In memoria di un amico.- A ven Gelindo con “colinde” e “nuvet” – Risorse umane.-Il salampatata- Da Bogia nen all’epiteto Prato. -Biblioteca! -La Guerra di Crimea, la penultima crociata -Narciso e Boccadoro….LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

In memoria di un amico.
Caro amico, sei entrato puntuale nella mia vita, Ti aspettavo con impazienza all’inizio del mese. Appena arrivavi ti stringevo tra le mie mani e con smania cercavo di trovare subito le novità. E Tu ogni mese mi portavi le notizie della Comunità, mi parlavi di eventi vecchi o di manifestazioni appena concluse, caro Favriese eri un amico importante. Oggi leggendo l’ultimo editoriale apprendo la ferale notizia, che questo è l’ultimo numero e allora certi pensieri tornano alla mente come un acquazzone in una giornata afosa. In questi anni ti ho letto con grande passione e ci son ricordi talmente vivi dentro, che lasciano un vuoto incolmabile. Oggi ho aperto un cassettino della memoria, scoprendo un pezzo di te ed in genere le vecchie impressioni non rielaborate riaffiorano in una specie di libera associazione di idee. Certo vivere nel passato è un’attività stupida e solitaria, guardarsi indietro fa male ai muscoli del collo, mi fa sbattere contro la gente impedendomi di andare diritto per la mia strada ma, il ricordo delle tue uscite mensili è qualcosa di bello, che niente e nessuno potrà mai levarmi. Una volta l’araldo della vecchia monarchia francese annunciava per tre volte al popolo la morte del sovrano e l’avvento al trono del successore a garanzia, mai interrotta, della casa reale con la frase: “le roi est mort, vive le roi! “ Oggi il Favriese può sembrare morto, viva il Favriese che, ne sono convinto risorgerà come novella Araba Fenice dalle sue ceneri forse con maggiore effervescenza, perché omnia tempus habent, ogni cosa ha il suo tempo.
Favria, 5.12.2015 Giorgio Cortese

Penso che per una società veramente giusta dobbiamo musurare il valore degli esseri umanin in base a quello che possono dare non a quanto sono in grado di ricevere.

A ven Gelindo con “colinde” e “nuvet”
Durante le feste natalizie i bambini romeni, vestiti con abiti caratteristici, si recano in visita nelle case per il Colindatul, gli auguri cantati, in cambio di una tradizionale ciambella dolce intrecciata, simbolo di prosperità. Tra i canti più intonati ci sono “Mos Ajunul”, Babbo Vigilia, la “Steaua”, La stella. Una Colinda o colind è un canto cerimoniale romeno, caratterizzato da elementi rituali, di solito eseguita durante il solistizio d’inverno come canto natalizio. Le colinde si strasmettevano una volta oralmente da generazione a generazione. La parola colinda, colind deriva dal latino calendae. In Italia, in Canavese si usava nella sera di Natale trarre auspici tagliando una mela, o versando una chiara d’uovo in un recipiente. I contadini nei secoli passati abbellivano le mucche e le pecore con ghirlande e la sera di Natale nelle famiglie si accendeva una candela. Se la fiamma si piegava il raccolto sarebbe stato abbondante. Vi erano anche canti natalizi, come i “nouvet” simili alle “carols” inglesi, ai “Weihnachtslieder” tedeschi e alle “colinde” romene, appunto.. Nello stesso ambito nacque in Piemonte anche il personaggio di Gelindo, personaggio tipico delle rappresentazioni teatrali popolari natalizie. Gelindo è il pastore piemontese, specialmente monferrino, Favria era un feudo del Monferrato. Di solito si muove dal Monferrato per obbedire al decreto di Augusto, per via incrocia “ser” Giuseppe con Maria, e vorrebbe invitarli a casa sua, visto che hanno difficoltà a trovare alloggio, ma purtroppo casa sua è un po’ lontana. Quello che mi colpisce in queste storie è l’attualizzazione dell’episodio della Natività e lo spostamento spaziale-temporale o addirittura la commistione di elementi appartenenti a tempi e luoghi diversi. Da bambino sentivo mia nonna che diceva “A ven Gelindo” per dire viene Natale. Gelindo era anche messo nel Presepio tra i pastori. Buon Buon Natale e Felice Anno Nuovo pieno di grazie divina, salute e prosperità!
Favria, 6.12.2015 Giorgio Cortese

Nella vita io non trattengo nessuno. Non perché non ci tengo, anzi. Ma lascio agli altri la libertà di scegliere se starmi accanto o andare via, semplicemente perché credo che chi vuole esserci c’è. Senza neanche che io glielo chieda.

Risorse umane.
Un giorno, mentre cammina per la strada, una donna manager di grande successo, Responsabile delle Risorse Umane in una grande azienda, viene tragicamente investita da un camion e muore. La sua anima arriva in paradiso e incontra San Pietro: – Benvenuta in paradiso! – dice San Pietro – Prima che tu ti sistemi, però, dobbiamo risolvere un problema perché sei la prima Responsabile delle Risorse Umane ad arrivare qui e perciò non sappiamo ancora quale sia la migliore sistemazione per una manager del tuo tipo. – Nessun problema, fammi entrare! – dice la donna. – Beh, mi piacerebbe, ma dall’Alto ho l’ordine preciso di farti passare un giorno all’inferno ed uno in paradiso, così poi tu potrai scegliere dove stare per l’eternità. Come vedi ti viene concesso un grande privilegio. – Di fatto, ho già deciso. – precisa la donna – Preferisco stare in paradiso. – Mi spiace, ma l’ordine è quello che ti ho detto. E così San Pietro accompagna la manager all’ascensore e va giù, giù, sino all’inferno. Le porte si aprono e si trova nel bel mezzo di un verde campo da golf. In lontananza un country club e davanti a lei gli amici-colleghi manager che avevano lavorato con lei, tutti vestiti in abito da sera e molto contenti. Corrono a salutarla, la baciano sulle guance e ricordano i bei tempi. Giocano un’ottima partita a golf e poi la sera cenano insieme al country club con aragosta e caviale. Incontra anche il Diavolo, che di fatto è un tipo molto simpatico cui piace raccontare barzellette e ballare. Si sta divertendo così tanto che, prima che se ne accorga, è già ora di andare. Tutti le stringono la mano e la salutano mentre sale sull’ascensore. L’ascensore va su, su, e si riapre al cancello del paradiso dove San Pietro la sta aspettando. – Adesso è ora di passare un giorno in paradiso. Così la donna passa le successive 24 ore passeggiando tra le nuvole, suonando l’arpa e cantando dolci melodie. Le piace molto e, prima che se ne accorga, le 24 ore trascorrono e San Pietro viene a prenderla. – Allora, hai passato un giorno all’inferno e uno in paradiso. Adesso devi scegliere dove stare per l’eternità! La donna riflette un attimo e poi risponde: – Beh, non l’avrei mai detto, voglio dire, sì il paradiso è bellissimo, ma, alla fin fine, mi sono trovata meglio all’inferno! Così San Pietro la scorta fino all’ascensore e ancora va giù, all’inferno. Quando le porte dell’ascensore si aprono si trova in un’immensa terra desolata, ricoperta di sterco e rifiuti di ogni genere. Vede i suoi amici lerci, vestiti di stracci, curvi a raccogliere lo sterco ed i rifiuti e a metterli in sacchi neri. Il Diavolo la raggiunge e le mette un braccio sulla spalla. – Non capisco… – balbetta la donna – Ieri qui c’era un campo da golf, un country club; abbiamo mangiato aragosta, danzato; ci siamo divertiti molto. Ora c’è una terra desolata, piena di sterco e i miei amici sembrano dei poveri miserabili! Il Diavolo la guarda e, sorridendo, le dice: – Ieri ti stavamo assumendo. Oggi fai parte del personale…

Nella vita quotidiana trovo che siano rare le persone che usano la mente, pochissime quelle che usano il cuore e veramente uniche coloro che usano entrambi.

Il salampatata
Le origini del salampatata sono povere anzi poverissime. Si racconta che durante la seconda guerra mondiale in qualche cascina del Canavese quando era finita la carne di maiale, per aumentare la produzione, i contadini, veri artigiani degli insaccati, aggiungessero le patate bollite all’impasto di maiale. Insaporivano poi tutto con pepe, noce moscata e cannella e qualche chiodo di garofano e forse con un bicchiere di Barbera nell’impasto. Naturalmente tutto veniva poi insaccato nel budello. Ancora oggi si prepara così e, fatto riposare l’impasto, lo si insacca come un normale salame in un budello ben pulito e lo si appende in un luogo fresco. Dopo due giorni si può cuocere per una decina di minuti in forno. Dopo una settimana lo si puo’ consumare crudo . Oggi il suo consumo è limitato ai periodi dell’anno più freddi a causa della sua facile deperibilità, infatti dopo averlo preparato come richiede la tradizione deve essere consumato nei 3-4 giorni successivi. Personalmente preferisco mangiarlo fresco in casa preferiscono mangiarlo più “stagionato”, in ogni caso il risultato gastronomico è meraviglioso con il suo sapore quasi “dolciastro” e mai “aggressivo. Difficile da tagliare per via della sua morbidezza , spesso nelle preparazioni culinarie può anche essere sbriciolato.”
Favria, 7.12.2015 Giorgio Cortese

Ogni giorno il peggior sbaglio è quello di sentirmi colpevole se commetto errotri, la vita ogni giorno non mi consegna delle istruzioni, ma mi impartisce solo lezioni.

Da Bogia nen all’epiteto Prato
Bogia nen, in italiano letteralmente “non ti muovere”, è un soprannome popolare che si riferisce ai piemontesi e che si riferisce a un temperamento caparbio, capace di affrontare le difficoltà con fermezza e determinazione spesso confusa con una traduzione letterale che si riferirebbe invece a una presunta passività troppo succube e prudente. L’espressione avrebbe origine dalle gesta dei soldati sabaudi durante la battaglia dell’Assietta, un significativo episodio della Guerra di Successione austriaca che ebbe luogo il 19 luglio 1747. In quell’occasione, 4.800 soldati austro-piemontesi si trincerarono dietro muri a secco per fermare l’avanzata di 40.000 francesi. Vista la situazione disperata, lo stato maggiore inviò un messaggio al comandante piemontese, conte Giovanni Battista Cacherano di Bricherasio, con l’autorizzazione a ritirarsi su posizioni più favorevoli. Secondo l’aneddotica dell’epoca, Bricherasio rispose in piemontese con la frase: “Dite a Turin che da sì nojàutri bogioma nen.”, dite a Torino che noi da qui non ci muoviamo”,. Il risolversi dell’impari battaglia a favore degli austro-piemontesi fece in modo che quella frase diventasse un motto popolare molto diffuso e la parola “bogianen” usata per indicare i piemontesi, con riferimento alla loro testardaggine e risolutezza. Durante le guerre risorgimentali come “bogianen” venivano definiti i soldati della fanteria di linea piemontese, i quali nell’imminenza di subire l’attacco avversario, venivano incoraggiati dai sergenti con l’ordine “Bogé nen, neh, Non muovetevi, eh!”, ricordando loro l’eroismo degli avi all’Assietta. Così gli abitanti del Piemonte avevano un soprannome, per differenziarsi dallo stesso nome e cognome avendo un comune avo. In piemontese il soprannome si denomina “stranom”, un epiteto, dal greco aggiunto, un’accostamento, generalmente al nome, di un elemento che caratterizza un personaggio. Da non trascurare il significato volgare di epiteto che assume talvolta il significato di insulto, in senso esteso, o ingiuria associata a nome o riferimento personale. Dai soprannomi risalgono i cognomina latini, Cicero, quello dal cece; Naso, nasuto, Flaccus, dalle orecchie flaccide, Verre, cinghiale e soprannomi in origine sono gran parte dei nostri cognomi, come Borboni, Nasini, Fabbri, Bevilacqua, Leoni, Passerini, Meloni, Cortese; anzi il fatto che i cognomi siano stati legalmente fissati e resi ereditarî ha sostituito il più antico sistema per cui gli individui venivano distinti, fra l’altro, dal soprannome, ma, ciò nonostante, questo resta sempre in uso poiché, basato generalmente. su una caratteristica individuale, e non di rado animato da un’umoristica o ironica visione del soggetto, risulta spesso più espressivo del nome e del cognome che l’individuo riceve anagraficamente. Parlando del cognome della mia famiglia, Cortese, che deriva già da un soprannome, “Prato”, forse per differenziarsi a Valperga, luogo di origine della mia famiglia, dalla con lo stesso cognome omonimo o forse per l’origine della famiglia o perché possedevo un prato, ma questa è un’altra storia
Favria 8.12.2015 Giorgio Cortese

Dalla vita ho imparato a valorizzare chi sta al mio fianco quando mi chuidono le porte in faccia, chi mi ha confortato quando preso dallo sconforsto pensavo che il mondo mi cadeva addosso, insomma chi noin mi ha mai abbandonato

Biblioteca!
Il lemma biblioteca deriva dalle due parole del greco antico: biblíon, libro e théke, ripostiglio. Una biblioteca è una collezione ordinata di libri e documenti: essa può essere privata o pubblica, gestita da un ente locale o da un’istituzione. La storia della biblioteca inizia nel palazzo reale Assiro di Niniva, che era la loro capitale con il re Assurbanipal, dove durante gli scavi archeologici furono rinvenute 22.000 tavolette d’argilla, corrispondenti alla biblioteca ed agli archivi del palazzo. Ma nell’antichità la più celebre biblioteca dell’antichità è senza dubbio la Biblioteca di Alessandria, in Egitto, creata nel III secolo a.C. Il declino dell’impero ramano e la crisi della società antica interessò anche le biblioteche. Successivamente nel periodo carolingio ci fu una ripresa dovuta soprattutto all’espansione dei monasteri benedettini. I frati trascorrevano la maggior parte del tempo negli scriptoria, atelier di copiatura dei manoscritti associati alle biblioteche monastiche. Tra le raccolte librarie più importanti ricordiamo: l’Abbazia di Montecassino, il cenobio di Bobbio e il monastero di Citeaux. E’ solo grazie a questo lavoro che ci sono pervenute opere antiche che altrimenti sarebbero andate irrimediabilmente perse. Nel XII secolo, con l’organizzazione delle prime università a Bologna ed a Parigi, si costituirono le prime biblioteche adibite allo studio. Ma è con Gutenberg con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, a cui dobbiamo l’inizio della tecnica della stampa moderna, venne aumentata verso la fine del XV secolo la disponibilità dei volumi, anche per la riduzione del costo della produzione libraria. In questo contesto si inserisce la formazione di alcune grandi biblioteche odierne, come la Biblioteca Apostolica Vaticana, fondata da papa Sisto IV. Nel XVII secolo si assiste alla nascita delle prime grandi biblioteche pubbliche come la Biblioteca Angelica di Roma, la Biblioteca Ambrosiana di Milano, la Biblioteca Bodleiana di Oxford e quella della Cambridge University. A partire dal XX secolo, grazie ai contributi di Melvil Dewey e di Eugène Morel riguardo al miglioramento dei cataloghi ed alla classificazione delle opere, le biblioteche subiscono un’eccezionale trasformazione, accompagnata dalla nascita della scienza biblioteconomica. In questo periodo si assiste anche alla diversificazione delle attività bibliotecarie, mediante l’organizzazione di mostre, incontri di lettura e conferenze ed il miglioramento dei servizi offerti agli utenti. Oggigiorno le biblioteche si stanno rapidamente cambiando fisionomia e ruolo, divenendo nodo di una più vasta rete informativa. La diffusione delle risorse elettroniche, infatti, pone problemi inediti sia al bibliotecario sia all’utente e apre nuove prospettive di sviluppo che non è facile poter definire appieno. Da ragazzo quando andavo in Biblioteca a Cuorgnè mi sembrava di salire su di una nave spaziale che trasportava negli angoli più remoti dell’universo, una macchina del tempo che portava in un sabato pomeriggio o nella domenica mattina, allora era aperta alla domenica mattina, dal più profondo passato fino al più lontano futuro, una porta aperta alla vita. Adesso da adulto vado alla Biblioteca Comunale Pistonatto di Favria perché leggendo un libro posso visitare i posti più lontani e straordinari, posti che forse non andrò mai ma se mai dovro visitarli li troverò molto più interessati grazie ai libri che ho letto. Come si vede la biblioteca è molte cose, è il posto dove vivono i libri, dove posso conoscere altre persone e altri modi di pensare, attraverso i libri. libri contengono tutti i segreti del mondo, quasi tutti i pensieri che gli uomini e le donne abbiano pensato. E quando leggo un libro, io e l’autore del libro siamo soli insieme, solo noi due. Una libro è un buon posto dove posso rifugiarmi quando sono triste, perché lì, dentro un buon libro, posso trovare incoraggiamento e conforto. La lettura di un buon libro mi può dare risposta alle molto domande del mio animo, insomma i libri sono una buona compagnia, nei tempi felici e in quelli tristi, perché i libri sono persone… persone che sono riuscite a restare vive nascondendosi dentro la copertina di un libro.
Felice lettura
Favria, 9.12.2015 Giorgio Cortese

Personalmente non ho bisogno di rubare i pensieri a nessuno. Mi bastano già i miei da gestire.

La Guerra di Crimea, la penultima crociata
Il l 28 marzo del 1854, scoppiò quella che molti ricordano, dai libri di scuola, come la guerra di Crimea. Gli storici la considerano il primo conflitto moderno della storia: per la prima volta vennero utilizzati su larga scala il telegrafo, le navi a vapore e le ferrovie. Per la prima volta il fronte venne visitato dai corrispondenti dei giornali, che pubblicarono regolari resoconti delle azioni, mentre vennero scattate le prime fotografie di guerra, con l’eccezione di alcuni scatti fatti qualche anno prima in un remoto conflitto in India; molti di questi primati si attribuiscono spesso alla guerra civile americana, che cominciò sette anni dopo. Ma soprattutto fu un conflitto scoppiato per motivi incredibilmente stupidi, in cui quasi tutti i partecipanti, diplomatici e militari, brillarono per incompetenza e incapacità. Inglesi, francesi, italiani, russi, turchi, polacchi (i cosiddetti «cosacchi del Sultano»). I loro corpi riposano ancora là, in Crimea. Nella sola Sebastopoli gli ossari contengono alla rinfusa i resti di 127.583 uomini che caddero per difendere la città. Nemmeno la guerra di Secessione americana fu così cruenta, ci furono 750mila morti uccisi in battaglia. Attorno alla città di Sebastopoli vennero scavati, in uno spazio ridottissimo, 120 chilometri di trincee e furono sparati 150 milioni di pallottole e 5 di proiettili e ordigni d’artiglieria di vario calibro. Fu in quelle trincee che la guerra da galantuomini, se mai è esistita, venne archiviata per sempre. Le conseguenze politiche furono tremende, il conflitto spezzò la Santa Alleanza nata dal congresso di Vienna consentendo la nascita di stati nazionali come Italia, Germania e Romania. Più importante ancora, la guerra lasciò nei russi la sensazione del tradimento nei loro confronti da parte delle potenze europee. Un tradimento religioso per giunta: cristiani che proditoriamente si schierano con i musulmani turchi senza capire la crociata contro una potenza islamica. E se, alla fine, dalla storiografia la guerra di Crimea è stata un po’ dimenticata, la geopolitica quella zona non l’ha dimenticata affatto, visto che ancora oggi è al centro del conflitto ucraino-russo e della cris del medio oriente. Dove di nuovo i russi sentono gli europei come estranei se non traditori e gli europei vedono i russi come pericolosi aggressori. E di nuovo come allora la guerra rischia di estendersi anche ad altri fronti, come il mar Baltico. Ecco perché risulta utile la lettura, che consiglio vivamente del nuovo saggio Crimea. L’ultima crociata di Orlando Figes appena uscito da Einaudi, pagg. 532, euro 35. Nel libro si trova ampio spazio agli italiani , ben oltre la battaglia del fiume Cernaia. Certo Sebastopoli cadde e la guerra fu una sconfitta. Ma la resistenza della città divenne un mito. Come recita una ballata, Sebastopoli è ancora: “La miracolosa fortezza, schermo della Russia e scudo”. Una linea di culto patriotico a cui non rinunciarono nemmeno gli stalinisti e che è arrivata intatta ai nostri giorni, come spiega Figes nel suo ultimo capitolo. E questo non andrebbe dimenticato. Perché il Mar Nero è stato la polveriera dell’Ottocento e sarebbe meglio non trasformarlo nella polveriera anche del XXI° secolo. Perché ogni tanto i corsi e ricorsi della Storia esistono davvero. Figes spiega come i Russi si sentissero vicini agli ortodossi greci nei primi decenni dell’Ottocento e le loro mire nell’Asia minore. Per dirla con le parole di Cicerone: “ Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis “, la storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità.
Favria, 10.12.2015 Giorgio Cortese

Nella vita la migliore opera umana è quella di essere utile al prossimo, ma non basta solo fare del bene, bisogna stare attenti anche a farlo bene.

Narciso e Boccadoro.
La storia di due vite in bilico fra la ragione e il sentimento, entrambe alla ricerca della verità. Il libro inizia tra le mura del convento di Mariabronn, in un medioevo leggendario e monastico dove si snoda la storia dell’amicizia fra il dotto e ascetico Narciso, destinato a una brillante carriera religiosa al riparo dalle insidie del mondo e della storia, e Boccadoro, l’artista geniale e vagabondo, tentato dall’infinita ricchezza della vita e segretamente innamorato anche della sua caducità. Nel convento nasce e si rafforza l’inossidabile amicizia tra il virtuoso Narciso e l’irrequieto Boccadoro. Due personalità agli antipodi, due ragazzi molto diversi tra loro che come poli opposti sono attratti inesorabilmente l’uno dall’altro, antitetici e dialettici, da un lato l’ordine da all’altro lato l’oscuro impulso creativo, assieme sono la somma di un unico essere, l’essere umano. Come sopra detto i due protagonisti si incontrano nel convento in cui Narciso è assistente di greco e Boccadoro viene mandato a studiare dal padre, che l’ha destinato alla carriera ecclesiastica per espiare le colpe che ha ereditato, per il solo fatto di esserne figlio, dalla madre, gitana e girovaga. Tra i due nascerà subito una profonda amicizia, stima, rispetto e ammirazione reciproca.. Boccadoro fatica ad adattarsi alla vita del convento, non perché non sia abbastanza dotato intellettualmente, ma perché la sua indole non ammette il rigore dell’ascesi, nonostante lui voglia a tutti i costi imitare la sua figura di riferimento, l’amico Narciso. La verità gli verrà rivelata da Narciso stesso, il quale, svelandogli senza alcuna delicatezza di che sostanza sia la sua anima, Narciso incoraggerà Boccadoro a seguire la strada che lo porterà alla realizzazione di se stesso. a questo punto il racconto lascia Narciso alla sua esistenza ascetica e spirituale per seguire Boccadoro nel suo avventuroso e rocambolesco viaggio per boschi, campagne, città. Boccadoro conduce una vita nomade e vagabonda, senza meta né punti di riferimento se non il ricordo e gli insegnamenti del caro amico, seduce e ama un numero incalcolabile di donne, conosce la morsa del freddo e gli stenti della fame, il lusso e la miseria, la sete e l’ebbrezza del vino, la libertà e la prigionia, impara a donare la vita ma anche a provocare la morte di sua mano. Soprattutto scopre la sua vera vocazione, il suo grande talento: l’arte, il disegno e soprattutto la scultura. Ma qualcosa in lui comincia a rompersi quando si imbatte nell’orrore della peste, un’epidemia che semina morte e desolazione per tutta la Germania mettendo a nudo il cinismo e la crudeltà della razza umana e allontanandolo definitivamente da una già labile fede verso un Dio insensibile che ha creato male il mondo e che non sembra preoccuparsi minimamente degli uomini. Passeranno molti anni prima che i due amici riescano a ritrovarsi e a ricongiungersi, e quando lo faranno le differenze tra loro saranno ancora più marcate, ma non per questo la loro amicizia risulterà meno forte. Per conto mio non è un romanzo, ma la complessa allegoria della vita, descritta tramite i pensieri e le azioni di due uomini diammetricalmente opposti. Nel libro vengono descritte le paure , le emozioni ed i sentimenti umani con nitidezza, conducendomi ad avanzare, passo dopo passo, assieme ai protagonisti alla scoperta del senso transitorio del mondo umano. Un libro profondo, unico e meraviglioso, la storia di due vite in bilico fra la ragione e il sentimento, entrambe alla ricerca della verità dove gli animi dei protagonisti si intrecciano, si dividono e nella prova finale, si ritrovano
Favria 11.12.2015 Giorgio Cortese

Nella vita nessuno può fare tutto, ma tutti possono fare qualcosa per il bene di tutti