi, a volte con i ricordi meravigliosi che mi dona gioia nell’animo. Il tempo la cosa più preziosa per noi umani, che è senza prezzo, e con gli anni se ne va e un giorno qualunque mi accorgerò di non averne più da spendere e non ci sarà più nulla da fare, con stupore mi accorgerò che come un pugno di sabbia è passato tutto il mio tempo. Quello che manca oggi è l’incapacità di stupirci e la consapevolezza di non destare stupore, questo porta alla noia mentale, una malattia insidiosa che porta precocemente alla fine del cammino su questa terra. Forse mi ripeto, ma il bello della terza età è anche questo, ripetersi. Cioè essere noiosi, cioè un po’ inutili. Ma lo stupore, la capacità di meravigliarsi di fronte alla vita, è forse l’emozione più bella di tutte: è come dire che stare al mondo vale la pena. È una scossa di felicità ogni volta.  Che bello stupirmi  per un tramonto particolarmente infuocato, per il gorgheggio di un merlo al mattino appena sveglio, per una parola al posto giusto, per una bella notizia che dona felicità all’intera giornata. Che tristezza per quelle persone che affermano che non si stupiscono più di niente. Persone che vivono con l’animo rassegnato e triste. Sicuramente con il passare degli anni ci sono sempre meno occasioni per stupirci, ma qualcosa, anzi tanto, resta. Perché lo stupore deve restare parte di noi, deve continuare a farci sentire al posto giusto nel mondo. A saperlo e volerlo trovare, lo stupore si trova. Bisogna impegnarsi, farsi trovare pronti quando è il momento. Ma la vera battaglia contro la vecchiaia non sta nel piallare le rughe, nel sentirsi giovani o giovanili anche se non lo siamo.  Sta nel conservare la meraviglia, nel coltivare l’esclamazione! Anche se le giornate si assomigliano tutte, anche se ci pare di aver già fatto e dato tutto quello che si poteva fare e dare nella vita, perché prima o poi si scopre che non è proprio così. Lo stupore è la migliore, forse l’unica medicina contro l’invecchiamento. Diventiamo vecchi quando smettiamo di stupirci e di  meravigliarci.  Bisogna tenersi caro lo stupore, impegnarsi più che in qualunque altra cosa. Come? Questa medicina contro l’invecchiamento ha un solo principio attivo, il resto sono tutti soltanto eccipienti. La vita è piena di difetti, ma è anche, fino a prova contraria, l’unica che abbiamo. Si tratta di amarla per quello che è. A differenza della vecchiaia, è bella. Con il tempo che passa, amare la vita diventa un impegno ma anche una consapevolezza, mentre prima era soltanto istinto. Da vecchi si ama, o si dovrebbe amare la vita per affezione, per abitudine, per sapienza. Non è mica così difficile, amare la vita anche, e soprattutto, da vecchi. Ha il suo perché. Bastano, a volte, il sole che alla sera, pian piano si tuffa dietro le montagne, il chiacchiericcio rauco di due gazze nel vicino parco, una bella notizia, un buon caffè con gli amici o leggere un buon libro.  Ci vuole poco per scacciare la noia, ritrovare lo stupore e pensare che la vita non è affatto male, a ben pensarci.

Favria,  17.05.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita la ci è amore, niente altro. Contento chi sa amare la vita. Felice mercoledì

Le tre forme di matrimonio nell’Antica Roma – 2

Erano tre  le forme di matrimonio cum manu: la confarreatio, la coemptio, e l’usus. La confarreatio era la forma di matrimonio più antica e solenne. Si faceva risalire addirittura al tempo di Romolo. Era praticata soprattutto nell’ambiente aristocratico. Il termine deriva da cum farreo, ovvero “col farro”: nel momento cruciale della cerimonia, i due coniugi prendevano un boccone da una focaccina di farro, sacrificando la restante parte su un braciere, in onore a Giove. In quel preciso istante, la donna si assoggettava al marito. Se i due sposi appartenevano a famiglie molto in vista, il matrimonio poteva avvenire non solo in presenza di alti sacerdoti, ma anche di fronte alla Curia, ovvero ai membri del Senato, o addirittura davanti all’imperatore stesso, in veste di pontefice massimo. La coemptio era la forma di matrimonio cum manu usata dai plebei. Come indica il nome, cum emptio, “con acquisto”, si trattava di un matrimonio per acquisto a tutti gli effetti. Durante la cerimonia, avveniva una specie di vendita simbolica della sposa, con tanto di bilancia. Si trattava della rivisitazione di una forma antichissima di compravendita, mancipatio, nella quale sulla bilancia si poneva la somma necessaria ad acquistare un oggetto. Davanti a cinque testimoni, lo sposo si metteva di fronte al pesatore, che reggeva la bilancia, e pronunciava la frase: “Io dico che questa mater familias è mia per diritto dei Quiriti e mi sia comprata con questo bronzo e con questa bronzea bilancia”. Dopo, percuoteva la bilancia con un pezzo di bronzo grezzo, che consegnava poi alla donna stessa. Così, aveva comprato la donna.  Infine l’usus, il tipo più informale di matrimonio cum manu, era il matrimonio per mutuo consenso e con prove di una convivenza estesa. Veniva così chiamato poiché si trattava di un matrimonio “per usucapione”. Se la donna conviveva con un uomo per un intero anno, automaticamente questi acquisiva la mano della donna e le sue proprietà. Questo anno di tempo dava del tempo sufficiente per constatare la fertilità della donna, e, in caso di infertilità, di lasciarla. Perché il matrimonio non avvenisse automaticamente, e impedendo anche l’acquisizione della manusda parte dell’uomo, esisteva una via di fuga. Sarebbe bastato, infatti, che la donna si allontanasse per tre notti consecutive dalla casa dell’uomo, trinoctium usurpatio, o semplicemente trinoctium. Nessuno dei tipi di matrimonio cum manu sopravvisse oltre l’epoca dell’imperatore Tiberio. Assai più diffusi erano infatti i matrimoni sine manu, nei quali l’uomo, al contrario dei precedenti tipi, pur derivando dall’usus, non aveva alcun vero potere sulla donna. Questa è la forma più comune di matrimonio, se non l’unica, a partire dal I secolo d.C. La donna non era legalmente assoggettata al marito, e lo sposo, quindi, non ne acquistava la proprietà. La sposa si manteneva sotto il dominio del padre, o di sé stessa se aveva già acquisito uno status d’indipendenza. Questa unione, inoltre, perdeva ogni carattere giuridico, e si basava unicamente sulla volontà dei due coniugi di vivere assieme e di formare una famiglia, affectio maritalis. Per accertarsi, quindi, dell’esistenza dell’unione, i giuristi latini dovevano esaminare le forme in cui essa si manifestava: il luogo di residenza, i comportamenti tenuti in pubblico, nonché la dote della sposa, senza di essa, la donna sarebbe stata considerata una concubina. Perché un matrimonio fosse considerato un giusto matrimonio, iustum matrimonium, ovvero corretto per l’etica e riconosciuto dalla legge romana, era necessario che i due sposi fossero in possesso del conubium: vale a dire, la compatibilità sociale dei due sposi. Entrambi dovevano appartenere alla stessa classe sociale, nonché essere entrambi cittadini romani, e non dovevano correre vincoli di consanguineità. In caso contrario, anche i figli nati dall’unione sarebbero stati considerati illegittimi. Era anche indispensabile non solo l’ovvio consenso di entrambi i coniugi, consensus, ma anche quello dei padri degli sposi. La maggior parte di ciò che sappiamo per quanto concerne il matrimonio nell’antica Roma è principalmente legato ai ceti aristocratici. Nei ceti elevati, solitamente il matrimonio avveniva attorno ai 12-14 anni d’età per le fanciulle, attorno ai 18 per i ragazzi. Durante questo giorno, la donna doveva lasciare presso la casa paterna tutto ciò che l’aveva accompagnata nella vita infantile: la Lunula, un particolare talismano a forma di falce di Luna crescente, che riceveva nove giorni dopo la nascita; bambole, solitamente in legno, o terracotta, anche se ne esistono alcuni esemplari in avorio; palle da gioco; reticelle per i capelli; i “reggiseni”, strophia, singolare strophium, che venivano posti davanti alle statuette delle Divinità Domestiche, o consacrati alla Dea Venere; e la tunica, che invece era consacrata alla Dea Fortuna. Le ragazze non potevano avere relazioni pre-matrimoniali, né tantomeno rapporti sessuali all’infuori del matrimonio,  soprattutto per evitare gravidanze indesiderate. Una donna doveva arrivare vergine al matrimonio non solo nel senso pratico del termine, ma anche per quanto riguardava i baci! Al contrario, ci si aspettava che i ragazzi facessero “pratica” con prostitute o schiave di casa. Un ragazzo che fosse arrivato vergine al matrimonio, sarebbe stato mal visto della società. Inoltre, era assolutamente normale, per un uomo, aver relazioni amorose e sessuali con altre donne, e relazioni stabili con concubine fino al giorno prima delle nozze.

Favria,  18.05.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno dì a qualcuno che c’è in lui qualcosa che ammiri e apprezzi.
Ti accorgerai che occorrono meno di due secondi per far felice una persona. Felice giovedì.

A volte è questione di nuance

La storia della parola inglese nuances in italiano  sfumature inizia in latino con il sostantivo nubes, che significa nuvola, Il lemma nubes fluttuò nel medio francese medio come nue, che significava sempre nuvola, poi nue  diede origine a nuer, che significa “fare sfumature di colore”. Nuer a sua volta produsse  sfumature, che in francese medio significava “sfumatura di colore”. L’inglese ha preso in prestito sfumature dal francese, con il significato di “una sottile distinzione o variazione”, alla fine del 18 ° secolo. Tale uso persiste ancora oggi. Inoltre, la sfumatura è talvolta usata in un senso musicale specifico, designando una variazione sottile ed espressiva in una performance musicale, come nel tempo, nell’intensità dinamica o nel timbro)che non è indicata nella partitura. Una parola interessante  da una nuvola ad una sfumatura con una meravigliosa etimologia. Come accade coi termini più ispirati, il significato scaturisce metaforicamente da un elemento naturale, e in natura niente come le nuvole, all’alba o al tramonto, in un rapido squarcio di luce o in un improvviso addensamento, ci mette davanti al ventaglio inafferrabile e cangiante delle sfumature di colore. La vita è composta da sfumature, di  notte ogni cosa assume forme più lievi, più sfumate, quasi magiche. Tutto si addolcisce e si attenua, anche le rughe del viso e quelle dell’anima e  anche la verità a volte si trova tra le  sfumature di chi la racconta. 

Favria,  19.05.2023  Giorgio Cortese


Buona giornata. Nella vita quotidiana la felicità è simile ad una farfalla, se la si insegue e non si riesce a prenderla, ma se stiamo tranquilli ecco che si posa dolcemente su di noi. Felice venerdì.

Le api sono vitali.

Oggi, 20 maggio, si celebra la Giornata mondiale delle api. Insetti preziosi, fondamentali per la nostra sopravvivenza sulla Terra ma gravemente minacciati dai pesticidi, dai cambiamenti climatici, dall’inquinamento e dalla perdita di habitat. Dovremmo tutelarle come uno dei beni più preziosi al mondo ma non lo facciamo. Eppure le api sono vitali per la conservazione dell’equilibrio ecologico e della biodiversità in natura. Forniscono uno dei servizi ecosistemici più riconoscibili, ovvero l’impollinazione, che è ciò che rende possibile la produzione alimentare. In questo modo, proteggono gli ecosistemi e le specie animali e vegetali e contribuiscono alla diversità genetica e biotica. Le api fungono anche da indicatori dello stato dell’ambiente. La loro presenza, assenza o quantità ci dice come sta accadendo all’ambiente e se è necessaria un’azione appropriata. Per questo nel 2018 l’ONU ha designato il 20 maggio come Giornata mondiale delle api. L’obiettivo è rafforzare le misure volte a proteggere loro  e altri impollinatori, che contribuirebbero in modo significativo a risolvere i problemi legati all’approvvigionamento alimentare globale ed eliminare la fame nei paesi in via di sviluppo. 20 maggio è la data di nascita di Anton Jansa, 1734–1773, apicoltore sloveno, pioniere dell’apicoltura moderna e una delle più grandi autorità in materia di api.  L’imperatrice austriaca Maria Teresa lo nominò insegnante permanente di apicoltura presso la nuova scuola di apicoltura di Vienna. Divenne famoso anche prima della sua morte nel 1773. Dopo il 1775, tutti gli insegnanti statali di apicoltura dovettero insegnare la materia secondo i suoi insegnamenti e metodi. Oggi per  poter nutrire la crescente popolazione mondiale, abbiamo bisogno di sempre più cibo, che deve essere diversificato, equilibrato e di buona qualità. Come sappiamo, il contributo maggiore fornito dalle api e da altri insetti è l’impollinazione di quasi tre quarti delle piante che producono il 90% del cibo mondiale. Un terzo della produzione alimentare mondiale dipende dalle api. Negli ultimi 50 anni, la quantità di colture che dipendono dagli impollinatori, cioè frutta, verdura, semi, noci e semi oleosi, è triplicata. Le api svolgono un ruolo importante in relazione alla portata della produzione agricola. Un’efficace impollinazione aumenta la quantità di prodotti agricoli, migliora la loro qualità e aumenta la resistenza delle piante ai parassiti. Le piante coltivate che dipendono dall’impollinazione sono un’importante fonte di reddito per gli agricoltori, in particolare i piccoli agricoltori e le aziende agricole a conduzione familiare nei paesi in via di sviluppo, forniscono lavoro e reddito a milioni di persone.

Favria, 20.05.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Se le api scomparissero dalla faccia della terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita. Felice sabato.

La cerimonia matrimoniale nell’Antica Roma. 3

La cerimonia del matrimonio iniziava con un rito tipicamente religioso. Nel mondo romano non erano solamente i sacerdoti a poter interrogare gli dèi, ma anche il Pater familias per questo motivo la prima cosa che faceva era quella di consultare i presagi degli dei per capire se vi erano tutti i presupposti per il matrimonio ed essi erano consenzienti. Se i presagi erano considerati buoni, poteva partire la cerimonia vera e propria.  Marito e moglie venivano portati nel centro della casa di lui, dove si riunivano almeno 10 testimoni, necessari per dare al matrimonio un valore legale. Poteva essere presente un sacerdote, ma questo non era fondamentale per rendere il matrimonio valido. Normalmente una matrona, spesso la madre della sposa, prendeva i due coniugi per mano e secondo una formula dal significato insieme legale e religioso diceva una frase ben precisa: “Laddove tu sei – nome dello sposo- la sarò anche io -nome della sposa.” Da quel momento, quell’uomo e quella donna potevano essere considerati legittimamente uniti  dal vincolo del matrimonio. Dopodiché un sacerdote o il Pater familias  si occupava di rendere gli onri a Giove,  il più potente degli dei romani, e arrivava il momento di consumare insieme una torta di farro. La torta di farro era l’alimento principale delle famiglie fondatrici di Roma, e mangiare questo tipo di alimento significava per i romani rinnovare costantemente la tradizione, il cosiddetto “Mos maiorum.” Dopo una piccola festa, che si teneva sempre nella casa della sposa, iniziava una grande processione, per cui lo sposo accompagnava la sposa nella loro nuova casa o in alternativa nella casa del padre dello sposo. Si trattava di una funzione pubblica e tutti i passanti, i parenti e gli amici potevano parteciparvi senza bisogno di invito. Molto spesso questo corteo era  accompagnato da dei suonatori per allietare la festa ed esisteva anche allora una specie di “inno nunziale” che veniva intonato dai parenti e dagli amici. Poteva capitare che lo sposo dovesse recitare una piccola scena. La madre della sposa teneva sua figlia, e lo sposo strattonava la ragazza, rubandola. Questa era probabilmente una riproposizione dell’antico episodio del ratto delle Sabine, con cui i Romani rapirono delle ragazze per formare le nuove famiglie agli inizi della storia di Roma. La processione procedeva ulteriormente e la sposa era solita lasciar cadere per terra una moneta, che doveva essere raccolta simbolicamente dagli spiriti che seguivano assieme al corteo la strada. Poi, la sposa consegnava altre due monete a suo marito, la prima moneta serviva simbolicamente come dote nei confronti del consorte mentre l’altra doveva onorare gli spiriti della sua casa, dove la donna si apprestava ad entrare. Molto spesso lo sposo lanciava dei dolci alla folla ma soprattutto delle noci. Gli antichi Romani  vedevano le noci molto simili alla forma del cervello umano e per questo motivo lo consideravano un alimento che favoriva l’intelligenza e che avrebbe ispirato il giusto “senno” alla coppia che si stava formando. Una volta che la coppia era arrivata sulla soglia della casa dello sposo, il marito prendeva in braccio la moglie con vigore e la portava personalmente dentro casa.  Questo aveva di nuovo un significato fortemente simbolico: il marito dimostrava forza, sottolineava il suo ruolo di comando all’interno della nuova famiglia che si stava creando, dimostrava di essere in grado di proteggere la propria donna e inscenava simbolicamente un “salto” dalla vecchia alla nuova vita che si andava preparandosi. Dopodiché, familiari ed amici entravano nella casa dello sposo e i festeggiamenti continuavano. Molto spesso la donna accendeva per la prima volta il fuoco del focolare, promettendo al marito che sarebbe sempre stata Fedele e si sarebbe occupata del buon andamento della casa. Molto spesso i banchetti duravano fino a tardi, anche fino a notte fonda. Dopodiché la coppia si ritirava per la notte nelle loro.

Favria, 21.05.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Volare come un uccello: ecco il sogno; oggi andare in bicicletta  ecco oggi il piacere, quello di sentirsi giovani e tornare poeti. Felice domenica

Le Vostre gocce di sangue possono creare un oceano di felicità, donate il sangue potete salvare una vita. Esiste dentro di noi la gioia di aiutare. Basta ascoltarla. Lo scopo della vita di noi essere umani è quello di accendere una luce di speranza nei nostri simili anche donando il sangue. Ti aspettiamo a FAVRIA LUNEDI’ 12 GIUGNO  2023, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te.  Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio