Il papavero da fiore dell’oblio a ricordo dei caduti. – Da abile a skill . – Se piove a San Medardo. – Bocche di miele e cuori di fiele. – Pompa magna…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

La nostra amata bandiera, verde come la speranza di un mondo migliore, bianca come la purezza di intenti, rossa come il sangue versato dagli eroi. La nostra Costituzione ha dietro ad ogni articolo centinaia di giovani morti nella Resistenza. Sogno e desidero una Repubblica forte con i forti, ma umana con i deboli.

Il papavero da fiore dell’oblio a ricordo dei caduti
Il papavero comune o rosolaccio, papaver rhoeas, è una pianta erbacea annuale, la specie, è largamente diffusa in Italia, cresce normalmente in campi e sui bordi di strade e ferrovie ed è considerata una pianta infestante ed è lontano parente del papavero da oppio, da cui si estrae la morfina. Anticamente nel mondo greco romano il papavero era il simbolo del sonno che conduce all’oblio. In questo senso il sonno legato alla morte. Secondo gli antichi greci il papavero era il simbolo dell’oblio e del sonno, nella mitologia greca Morfeo, il dio dei sogni, era rappresentato con un mazzo di papaveri fra le mani. Sempre secondo la mitologia greca Dementra, la madre terra, dea del grano e dell’agricoltura, ritrovò la serenità persa a causa della morte della figlia Persefone (moglie di Ade dio degli inferi) bevendo infusi fatti con fiori di papavero. Per i greci infatti il papavero rappresentava anche il fiore simbolo della consolazione. Gli antichi romani invece associarono il papavero alla dea Cerere, equivalente della dea greca Demetra, raffigurandola con ghirlande di papaveri, per la presenza costante di papaveri in tutti i campi di grano. Durante il medioevo il papavero fu invece associato, per via del suo colore, al sacrificio di Cristo e alla sua morte, per questa ragione si trova spesso raffigurato in affreschi di chiese risalenti all’epoca medievale. Sulla scia della tradizione medievale, che associa il papavero al sacrificio, nel Regno Unito, durante la prima guerra mondiale, per celebrare gli uomini morti per la patria si usavano ghirlande composta da papaveri. Osservando le foto dei membri della Famiglia Reale inglese, vi è mai capitato di notare una spilla a forma di papavero rosso appuntata sui risvolti delle giacche o sugli abiti! Si tratta del Remembrance Poppy, papavero del ricordo, che viene utilizzato, oltre che nel Regno Unito, anche in Canada, Stati Uniti e paesi del Commonwealth, simbolo del ricordo dei caduti in battaglia. Piccoli papaveri artificiali vengono generalmente indossati nel Remembrance Day l’11 novembre e nelle settimane che lo precedono, ma sono anche impiegati per comporre ghirlande celebrative. Ma qual è l’origine di questa particolare usanza? Tutto deriva da una poesia scritta nel 1915 da da John McCrae, tenente colonnello medico e poeta canadese, per ricordare un amico ucciso in battaglia, la poesia “In Flanders Fields” è tuttora conosciutissima nei paesi di cultura anglosassone. Proprio nelle prime righe della poesia, si fa riferimento ai papaveri, i primi fiori a sbocciare nei campi di battaglia. Sono state però due donne, sempre loro che hanno una marcia in più, l’americana Moina Bell Michael e la francese Anna Guerin, a trasformare questo fiore in un simbolo nazionale denso di significato e a tutt’oggi molto diffuso. Ispirandosi alla poesia di McCrae, con la vendita di papaveri artificiali, raccolsero fondi a favore dei veterani delle guerre e riuscirono a sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema molto doloroso, convincendo anche organizzazioni come la National American Legion e la Royal British Legion ad adottare il papavero come simbolo. In Gran Bretagna e più precisamente a Richmond nel Surrey esiste poi dal 1922 la Poppy Factory, una ditta che produce questi papaveri artificiali e che, pensate un po’, ogni anno realizza ben 36milioni di fiori e 80.000 corone e che fornisce i papaveri indossati da tutta la Famiglia Reale. La Poppy Factory iniziò la sua attività dando lavoro ai veterani di guerra e ancora oggi i suoi dipendenti sono uomini e donne che, durante il loro lavoro al servizio della nazione, hanno subito danni fisici disabilitanti. Ma non è finita qui ogni anno nel Regno Unito un papavero-gioiello, creato dai più prestigiosi orafi d’oltremanica, viene messo all’asta durante il Poppy Ball ed il ricavato viene destinato alla Royal British Legion. Associare il papavero al ricordo di chi ha perso la vita in guerra non è però solo storia recente. Secondo una leggenda, Gengis Khan, l’imperatore mongolo teneva in tasca semi di papavero che spargeva sui campi di battaglia per onorare i caduti, anche quelli avversari. E, tornando ai giorni nostri, non posso dimenticare Fabrizio De Andrè e la sua ‘Canzone di Piero’: “Dormi sepolto in un campo di grano/non è la rosa non è il tulipano/che ti fan veglia dall’ombra dei fossi/ma sono mille papaveri rossi…” Come si vede il semplice papavero che troviamo sui cigli della strada o che vediamo nei campi ha una sua bella storia e per finire, il termine “papavero” è utilizzato come sinonimo di persone potente, tale significato è dovuto alla leggenda secondo la quale il Re di Roma Tarquinio il Superbo volendo insegnare al figlio il modo più rapido per conquistare la città di Gabi, andò in giardino e con un colpo di bastone recise le teste di tutti i papaveri, volendo, con quel gesto, far capire al figlio che bisognava eliminare tutti i personaggi più potenti della città avversa.
Favria 7.06.2016 Giorgio Cortese

Il più grande piacere che io conosca è fare una buona azione di nascosto, e in modo che venga scoperta per caso. Lo scopo della vita non è vincere. Lo scopo della vita è crescere e condividere. Trovo più soddisfazione dai piaceri che riesco a condividere nella vita con gli esseri umani che dai momenti in cui li ho emarginati e sconfitti.

La semplicità è complicata da raggiungere. Ci vuole molto tempo per imparare a fare qualcosa di semplice immagino la semplicità simile a fare il viaggio della vita con un solo bagaglio anche se a volte le anime semplici abitano a volte corpi complessi.

Da abile a skill
Parlavo con l’amico Mauro, vera fonte di conoscenza, un sabato mattina davanti ad una tazza di caffè e siamo arrivati per caso a parlare del lemma inglese skill, che intende, solitamente, un’abilità acquisita o imparata, a differenza delle abilità innate. Insomma una competenza, capacità. Oggigiorno “abile” è una parola comune, anche se un po’ fuori uso, non tanto in ambito letterario ma nelle conversazioni quotidiane e sia nel lessico amicale che lavorativo. Tralasciando il termine inglese skill, il corrispettivo lemma italiano abile viene usato ormai raramente, certo sostenere che d’Artagnan O Zorro sono abili spadaccini è comprensibile, ma dire che il giocatore di calcio tale sia : “ un abile giocatore di calcio!” farebbe ridere tutti. Ripensando ad abile, la mia mente corre subito alla famosa frase che dicevano un tempo a 18 anni al servizio di leva: “Abile ed arruolato”. In qualsiasi dizionario etimologico, si nota che la parola “abilità” è una parola di possesso, poiché deriva dal latino “habilem”, da “habere”, avere, colui che “ha”, quindi possiede. letterariamente “tenere saldo in mano”. L’atto dell’avere come un pugno chiuso che stringe l’oggetto posseduto. Ma l’abile possiede cosa? le abilità stesse che gli servono? La parola si concentra solo sull’avere, come se le qualità necessarie fossero “cose”, in quanto siamo sul versante appunto, di ciò che si “ha” e non ciò che si “è”. Appare evidente che questa parola “abilità”, ci porta subito all’antitesi del binomio “Avere/Essere” citando Erich Fromm col suo noto libro dall’omonimo titolo. Riprendendo la parola “abile”, quella utilizzata soprattutto in ambito militare, è sempre vicina alla parola “arruolato” e cioè essere incluso nelle file di un “esercito” come esempio di qualsiasi ambito organizzativo della nostra società, il lemma “esercitare”, “esercizio” contiene la dinamica della ripetizione, per affinare o solo perpetuare, una determinata abilità, prevalentemente meccanica, corporea o cognitiva che sia. E arruolare significa dare un ruolo, e sappiamo che il ruolo dipende dal contesto, la stessa persona può avere tanti ruoli secondo i vari contesti che frequenta, il ruolo è un vestito per l’identità personale, la quale lo interpreta in base alle proprie abilità. Ma chi viene arruolato se non le reclute? Recluta deriva da “re – claudere” che definisce anche la parola “rinchiuso”. Le reclute devono sostituire chi non è più abile alla vita militare, per morte, vecchiaia, ferita o malattia, chi è appunto non più abile, divenuto disabile per la produzione, in ambito militare come nel mercato del lavoro. Certo la mente di una persona è un’abile tessitrice. Getta la rete nel passato e si abbuffa di ricordi. Con la mia fame di conoscere, forse detrattata da curiosità del sapere aggiungo sempre sempre dei lemmi ai frammenti mancanti, per arrivare a pensare che al momento giusto, tutti possiamo essere la ricetta perfetta, essere le persone abili dell’essere e non dell’avere prendendo sempre le misure per ogni scelta ma tenendo sempre le distanze ravvicinate. L’abilità in ogni giornata e di passare da un problema ad un altro cercando di risolverlo senza perdere mai il genuino entusiasmo.
Favria, 9.06.2016 Giorgio Cortese

Il calcio come la vita è semplice, ma il difficile è giocare e vivere un modo semplice.

Se piove a San Medardo.
Eccoci a giugno, il mese che gli antichi Romani dedicavano alla dea Giunone, la dea delle donne, una delle tre divinità più importanti del Pantheon romano. Una delle divinità della potente Triade formata da Giove, Minerva e Giunone, appunto. Perciò questo mese veniva chiamato in latino Iuniu. Ai tempi di Ovidio non se ne conosceva la vera etimologia tant’è vero che il poeta dei Fasti elencava addirittura tre interpretazioni: sarebbe derivato appunto da Iuno, Giunone; oppure dagli iuniores, i giovani, in contrapposizione a maius, maggio, quale mese dei maiores, gli anziani. Ma ritengo carino pensare che derivi proprio dal nome della grande divinità femminile, anche perché, se presto fede a Plutarco, costui consigliava alle donne di sposarsi nel mese di giugno, sacro a Giunone, la dea dei matrimoni, forse perchè era sposata con Giove. A giugno nella a memoria popolare, passati oltre quattro secoli, permane ancora la tradizione quando la ricorrenza liturgica dei santi Medardo e Barnaba cadeva a ridosso del solstizio d’estate. Alla fine del medioevo fino al 1582, quando entra il vigore il calendario gregoriano, che usiamo anche adesso, il solstizio d’estate non era il 21 giugno ma con il calendario giuliano cadeva tra l’otto ed il 10 di giugno, in questo calendario c’era una oscillazione di date data la sua imperfezione astronomica. Ecco allora l’origine del proverbio “Sa pióu a San Medàrd, quaranta dì na vó part”, vale a dire: “Se piove a San Medardo, 8 giugno, continuerà a piovere per quaranta giorni”, letteralmente: “quaranta giorni vogliono la loro parte. Per San Barnaba esisteva anticamente il proverbio:”Per San Barnabà il più lungo della ‘stà’” quando allora il solstizio d’estate cadeva 11 giugno, e che poi è stato riaggiustato con il detto: “Sa pióu a San Midàrd pa quaranta dì na vó part, ma i è Barnabè ca i cupa i pè”, ossia: “Se piove a San Medardo, continuerà a piovere per quaranta giorni, ma c’è San Barnaba, 11 giugno, che gli taglia i piedi”, nel senso che se a San Barnaba fa bello, s’interrompe il cattivo tempo, perché San Barnaba disfa quello che ha fatto San Medardo. San Medardo è il santo franco del bello e del cattivo tempo. Ancora oggi in Francia è considerato l’artefice delle piogge, patrono dei birrai. Il nome Medardo ha origine germanica e trae la sua origine da Machthard, giunto in italiano tramite il francese Médard, composto dalle radici macht: “forza, possanza e hard, coraggioso, valoroso. Il significato complessivo può essere interpretato come “forte nel potere”, “governante forte”. Barnaba deriva dal greco Barnabas, a sua volta proveniente dall’aramaico, figlio del profeta o figlio della profezia. Una cuoriosità nel romanzo di Italo Calvino: Il visconte dimezzato”, il protagonista di chiama il visconte Medardo di Terralba. Come si vede i proverbi popolari con il loro fascino di sintesi, magari con belle assonanze fonetiche, se non addirittura con versi in rima fanno parte della nostra cultura e del nostro folklore
Favria 10.06.2016 Giorgio Cortese

Nella nostra società sempre più votata all’apparenza è raro che una persona onesta sino in fondo possa diventare un leader

Bocche di miele e cuori di fiele
Probabilmente molti amici che mi leggono si imbatteranno per la prima volta nell’espressione citata perché, sembra, poco conosciuta e quindi poco adoperata. Il modo di dire, dunque, la cui spiegazione mi sembra intuitiva, si riferisce a una persona che ostenta simpatia e amicizia verso un’altra persona, in realtà detestata, cui sarebbe ben felice, invece, di poter nuocere e, con il tempo, “annientare”. Gentili amici, quante “bocche di miele e cuori di fiele” incontriamo ogni giorno, Vi i occorre una calcolatrice? Scherzi a parte, per queste persone essere una persona civile, vuol dire proprio questo: dentro, neri come corvi e fuori, bianchi come colombi, o meglio in corpo fiele e in bocca miele. Oggigiorno l’ipocrisia sembra troppo spesso il sale delle relazioni umane. All’esterno certe persone vogliono apparire candide come colombi, in realtà sono dei sepolcri imbiancati. Mi capita di trovare delle persone finte educate, con atteggiamenti adulatori ma dentro, lo intuisco dai loro volti covano il più sordido disprezzo verso di me, poverini. Certo nella vita di ogni giorno la sincerità è sempre costosa, e talora difficile, un’ impresa ardua e per questo non conveniente per molte persone. Al riguardo Oscar Wilde scriveva che :”Un po” di sincerità è una cosa pericolosa; molta sincerità è poi assolutamente fatale”. Certo essere sinceri vuole dire avere molto coraggio ma non vuole dire di essere uno stupito ed ingenuo. La sincerità è dolorosa… ma sicuramente più dignitosa dell’inganno e delle umiliazioni. In tutte le cose è necessario un po’ di buon senso per riconoscere, la pazienza che sa attendere, la dolcezza che non recrimina, il controllo che non fa procedere istintivamente. Alla sincerità, che rimane comunque lo stile di fondo, deve dunque sempre coniugarsi la prudenza, la discrezione, la delicatezza. Personalmente non ho mai sognato di essere Shakespeare o Goethe, e non mi sono mai aspettato di possedere il grande specchio della verità sul mondo. Ho sognato di avere con me solo un piccolissimo specchio, quello che posso trasportare nella giacca, che riflette le piccole imperfezioni, e alcuni grandi bellezze, quando è tenuto abbastanza vicino al cuore.
Favria 11.06.2016 Giorgio Cortese

Finche posso scrivere la vita è bella, finche sono in salute è stupore quotidiano

Certa persone cambiano atteggiamento e delle volte anche molto in fretta. Mi viene il dubbio che per alcuni di loro usano il cambiamento per farsi notare e non per migliorare.

Pompa magna
La frase che avete appena letto, chi non lo sa? E per favore “honni soit qui mal y pense, sia svergognato colui che pensa male”, motto in antico francese dell’Ordine della Giarrettiera. Oggi Pompa Magna, significa vestire con eleganza e ricercatezza, il lemma deriva dal latino pompa corteo, magnificenza, a sua volta dal greco pompé, che significa “invio”, “impulso”, “trasporto” e di qui il senso di “corteo” per nozze, trionfi o altre solennità nelle quali si portavano in processione, nell’antichità, i simulacri degli dei. Durante queste processioni era, d’obbligo indossare vesti sfarzose e molto eleganti in segno di rispetto per la divinità che si portava in trionfo. Il modo di dire, con il trascorrere del tempo, è stato trasportato nell’uso moderno e con quest’espressione, pompa magna, si intende un fastoso e solenne apparato in occasione di feste, di cerimonie o di altri particolari avvenimenti della vita pubblica o privata. Si può parlare delle pompe della celebrazione di un piccolo successo, nel periodo di lavoro intenso si rinuncia alle pompe della vita mondana, e noto spesso, la pompa inconsistente di certi annunci politici. Fra l’altro, questo è anche il senso di ‘pompe funebri’, cioè gli apparati celebrativi del funerale. Come si vede “Pompa magna”, cioè grande, ha assunto nel tempo il significato estensivo di “indossare i migliori abiti”, quelli, appunto, delle grandi occasioni. Dello stesso significato “mettersi in ghingheri”, particolarmente usato in Toscana, cioè vestire con gusto e ricercatezza anche se si adopera quasi sempre in senso ironico nei confronti di chi ostenta un abito troppo vistoso. Quanto all’origine pare che derivi con molta probabilità da “ghingolo”, fatto corrottamente dal verbo agghingare, forma assimilata di agghindare nel senso di abbigliare. Ma la parola pompa viene anche intesa la macchina operatrice che sposta i liquidi, certo un ingegnere potrebbe descriverci la meraviglia ingegnosa di quella che è una colossale famiglia di macchinari, alcuni dei quali antichissimi, se non quasi mitici, che per svolgere questa essenziale funzione impiegano principi diversi ma invariabilmente affascinanti. La prima descrizione di una pompa si deve ad Archimede nel III secolo a. C. Si trattava di un trasportatore a vite noto come vite di Archimede.. Questo tipo di pompa, sostanzialmente volumetrico spostava quantità costanti di liquido ad ogni rotazione. È oggi utilizzata come idrovora e come mezzo di sollevamento negli impianti di depurazione delle acque.
Favria, 12.06.2016 Giorgio Cortese

Rassegnarmi, di tanto in tanto, mi insegna l’umiltà delle mie deboli possibilità umane e a riprendere fiato per riuscire, in seguito, in qualcosa di ancora più promettente di ciò che ho lasciato.