La corona del trionfo. – Le tartarughe. – Le donne guerriere. – Honi soit qui mal y pense. – Grandezza d’animo e pazienza: la fortezza. – Sprezzatura e non sprezzante. – I Maya e la siccità. – L’eccidio di Villesse, 29 maggio…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

La corona del trionfo Secondo il mito greco, la dea Latona partorì Diana e

Apollo abbracciando un tronco d’ulivo. Diverso è invece l’albero che si intreccia alle vicende del suo divino figlio: un alloro. La ninfa Dafne sfuggì alle attenzioni non desiderate di Apollo trasformandosi nell’albero che porta il suo nome. Dafne, in greco antico, vuol dire infatti ”alloro”. Come narra Ovidio nelle Metamorfosi, Apollo si legò per sempre ai rami, alle foglie e alle bacche di quell’albero, reliquia di un amore mancato. In trionfo. Gli stessi rami, foglie e bacche di alloro a Roma erano simbolo di buone notizie: accompagnavano i bollettini che riferivano una vittoria dell’esercito, cingevano il capo dei vincitori durante i trionfi e incoronavano l’imperatore. Plinio il Vecchio narra un episodio leggendario riguardante Livia Drusilla, futura sposa del primo imperatore romano Augusto: alla donna cadde fra le braccia una candida gallina, piovuta dal cielo stringendo nel becco un ramoscello di alloro carico di bacche. Seguendo l’invito degli indovini, la gallina fu accudita e il ramo, piantato a terra sulle rive del Tevere, diede origine a un piccolo bosco detto appunto ad gallinas. Con Augusto nacque così la consuetudine di prendere da quelle chiome le foglie e i rami d’alloro che, sotto forma di corona e stretti in mano, accompagnavano gli imperatori nei grandiosi riti trionfali.
Favria,  22.05.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Non è mio amico chi mangia il suo e mangia  solo il mio. Felice lunedì

Le tartarughe.

L’istituzione della Giornata mondiale delle tartarughe si deve all’American Tortoise Rescue, Atr,  un’organizzazione senza scopo di lucro fondata nel 1990 da Susan Tellem e Marshall Thompson, allo scopo di tutelare questa specie e i suoi habitat nel mondo. Dall’anno della sua fondazione, come si legge sul portale web ufficiale, Atr ha messo in salvo circa quattromila esemplari di tartaruga. Si pensa che le antenate più lontane e più simili alle tartarughe come le conosciamo oggi siano comparse sulla Terra circa 220 milioni di anni fa, nel tardo Triassico dell’era mesozoica. Tuttavia, i ritrovamenti di resti fossili di un rettile sudafricano, l’Eunotosaurus africanus, con la sua gabbia toracica semirigida, ha dimostrato che l’evoluzione del guscio della tartaruga è iniziato addirittura prima: l’analisi dei fossili di questo rettile estinto sarebbe la prova che le trasformazioni del carapace sono incominciate più di 260 milioni di anni fa. Oggi nel mondo ci sono circa 356 specie di tartaruga che vivono su terra, distribuite in tutti i continenti, a eccezione dell’Antartide. Le specie marine conosciute, invece, sono sette in totale. Le tartarughe, per secoli, sono state cacciate per il loro carapace,  (una parte del loro guscio), utilizzato per produrre gioielli e altri oggetti. Oltre a questo, però, ci sono altre minacce che mettono a rischio la sopravvivenza della specie e vanno ricercate principalmente nell’azione dell’uomo.  Alcuni esemplari di tartarughe possono sopravvivere veramente s lungo, alcuni fino a 200 anni. Parliamo della tartaruga gigante delle Galapagos, che vive nell’omonimo arcipelago e che fino a poco tempo fa si pensava fosse estinta. Con un’aspettativa di vita che va dai 150 ai 200 anni, un esemplare adulto può raggiungere i 300 chili di peso e poco meno di due metri di lunghezza. Lo scorso anno una tartaruga gigante,  per la precisione un esemplare di Chelonoidis phantasticus, ovvero una delle 15 specie di tartarughe giganti delle Galapagos, è ricomparsa dopo  più di un secolo nelle isole dell’arcipelago, facendo così ritenere che la specie non sia estinta ma che sia invece ancora presente nelle Galapagos, anche se in numero molto ridotto.  Il carapace della tartaruga sembra una corazza unica, compatta, fatta in un unico blocco: si tratta invece di una struttura anatomica assai complessa, che col passare degli anni si è trasformata ed evoluta, per arrivare a quello che è oggi. Il guscio è infatti costituito da circa 50 ossa, comprese costole e vertebre.  Ogni scaglia che compone la parte superiore del guscio si chiama scuto, e attraverso l’osservazione di questa superficie è possibile studiare le fasi di crescita della tartaruga. l detto “essere lento come una tartaruga” dopotutto non corrisponde proprio alla realtà. La tartaruga infatti non è l’animale più lento al mondo, di sicuro la battono la lumaca e il bradipo, e comunque la velocità media di una giovane tartaruga non è affatto da buttare. Le tartarughe di terra possono camminare a una velocità che può raggiungere i 100 metri all’ora, mentre quelle d’acqua possono nuotare a velocità davvero sorprendenti. Alcuni studi che si occupano del monitoraggio delle rotte delle tartarughe marine hanno infatti dimostrato che piccoli esemplari possono percorrere fino a 30 chilometri in un giorno, a una velocità di un chilometro all’ora.

Favria, 23.05.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Un proverbio persiano afferma che la ricchezza arriva come una tartaruga, e corre via come una gazzella. Felice martedì.

Le donne guerriere.

Le donne guerriere anche nel passato erano rare, ma esistevano. Nonostante fin dall’antichità la guerra sia sempre stata associata alla figura maschile, le donne guerriere furono narrate già dal mito greco. Erano le leggendarie Amazzoni, un corpo militare femminile ispirato a qualche tribù matriarcale o agli Sciti e Sarmati nel Caucaso, presso i quali vi erano donne che rivaleggiavano con gli uomini nel tiro con l’arco. Bisogna però arrivare al 1868-69 per trovare una donna, Nakano Takeko, a capo di un esercito tutto femminile, impegnato durante la guerra civile giapponese, guerra Boshin. Famose furono poi condottiere come Artemisia, che si battè nella battaglia di Salamina nel 480 a.C, e Giovanna D’Arco che nel 1428 diede la propria vita alla Francia, combattendo contro gli inglesi. Nel ’900  apparvero i primi reparti regolari femminili. Durante la Seconda guerra mondiale, temutissime furono le donne cecchino sovietiche dell’Armata rossa. Nonostante le guerriere nella Storia siano state inferiori di numero ai guerrieri uomini, le loro azioni dimostrano che la forza e il coraggio non sono limitati al genere.

Favria, 24.05.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana l’amore è tutto ciò che aumenta, allarga ed arricchisce di emozioni  la vita di ognuno di noi. Felice mercoledì

Honi soit qui mal y pense.

L’Ordine della giarrettiera è ancora oggi il più importante ordine cavalleresco inglese. Secondo la tradizione, fu istituito nel 1348 dal re Edoardo III, che pronunciò le parole Honi soit qui mal. Y pense. Dopo la morte della regina Elisabetta II,  milioni di persone nel mondo hanno seguito in diretta la cerimonia in cui un ufficiale dell’Ordine della Giarrettiera ha proclamato l’ascesa al trono del nuovo re Carlo III, dal balcone di St James Palace. Ma che cos’è l’Ordine della giarrettiera e perché si chiama così? Secondo la tradizione, fu istituito nel 1348 dal re Edoardo III, lo stesso che fece costruire l’abbazia di Westminster, che pronunciò le parole: “ Honi soit qui mal y pense, vergogna a chi pensa male”,  poi inserite nello stemma di quest’ordine, nel raccogliere una giarrettiera caduta alla contessa di Salisbury, sua favorita. In realtà notizie precise sulle origini dell’istituzione non ce ne sono (all’inizio si chiamava Società della giarrettiera) e anche la data di nascita è incerta: infatti, esistono documenti sicuramente del 1347 nei quali già si parla di abiti guarniti con le insegne dell’ordine. Inizialmente ne facevano parte il re, il principe ereditario e 24 cavalieri, ma nei decenni e nei secoli successivi fu aperto dapprima anche alla regina e alle mogli dei cavalieri e poi ad altri componenti della famiglia reale. I membri dell’istituzione si riuniscono nella cappella di San Giorgio, a Londra.

Favria, 25.05.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno dobbiamo allargare i nostri orizzonti.  Felice giovedì.

Grandezza d’animo e pazienza: la fortezza.

Se c’è una virtù particolarmente preziosa nei tempi delle crisi, questa è la fortezza. È la capacità di continuare a vivere e resiste­re nelle lunghe e dure avversità. Una forza spirituale e morale alla quale le generazioni passate attribuivano un’enorme importan­za, al punto di chiamarla virtù cardinale. La fortezza consente di non lasciarsi andare quando ci sarebbero tutte le condizioni per farlo. È la fortezza che ci fa resistere nella ri­cerca della giustizia in contesti corrotti; che ci fa continuare a pagare le tasse quando troppi non lo fanno; a rispettare gli altri quan­do non si è rispettati; a essere non violenti in ambienti violenti. Che ci mantiene tempe­ranti anche quando siamo immersi nell’in­temperanza, che ci fa resistere per anni in un posto di lavoro sbagliato, che ci fa resta­re in famiglie e comunità anche quando tut­ti e tutto, tranne la nostra anima, ci dicono di andarcene.  Gli antichi Greci la chiamavano andreia, derivato da anaer, uomo, in quanto la  fortezza una caratteristica propria dell’essere umano, chiamato a proteggere quanti sono affidati alla sua responsabilità. Singolare appare la ricca iconografia riguardate la fortezza con  buona pace del termine greco il concetto di fortezza è sempre rappresentata come una donna. Protetta da corazza, scudo e, nella mano destra, una spada o una mazza ferrata, nell’atto di colpire. Così la dipinge Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova. La fortezza secondo Omero è  Achille, eroe greco per eccellenza  ed esercita la sua fortezza non solo impiegando le sue energie fisiche, ma anche disprezzando, fino alla crudeltà, gli sconfitti. Secondo Virgilio la fortezza comincia a essere concepita come una virtù, con Enea che si mette al servizio della sicurezza dei suoi compagni. Passaggio reso ancora più evidente con l’approdo del termine andreia nella filosofia. Qui smette definitivamente di identificarsi col vigore fisico per presentarsi come la virtù tipica di chi assolve al proprio compito con coraggio, evitando due eccessi: la paura e la temerarietà. La persona forte, infatti, non è il vigliacco che si lascia paralizzare dalla paura, ma non è nemmeno il temerario che spinge sé e gli altri oltre ogni limite, fino all’azzardo. L’eccesso di audacia nell’affrontare le difficoltà porta ad essere precipitosi, imprudenti. Questa virtù con il termine  greco andreia non è presente nelle Sacre Scritture, pur abbondando, queste, di figure forti e coraggiose, sia maschili sia femminili. Tra queste ultime, spicca la straordinaria storia di Giuditta. Nel libro che porta il suo nome, la sua fortezza è un misto di coraggio, audacia e uso intelligente della seduzione. È nel Nuovo Testamento che emerge, con chiarezza e in maniera definitiva, la differenza tra la concezione greca della fortezza e quella biblica. Questa, a seconda dei contesti, si presenta come forza, dynamis, franchezza, parresia, grandezza d’animo, macrothymia, e pazienza, hypomoné. La identificazione della fortezza anche con la pazienza rimanda a Socrate, per il quale il forte sa riconoscere il momento di ritirarsi per non soccombere. Per dire che la virtù della fortezza deve nutrirsi di realismo se non vuole diventare violenza, arbitrio o forza cieca. A differenza della forza fisica, la vera fortezza non si misura necessariamente in termini di successo.

Favria, 26.05.2023  Giorgio   Cortese

Buona giornata. Certo non posso fermare il tempo ma posso cercare la luce nel buio più profondo. Felice venerdì.

Sprezzatura e non sprezzante.

Queste due parole traggono origine dal lemma latino expretiare che deriva da pretium, pregio valore. Sprezzante è divenuto la forma letteraria di  disprezzare. Diversa la parola sprezzatura, un vocabolo italiano di successo globale, ma quasi sconosciuta nel Patrio stivale Italia. In questi  tempi in cui a tanti piace gridare all’assedio della nostra lingua da parte dell’inglese, è curioso osservare certi italianismi che all’estero hanno un successo ruggente e che in Italia sono pressoché sconosciuti. La sprezzatura, poi, è globalmente percepita come uno stemma di italianità intraducibile. La sprezzatura, viene citata da Baldassarre Castiglione nel I libro: “Il cortegiano”. Una parola che indica  in  genere l’atteggiamento studiatissimo, voluto e ricercato di piena disinvoltura, di naturale spontaneità, fino alla trascuratezza, volto a ostentare un’abilità e una sicurezza assoluta, che non richiede alcuno sforzo: giusto quello che la sprezzatura ha in sprezzo. È sprezzatura quella persona che prende in mano le bocce e vince gara, scoprendo dopo che ha un passato di agonista, oppure  la persona inviata a casa e vedendo il pianoforte  suona con abilità per poi dire, è da tanto tempo che non tocco il pianoforte.  Nella vita quotidiana, involontariamente a volte quando vogliamo fare buona impressione, per esempio, adottiamo esattamente la tattica che Castiglione suggerisce: usiamo maniere cortesi ed affabili, ma facendo attenzione a non farle suonare affettate. Persino quando guardiamo la televisione la sprezzatura è parte del nostro quadro mentale; infatti distinguiamo facilmente gli attori mediocri, perché si sente che stanno recitando. Del resto un neologismo vero fa proprio questo: esprime un concetto reale, che tutti capiscono ma che è difficile spiegare con altri termini. Ma allora perché Questa parola è caduta in disuso? Possono esserci tante ragioni. Sicuramente oggi diamo meno importanza alle maniere formali, il che è un bene e un male insieme. L’interazione sociale ha bisogno anche delle sue piccole finzioni, come la cortesia e la modestia di cui la sprezzatura si nutre. Non solo, però. Per noi italiani la sprezzatura, si può dire, è parte del carattere nazionale. Infatti il buon gusto, e il desiderio di fare bella figura, sono tanto pervasivi che li diamo per scontati: finiamo così per avere un certo stile anche quando non ci sforziamo consapevolmente di ottenerlo. Perciò  può capitare di ricevere complimenti per un maglioncino di nessun impegno, scelto quasi senza pensarci.  Forse, allora, la sprezzatura è diventata a tal punto parte di noi che non la vediamo più, e per questo non la nominiamo, ecco il massimo della sprezzatura raggiungibile. Pensando alla sprezzatura mi viene in mente i  giardini un po’ trascurati.  Quelli in cui l’erba è spesso falciata in modo irregolare, come da un giardiniere distratto, soprappensiero o che è stato chiamato altrove prima di aver finito il lavoro; i giardini in cui a maggio le rose appassite restano sui rosai assieme a quelle appena sbocciate. Ovviamente non si tratta di trascuratezza. Dietro a questi giardini c’è sempre cura, attenzione, forse ancora più che nei giardini in cui non c’è mai una foglia fuori posto. Ma c’è anche qualcosa di più, una qualità più sottile sia nei giardini che nel carattere delle persone. Scriveva la poetessa Cristina Campo (1923-1977)  una definizione moderna e sempre attuale: “Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore…”.

Favria,  27.05.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. A volte la distanza che si trova tra l’incertezza e la certezza si chiama speranza. Felice sabato.

I Maya e la siccità.

La siccità favorì il crollo della capitale dei Maya. A metà del ‘400 Mayapan, capitale dello Yucatan, crollò in seguito a un colpo di Stato, favorito forse da anni di siccità e tensioni sociali che avevano indebolito la popolazione. Tra il XIII e il XV secolo la siccità contribuì a inasprire le tensioni sociali nella Penisola dello Yucatan, favorendo in ultimo il crollo della capitale Mayapan: è quanto emerge da uno studio di archeologi che hanno analizzato i documenti storici ed esaminato i resti umani dell’epoca per individuare segni di violenza. Mayapan,  tra il ‘200 e la metà del ‘400 governava circa 20.000 persone,  fu abbandonata tra il 1441 e il 1461 quando i Xiu, una fazione politica rivale della dinastia che era al potere, massacrarono i Cocom, la famiglia che controllava la penisola fino a quel momento. Alla luce delle nuove scoperte i ricercatori sostengono che la vittoria dei Xiu fu favorita dalla situazione di tensione nella quale versava già la popolazione, iniziata a causa della mancanza di cibo dovuta alla siccità. Sparse per l’antica Mayapan gli studiosi hanno trovato diverse fosse comuni e strutture monumentali che testimoniavano un brutale massacro. Questi scheletri risalgono a 50-100 anni primadella caduta della città. Secondo gli studiosi gli Xiu avrebbero approfittato della debolezza e del nervosismo che serpeggiava tra la popolazione per fomentare le ribellioni che portarono ai massacri e alle emigrazioni del ‘300. Dopo questo periodo di inquietudine, Mayapan visse un breve tempo di pace e precipitazioni abbondanti attorno al 1400. Tuttavia la tregua non fu abbastanza lunga da consentire alla popolazione di riprendersi, e quando la siccità torno negli anni Venti del 1400 i Xiu poterono conquistare la città, ormai stremata dalla carestia e dalle tensioni sociali.

Favria, 28.05.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni errore che facciamo nella vita  è stato un buon maestro. Felice domenica

L’eccidio di Villesse,  29 maggio

Il 24 maggio 1915 il regno d’Italia, dopo aver già disatteso i patti sottoscritti nella Triplice Alleanza con Austria-Ungheria e Germania mantenendo la neutralità per tutto il 1914 e i primi mesi del 1915, entra in guerra al fianco di Francia, Russia e Inghilterra e contro i suoi vecchi alleati. I militari italiani attraversano il confine e si avventurano nel Friuli orientale.  Siamo in guerra da appena cinque giorni he il nostro esercito scrive una delle pagine più sanguinose della storia militare italiana: l’eccidio di Villesse. Il 29 maggio siamo sui rilievi che circondano Gorizia. Villesse, un paesino posto accanto al torrente Torre, il 27 maggio viene occupato dal 3° battaglione del 13° fanteria, Brigata Pinerolo, al comando del maggiore Domenico Citarella. Citarella non si fida di nessuno, perché quella parte del Friuli è la più austriacante, anzi, forse, l’unica parte austriacante delle terre irredente. Così ordina un coprifuoco strettissimo, rifiuta di incontrare le autorità del posto e tratta gli abitanti come sospette spie. Il 29 maggio il Torre straripa. Le piogge primaverili e il disgelo hanno fatto sì che le nevi, accumulatesi sui monti sopra Gorizia nel corso dell’inverno, precipitino a valle provocando un’inondazione. Sembra he ci siano anche delle sparatorie, qualche fucilata partita per errore, ma la tensione è già alle stelle e si comincia a sospettare che quel fenomeno naturale sia stato in realtà provocato da sabotatori a monte di Villesse, una volta che gli italiani si erano insediati. Citarella fa alzare cinque barricate nelle vie del paese e raduna tutti gli abitanti rimasti in casa, circa 150. Li divide in cinque gruppi di 30 e li posiziona dietro le barricate. Alle loro spalle ci sono i soldati italiani con le baionette innestate. In pratica, usa quei poveri innocenti come scudi umani, convinto che gli austriaci, secondo lui responsabili dell’inondazione, stiano per attaccare il villaggio. La giornata del 29 trascorre nell’attesa degli austriaci. Nella notte scoppia un violento temporale. I nervi sono sempre più tesi. Tra il buio, la pioggia, i tuoni e le suppliche di trovare riparo, si respira un’aria sempre più elettrica. Citarella rifiuta di concedere sollievo a quelli che ritiene spie e traditori della causa italiana. Solo che così facendo sottopone i suoi stessi soldati a una tortura psicologica. Poco prima della mezzanotte la situazione precipita. Nel buio risuonano degli spari. È l’assalto temuto? Sono i cecchini dall’altra parte del Torre che sparano colpi a casaccio? Oppure sono solo i tuoni? Al mattino la scena è la seguente: a terra solo bossoli di fucili italiani. Al suolo, colpiti dai proiettili, cinque civili e un soldato italiano, probabilmente “danno collaterale del fuoco amico”. Quattro di quei civili (Giulio Portelli, Danilo Montanar; Giuseppe Capello; Antonio Marega) sono morti. Il quinto, Francesco Zampar, ferito alla gola, morirà il 30 maggio. Oltre ai morti, tra gli abitanti di Villesse ci sono anche feriti, alcuni gravi. Il nome del soldato caduto rimane ignoto, fatto che potrebbe rivelare l’imbarazzo che coglie da subito il comando militare italiano. Evitando di dare un nome a quel soldato si avvia un processo di rimozione dell’accaduto. Sì, perché l’origine di quegli eventi affondava le radici nell’atteggiamento complessivo dell’esercito e della società italiana, ponendo qualche dubbio su come il nostro Paese si era preparato alla guerra sul fronte alpino nord-orientale. L’atteggiamento con cui esercito e società civile italiana sono entrati in guerra si può riassumere in una parola sola: sopravvalutazione. Sopravvalutazione della forza del nemico, e sopravvalutazione della gioia con cui le truppe italiane sarebbero state accolte come liberatrici dalle popolazioni del Nord-Est. Sono due elementi distinti, che però hanno contribuito in eguale misura all’eccidio di Villesse. Il primo elemento lo descrive lucidamente Franco Bandini, nei suoi articoli sugli inizi della guerra. “Non avrebbe senso – scrive – trarre alla luce queste losche vicende, se attraverso esse non fosse possibile intravedere un carattere costante di tutte le nostre guerre: la sopravvalutazione del nemico, sempre ritenuto armatissimo, preparatissimo, e capace di diaboliche astuzie”. Il nocciolo del pensiero di Bandini è che l’esercito italiano nel 1914-1915 era convinto che l’esercito austroungarico sul fronte del Nord-Est fosse una macchina da guerra formidabile e che la zona del Friuli brulicasse di soldati austriaci, pronti a sterminare con la loro monumentale potenza bellica, qualsiasi esercito che si fosse avventurato per quelle vallate. La realtà era invece molto diversa. Data la neutralità italiana, il comando austroungarico aveva dislocato la gran parte delle truppe ad est, in Galizia (regione storica e geografica localizzata al crocevia dell’Europa centrale e orientale) per combattere la Russia zarista. Dopo la battaglia di Gorlice-Tarnów, dove i russi furono sconfitti in modo netto e totale, la situazione era la seguente: il 14 maggio 1915, le truppe austriache si erano attestate sulla linea San-Dniester, fiume che oggi corre lungo il confine tra Moldavia e Ucraina. Anche se il comando militare austriaco avesse ordinato di richiamare il corpo di spedizione per dislocarlo lungo tutto il versante friulano, sarebbero passate settimane. Quindi, il dato di fatto è che il territorio fino a Trieste, Gorizia e anche oltre per qualche decina di chilometri, fatta eccezione per pochi gruppi di militari austriaci lasciati a presiedere una zona formalmente neutrale, era praticamente sguarnito. Da che cosa nasceva quindi il mito della presenza austriaca? Dall’inesperienza e dall’inettitudine dell’intelligence militare italiana, che non fece un buon lavoro di ricognizione del territorio acquisendo dati di prima mano e dall’astuzia dell’aristocrazia e alta borghesia del posto, che essendo legata a Vienna da vincoli commerciali o di sangue, diffuse voci sulla presenza militare austriaca, per scoraggiare un eventuale intervento militare italiano. Sintetizzando: l’esercito italiano credette alle fake news fatte circolare ad arte per ingannarlo. Il secondo elemento (la sopravvalutazione della gioia che avrebbe provato il nord-est italiano quando fosse stato liberato dagli austriaci) si basava sulla mitologia del Risorgimento, con la mistica dei morti per la libertà, con le vicende eroiche di Silvio Pellico detenuto nello Spielberg, con Guglielmo Oberdan, primo martire dell’irredentismo, con il mito di Trento e Trieste ancora occupate dagli austriaci, e con la memoria dei martiri caduti per l’Unità d’Italia. A questa rappresentazione eroica dei nostri patrioti, corrispondeva un’idea ingenua degli austriaci, visti come malvagi, razziatori, violentatori e la naturale e normale reazione del popolo italiano alla cacciata degli austriaci non poteva che essere la gioia. Questa visione non teneva conto però di alcuni fatti: primo, che i martiri di una fazione sono i terroristi della fazione avversa; secondo, che, per essere obiettivi, il Friuli faceva parte della monarchia austriaca da quasi due secoli e, nell’Impero austro-ungarico dell’inizio del XX secolo, le condizioni di vita non erano così degradate e vessatorie da spingere automaticamente le popolazioni alla ribellione. È vero che molti, nella zona del Friuli, avvertivano un certo richiamo verso la nazione italiana, ma senza alcuna frenesia nazionalpopulista. Anche chi era irredentista, riconosceva la convenienza dei legami con Vienna. Lo sforzo era trovare un modo per coniugare i lati positivi della patria tricolore con quelli di un impero che tutto sommato aveva amministrato saggiamente quelle terre. Così, quando l’Italia dichiara guerra all’Austria, i suoi soldati irrompono nei territori irredenti aspettandosi di essere accolti dalla popolazione in festa. Un errore di valutazione in un certo senso simile a quello compiuto l’anno scorso dai  russi in Ucraina che, contrariamente alle aspettative, si sono trovati davanti a un’imprevista resistenza. I friulani, insomma, sono interdetti così accolgono quegli italiani senza sapere che sarà del loro domani. E hanno ragione a dubitare. Stesso discorso in Trentino, dove tanto per fare un esempio, il generale Antonio Cantore, occupata Ala, che si trova pochi chilometri a sud di Trento, fa interna re tutti i componenti della banda cittadina, perché non hanno accolto le sue truppe con marce e fanfare patriottiche. L’unico capace di distogliere Citarella dalla frenesia in cui è caduto è il tenente colonnello di un reparto di bersaglieri che, passato per caso da Villesse per tornare al suo reparto, riesce a calmare il maggiore e a far tornare alle proprie case gli abitanti. Citarella sarà trasferito e nel 1917 sarà sul Piave, con il grado di colonnello e decorato con medaglia di bronzo al valor militare. Autorità politiche e militari fanno calare una cortina di silenzio sui fatti di Villesse. La Corte dei Conti italiana, in una sentenza nascosta al pubblico, sancirà l’insussistenza della accuse a carico dei morti e concederà le pensioni alle vedove, ma sono sempre passati 15 anni da quei eventi terribili. È solo negli anni 60 del XX secolo che si inizierà a parlare dei fatti di Villesse e bisognerà attendere il 2015 perché venga pubblicato I fucilati di Villesse di Lucio Fabi, primo testo ad affrontare in modo storico-scientifico l’accaduto.

Favria,  29.05.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno non pensiamo a cosa ci manca, ma pensiamo a compiere del bene con cosa abbiamo. Felice lunedì.

Le Vostre gocce di sangue possono creare un oceano di felicità, donate il sangue potete salvare una vita. Esiste dentro di noi la gioia di aiutare. Basta ascoltarla. Lo scopo della vita di noi essere umani è quello di accendere una luce di speranza nei nostri simili anche donando il sangue. Ti aspettiamo a FAVRIA LUNEDI’ 12 GIUGNO  2023, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te.  Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio