La fuga del Re. – San Luigi Gonzaga. – Mansa Musa. – La vecchiaia – Concerto della Filarmonica. – Cima Vallona, strage senza giustizia. – La forza della parola. – Nogai…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

La fuga del Re Obbligato dall’Assemblea Nazionale a non allontanarsi dal suo palazzo parigino delle

Tuileries, il re di Francia Luigi XVI covava da tempo il proposito di lasciare Parigi e porsi alla testa delle forze controrivoluzionarie. Il piano era già stato organizzato dall’entourage del sovrano, ma Luigi esitava per paura di gettare il Paese nella guerra civile. Si convinse ad agire alla morte, nell’aprile del 1791, del moderato conte di Mirabeau, e ancora di più quando una folla inferocita impedì alla famiglia reale di raggiungere il castello di Saint Cloud per celebrare la Pasqua. La sera del 20 giugno
1791 Luigi XVI, travestito da valletto, la moglie Maria Antonietta, i due principini, la governante Louise Elisabeth de Croy, Madame Elisabeth sorella del re e tre domestici, riuscirono ad eludere il controllo della Guardia nazionale e si allontanarono a Parigi, a guidarli si era offerto il conte svedese Hans Axel von Fersen, amante segreto della regina, su una robusta carrozza. Viaggiarono per tutta la notte e il giorno successivo, fermandosi soltanto per il cambio dei cavalli. Fu proprio durante una di queste soste che un maestro di posta riconobbe il sovrano e diede l’allarme. La fuga della famiglia reale si concluse a Varennes, dove i fuggiaschi erano giunti nella notte. La mattina dopo furono raggiunti e arrestati da alcuni commissari dell’Assemblea nazionale che li scortarono a Parigi. La tentata fuga rappresentò un punto di svolta per la Rivoluzione: la Repubblica fu proclamata nel settembre 1792, mentre nel successivo processo a Luigi XVI, conclusosi con la condanna alla ghigliottina. La fuga a Varennes costituì uno dei principali capi d’imputazione

Favria, 20.06.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Un pazzo si può riconoscere da sei cose: collera senza motivo, discorsi senza senso; cambiamenti senza progresso; domande senza oggetto; fiducia a sconosciuti; confondere nemici con amici. Felice martedì.

Le Vostre gocce di sangue possono creare un oceano di felicità, donate il sangue potete salvare una vita. Esiste dentro di noi la gioia di aiutare. Basta ascoltarla. Lo scopo della vita di noi essere umani è quello di accendere una luce di speranza nei nostri simili anche donando il sangue. Ti aspettiamo a FAVRIA MERCOLEDI’ 19 LUGLIO  2023, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te.  Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

San Luigi Gonzaga.

Nato a Castiglione delle Stiviere il 9 marzo 1568, Luigi Gonzaga apparteneva a un ramo della nobile famiglia che reggeva il territorio mantovano. Figlio primogenito di Ferrante Gonzaga, marchese della stessa Castiglione, alla morte del padre avrebbe ereditato il titolo; tuttavia fin da giovane mostrò un grande spirito religioso e di dedizione alla carità e preferì abbandonare le comodità della sua condizione per dedicarsi alla vita ascetica e al servizio dei bisognosi. Entrato a far parte della Compagnia di Gesù, divenne ben presto un modello di virtù e di dedizione alla causa della Chiesa, distinguendosi a onta della giovane età per il grande impegno profuso nella preghiera, in special modo alla Madonna a cui era devotissimo, e nella penitenza e nell’assistenza ai malati e ai poveri. Mentre si trovava a Roma, Luigi Gonzaga si dedicò anima e corpo alla loro cura durante le epidemie infettive che infuriarono nel 1590-1591, causando migliaia di morti, incurante del pericolo che correva. Finì quindi per contrarre egli stesso il morbo e morì, a soli 23 anni, il 21 giugno 1591. Il corpo fu sepolto nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma, nobilitato dall’altare barocco realizzato da Andrea Pozzo e Pierre Legros, mentre il cranio è conservato nella basilica a lui intitolata nella “sua” Castiglione delle Stiviere. La vita di san Luigi, canonizzato nel 1726, è stata un esempio di dedizione alla fede e di impegno per il bene dei più deboli, rappresentando un modello per molti giovani, di cui è patrono,  e per tutti coloro che cercano di seguire la via della santità. Auguri di felice onomastico ai Luigi, Luigina,  Luisa, Gigi e Gino.

Favria, 21.06.2023

Buona giornata. Quando abbiamo nell’animo una meta,  la più ardua salita diventa una comoda strada. Felice mercoledì

Mansa Musa.

Tra le classifiche da Guinness che ogni tanto impazzano sui social ce n’è una che riguarda gli uomini più ricchi della storia. E, su tutti, da Creso a Elon Musk, chi vince inaspettatamente con ampi margini è lui: il re del Mali, Mansa Musa (1280-1337). Il suo regno controllava un enorme territorio, che dall’Oceano Atlantico si spingeva verso l’interno dell’Africa, più o meno dall’attuale Senegal alla parte meridionale della Mauritania fino a comprendere gran parte dell’odierno Mali. Un impero la cui ricchezza si fondava sul commercio degli schiavi e del sale. Ma soprattutto Mansa dominava “sulle terre del deserto dell’oro nativo”, come scrive il cronista al-Umari: sui giacimenti d’oro che irroravano il Mediterraneo, il Nord Africa e l’Europa, tra cui le mitiche miniere di Bambouk, di Buré e dei territori dei Lobi. Leggendario lo fu davvero, Mansa Musa. Già ai suoi tempi. Perché, a un certo punto della vita, come ogni buon musulmano, decise di mettersi in cammino. Di procedere cioè all’hajj, il pellegrinaggio verso la Mecca. Era il 1324 e, come ho letto nel libro di   Marco Aime nel libro “La carovana del sultano”Einaudi, il sovrano si rende protagonista di un’impresa che ha dello stupefacente: un viaggio straordinario lungo novemila miglia, dal centro dell’Africa fino alla Penisola Arabica, seguito da una carovana che da sola era le sette meraviglie, i cronisti del tempo sembrano fare a gara nel descrivere il fasto e la grandezza della carovana reale. Si favoleggia tanto sui numeri. C’è chi dice fosse composta da diecimila persone, chi, addirittura, da sessantamila, con forse diecimila schiave vestite con tuniche di seta e broccato. Si trasportano enormi quantità d’oro, insieme al sovrano il protagonista più importante di questo viaggio. Lo storico Ibn Khaldun parla di ottanta carichi d’oro, qualcosa come dodici tonnellate. Ma c’è chi sostiene che i carichi fossero di più, addirittura cento, pari a diciassette tonnellate. Il baldacchino reale era preceduto da cinquecento schiavi, ciascuno dei quali portava una barra d’oro di poco più di due chilogrammi, per un totale che superava una tonnellata. Numeri, spiega Aime,  ompatibili con i tassi produttivi dei principali giacimenti maliani. Un viaggio che, verosimilmente, richiese una lunga preparazione. Occorreva trasportare acqua, scorte alimentari, bagagli, tendaggi e tutto l’oro in sicurezza; muovere l’imponente massa d’uomini e migliaia e migliaia di dromedari attraverso territori spesso inaccessibili. Aime ci conduce in questo straordinario viaggio, attraverso paesaggi che cambiano profilo e colori, lungo snodi che si perdono nella vastità del deserto. Fino all’Egitto e alle piramidi, davanti alle quali il grande corteo si accampa per tre giorni. E poi al Cairo, uno dei principali empori mondiali d’allora, dove la presenza di un numero così massiccio di visitatori africani si trasforma in una straordinaria opportunità di guadagno per i mercanti locali. Dopo la sosta di qualche mese, la marcia riprende; e, finalmente, s’arriva alla meta, alla Mecca. Per tutto il viaggio, Mansa Musa fa ciò cui era destinato: elargisce doni, fa mostra di grande prodigalità. E regala oro in quantità, spesso in pepite. Vi aggiunge tante spese folli, al punto che resta senza un soldo ed è costretto a chiedere prestiti a usurai e mercanti, con dei pagherò che salderà solo una volta tornato a casa. Ma, intanto, questa formidabile iniezione d’oro ebbe un effetto inaspettato, poiché ne fece crollare il prezzo, con un domino sui mercati internazionali. Così di Mansa, l’uomo più ricco della storia, resta questa impressione indelebile: dell’uomo che riuscì, da solo, con la sua disinvolta esibizione di inimmaginabile ricchezza, a rovinare l’economia dell’oro di un’enorme regione economica, con un tracollo che, dall’Egitto al Medio Oriente e all’Africa, coinvolse anche il mondo cristiano.

Favria, 22.06.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Chi pensa bene degli altri avrà sempre un amico, chi pensa male del prossimo morirà abbandonato. Felice  giovedì

La vecchiaia

Oggi parlo dell’elogio della tarda età, dello spirito e della mente in un epoca in cui il lifting fa ormai parte della normalità, pertanto vale la pena rileggere le pagine che Marco Tullio Cicerone ci ha lasciato su “La vecchiaia,” rilette recentemente  La Vita Felice, pagine 140, € 12 di Cesare Costa. Opera di Cicerone scritta prima della morte, dedicata all’amico Attico, il “De senectute”nasce sotto forma di dialogo tra il vecchio Catone, Gaio Lelio Minore e Publio Cornelio Scipione Emiliano. Elogio della tarda età, invita a tener conto della salute, svolgere esercizi fisici con moderazione, assumere tanto cibo e bevande in modo da ritemperare, non opprimere, le forze fisiche. E poi: non bisogna solo aiutare il corpo, ma molto di più la mente e lo spirito.

Favria,  23.06.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Un essere umano può valerne cento e cento non valerne uno. Felice venerdì.

Concerto della Filarmonica.

Sabato 24 Giugno, la Filarmonica Favriese terrà il consueto concerto in onore della festa Patronale ss. Pietro a Paolo, alle ore 21,00, nella piazzetta Oratorio, diretto dal Maestro Alberto Pecchenino, in caso di maltempo il concerto si terrà nel Salone Polivalente. Una serata di splendida musica che è il modo migliore per celebrare la festa patronale. La Filarmonica Favriese con i suoi concerti e i suoi bravissimi artisti siete la colonna sonora non solo della Festa Patronale ma dei bei momenti vissuti dalla Comunità, grazie a tutti musici per le vostre eccellenze che fate ogni volta vibrare l’animo di lieto stupore con la varietà di  colori timbrici che il vostro organico possiede. Grazie Filarmonica, siete il nostro vessillo, siete bravissimi nel suonare dal vivo come se ogni nota come fosse l’ultima.

Favria, 24.06.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. La conoscenza senza la pazienza è come una candela senza luce. Felice sabato.

Cima Vallona, strage senza giustizia

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta il movimento indipendentista tirolese si rese responsabile di numerosi attentati dinamitardi contro infrastrutture dello Stato italiano in Alto Adige. La notte del 25 giugno 1967 il silenzio su Cima Vallona, al confine tra Veneto e Trentino Alto Adige, fu squarciato da una deflagrazione che provocò l’abbattimento di un traliccio dell’alta tensione. L’esplosione funzionò da esca per attirare sul posto i militari italiani. Una prima pattuglia avvicinandosi alla struttura crollata venne investita dall’esplosione di un ordigno collocato sotto la ghiaia: gravemente ferito, l’alpino Armando Piva morì dopo un giorno d’agonia. In seguito raggiunse Cima Vallona un’altra squadra della Compagnia Speciale Antiterrorismo. Scendendo dal luogo dell’attentato dopo l’ispezione i militari incapparono in un secondo ordigno nascosto: il sottotenente Mario Di Lecce, il capitano Francesco Gentile e il sergente Olivo Dordi morirono sul colpo, il sergente Marcello Fagnani rimase gravemente ferito. Sul luogo furono trovate due tavolette di legno con incisa una rivendicazione a firma dell’organizzazione terroristica separatista altoatesina BAS, Befreiungsausschuss Südtirol, Comitato per la liberazione del Sudtirolo. Le indagini condotte in Italia attribuirono l’attentato a una cellula terroristica di quattro persone, un austriaco e tre tedeschi, riconducibili al BAS, e nel 1970 la Corte d’Assise comminò in contumacia tre ergastoli e una condanna a 24 anni. A seguito di forti pressioni diplomatiche italiane, i tre tedeschi furono processati anche in Austria, dove erano riparati, ma assolti per insufficienza di prove

Favria, 25.06.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita la felicità è una direzione, non un luogo. Felice festa patronale SS.Pietro e Paolo a tutti i Favriesi. Buona domenica

La forza della parola.

Dicono che le parole  pesano come pietre, ed è vero per la storia umana partendo dall’antica Grecia  sino ad arrivare ai giorni nostri, il logos  è carico di forza. Pensiamo a Gorgia e al suo Encomio di Elena, grazie al quale la donna non viene più vista come la responsabile della sanguinosa Guerra di Troia. Qui vi è la  dimostrazione di come la parola sia in grado di ribaltare il convincimento popolare, se viene ben utilizzata. Poi abbiamo Aristotele, il padre della retorica, che definisce l’uomo caratterizzato da logos e polis, parola e città. Le parole scelte possono infatti cambiare la realtà politica. La parola viene usata spesso come vocabolo è l’impegno all’interlocutore: “ti do la mia parola”. Il lemma viene usato per una  facoltà: “il dono della parola”,  il diritto di parlare: “dare la parola”, una presa di posizione nel discorso: “avere l’ultima parola”,  è un indirizzo: “la parola del maestro”, oppure per evidenziare che poi non seguono delle azioni concrete,  solo a parole. Per alcuni è un modo di parlare: “avere la parola facile. Poi abbiamo il modo di dire : “Parlare a quattr’occhi: “parlare direttamente con qualcuno, senza testimoni”, oppure: “Parlare chiaro e tondo, parlare senza giri di parole”. Potrei proseguire di  parola in parola, passando da un discorso all’altro. Sicuramente si devono pesare le  parole  stando molto attento a quello che dico. Potrei dire che certe parole sono palindromiche come il vocabolo ossesso. La parola forza  ha una sua potenza sia che si  parlo di  vigoria fisica: “usare la forza”, o di violenza: “per amore o per forza”, ma può essere un  insieme di individui: “una forza politica”, “le forze armate”, infine fisica come la “la “forza gravitazionale”. La  forse in se stessa è cieca, in Omero la forza è sconfitta solo da una forza diversa, contraria e superiore, come il duello tra Achille  e Ettore, oppure dall’astuzia, Ulisse e Polifemo, che però non la batte ma la aggira. La forza, ogni forza, si conosce e si misura infatti solo dalle forze a lei opposte. La forza è per noi il parametro di confronti di tipo agonistico-competitivo, che non richiedono cioè arbitrati, così come la vittoria sul ring per ko annulla i voti di merito dei giudici. La stessa parola è una forza perché ha il potere  di persuadere, su può opporre o imporre in un discorso e persuadere. Ma a volte  la persuasione può essere una resa o adesione e abbraccio di una causa. Le parole trasferiscono emozioni e, se usate in modo appropriato, sono in grado di modificare enormemente la percezione delle cose o delle esperienze.  Attraverso le parole esprimiamo idee, desideri, stati d’animo e sentimenti: per questo motivo, un corretto uso delle parole è fondamentale per il dialogo e la comprensione sia verso noi stessi che verso gli altri. Bisognerebbe sempre ricordare che quello che esce dalla nostra bocca ha un valore. La parola in apparenza più piccola ed insignificante può fare molto male, in base alle circostanze della comunicazione. Ogni giorno, noi abbiamo la possibilità di dirigere  le nostre aspettative e per questo le parole sono importanti. Le parole, quando vengono pronunciate, coinvolgono tutto il nostro corpo e la situazione che stiamo vivendo, suscitando una serie di emozioni che vanno ad infondere una particolare energia nell’animo. Per questo motivo dobbiamo stare attenti nell’esprimerci ed abituarci all’attenzione delle espressioni verbali come di quelle non verbali; è quindi molto importante essere accorti quando comunichiamo con noi stessi, soprattutto quando abbiamo un obiettivo da raggiungere. Nella vita la  prima forza che si oppone alla parola è quella dei fatti, che viene armata contro la parola, ma a parole, tramite il richiamo a un’evidenza. L’evidenza è la parola che si fa fatto e il fatto che si fa parola. Ma, ibrida come è fra il fattuale e il visuale, la nozione contemporanea di evidenza è anche il fulcro comune alle due forze che si oppongono principalmente alla parola: se la prima era costituita dai fatti, la seconda è costituita appunto dall’immagine. Mi fermo qui e non spendo più altre parole

Favria, 26.06.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Il passato è la radice del presente e il presente è il seme del futuro. Felice  lunedì.

Nogai

I Nogai, anche conosciuti come Mongoli Cucasici, il termine “Caucasico” si riferisce al luogo in cui vivono, le montagne del Caucaso,  e non alla loro provenienza etnica, sono una popolazione turca, oggi importante minoranza nella regione del Dagestan. I nogai sono i discendenti dei Kipchaki, gruppo etnico che si fuse con i conquistatori mongoli formando l’Orda Nogai, la loro lingua, il  nogai è di derivazione turca, anche se alcuni parlano la lingua sori.  La maggioranza dei nogai  sono mussulmani di credo sunnita, portano una piccola barba e sono di minore altezza rispetto alle altre popolazioni che vivono nel Caucaso, altezza media degli uomini è infatti di un metro e sessanta. Hanno spesso occhi a mandorla, alle volte blu, facce piatte con lunghi nasi. Il loro nome deriva da Nogai Khan un generale dell’Orda d’Oro. Dopo la disgregazione dell’Orda d’Oro costituirono un proprio khanato in un territorio compreso tra il Volga e l’Itrysh e alcuni di loro servirono nel khanato di Astrachan. Dopo l’invasione russa del 1556 e la  scomparsa dei due khanati alcune tribù nogai entrarono a far parte di piccole entità politiche quali la “Kucuk Orda”, Piccola Orda a nord del Caucaso o la “Altiul Ordası” presso il lago Emba,  altre, sotto il controllo del Khan Ismail, costituirono un khanato vassallo di Mosca con il nome di “Grande Orda Nogai”, altre ancora offrirono i propri servigi al  khanato di Crimea. Queste ultime avevano il compito di proteggere i confini a nord del khanato e si distinsero nell’organizzazione di raid contro gli insediamenti slavi vicini. Alcuni guerrieri nogai si trasferirono nella penisola di Crimea dove diventarono cavalleria scelta del Khanato. I nogai non erano solo ottimi guerrieri che vivevano di razzie, ma avevano sviluppato anche una discreta capacità nell’agricoltura, soprattutto nella coltivazione del grano e nell’irrigazione delle aride steppe in cui abitavano. Alcuni di loro si dedicarono anche alla pastorizia, migrando stagionalmente alla ricerca di pascoli per i loro animali. Orgogliosi delle loro tradizioni nomadi e della loro indipendenza, erano mal visti dalle popolazioni stanziali, tanto che il loro nome era spesso associato a quello delle bande di briganti che vivevano razziando i raccolti. Dopo l’annessione russa del khanato i loro terreni di pascolo furono confiscati e occupati dagli agricoltori slavi. Dopo aver confiscato le terre che utilizzavano per i pascoli, il governo russo cercò di far stanziare forzatamente le tribù nogai con vari metodi, come quello di bruciare i loro accampamenti e di limitare i loro movimenti. Le truppe del generale russo Suvorov uccisero alcuni migliaia di ribelli nogai di Kuban nel  1783. Alcune tribù di quest’etnia cercarono allora rifugio tra i Circassi mentre molti iniziarono a migrare verso il più ospitale, per motivi religiosi, impero Ottomano.  L’esodo dei nogai seguì due distinti itinerari: si stima che circa settemila nogai delle Orde di Bucak e Cedsan si stabilirono in Dobrugia prima del 1860. Dopo questa data alcuni clan delle Orde di Camboyluk e Kuban si spostarono verso l’Ucraina meridionale e si mescolarono con i nogai che qui si erano stabiliti all’epoca del Khanato. Cinquantamila dei settantamila nogai di Kuban lasciarono poi in quel periodo la Russia per l’Impero Ottomano, così come all’incirca trecentomila Tatari che vivevano in Crimea nei distretti di  Evpatoria, Perekop e nel nord di Simferopol. Similarmente all’incirca cinquantamila nogai fuggirono dal sud dell’Ucraina nel 1861. Altre tribù nogai, tra quelle che si erano trasferite sul Caucaso con i circassi, emigrò con questi in Anatolia. Negli anni Novanta del Novecento  circa sessantacinquemila nogai vivevano ancora nel Caucaso settentrionale, , divisi in confederazioni tribali Ak, Bianche e Kara, Nere. Il fatto che durante il periodo sovietico non fosse stata riconosciuta loro identità di popolo ritardò la loro evoluzione in senso nazionale. I nogai vivono oggi tra il  Dagestan, la Cecenia  ed il territorio di Stavropol’,  senza alcun riconoscimento legale e rischiando di assimilarsi ai loro vicini russi, calmucchi e circassi. Oggi poche  centinaia di nogai vivono oggi in Dobrugia, nell’odierna Romania e nei paesi di  Kogolniceau, Karamurat, Kocali, Vala Dacilor e Kubadin. Oggi circa circa novantamila persone di quest’etnia vivono oggi in Turchia,  la maggior parte nelle provincie di Adana, Ankara. La lingua nogai è affine al kazako è ancora oggi parlata in alcuni villaggi dell’ Anatolia Centrale, mantenendo la loro cucina tipica costituita da piatti ipici con il Nogay say, bevanda preparata bollendo insieme latte e the insieme con burro, sale e pepe. Alcuni nogai vivono anche ad  Amman in Giordania,  nell’area agricola chiamata Wadi El Sir, e sono i discendenti di coloro che emigrarono lì dalla Turchia per supportare l’esercito ottomano nel tardo XIX secolo,  durante l’occupazione dell’ Arabia, i nogai giordani adesso parlano arabo.

Favria, 27.06.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Cinque sono i gradi per giungere alla saggezza: tacere, ascoltare, ricordare, agire, studiare. Felice martedì.