La glorieuse rentrée. – La morbosa passione verso il denaro e le ricchezze! – L’Idromele. – Tigellino. – Scuro e scuro. – Idem, Ibidem.- Noi bambini degli anni 50 e 60 del Novecento… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Glorieuse rentrée
Glorieuse rentrée in italiano il  glorioso  rimpatrio intende  la lunga marcia che

nel condusse nel 1689 un gruppo di Valdesi attraverso le Alpi alla volta delle valli piemontesi, dalle quali erano stati cacciati dai Savoia al culmine di una lunga e sanguinosa persecuzione. Andiamo per ordine, sul finire del XII secolo nacque intorno alla figura di Pietro Valdo, un ricco commerciante di tessuti di Lione il cui nome era forse in realtà Valdesio, un movimento religioso ben presto destinato ad essere annoverato tra le eresie. Spogliati di ogni bene materiale sull’esempio del maestro, che si era convertito dopo una lunga crisi religiosa agli ideali evangelici della povertà, i seguaci di Valdo diventarono i “Poveri di Lione” e la loro predicazione andò incontro ad un rapido successo tanto in Francia quanto al di qua delle Alpi. Invisi dalle gerarchie ecclesiastiche i Valdesi vennero progressivamente marginalizzati fino alla scomunica, che arrivò nel 1184 quando con l’epistola decretalis, lettera del Papa Lucio III “Ad abolendam” mise al bando i Valdesi insieme a Catari, Patarini e ad altri movimenti ereticali la cui predicazione di stampo pauperistico li rendeva pericolosi per l’ordine sociale basato sull’accettazione della ineluttabile diversità di destini tra ricchi e poveri. L’inizio delle persecuzioni obbligò i seguaci di Valdo a trovare rifugio in Provenza e nel Delfinato, territori dai quali alcuni gruppi, spinti dalla necessità di sottrarsi alle terribili stragi perpetrate dalla crociata contro i Catari di Albi, 1209-1229, presero a incunearsi nelle pieghe delle valli piemontesi. Dopo un’iniziale tolleranza, la situazione per i Valdesi riparati in Piemonte cambiò radicalmente con l’affermarsi della signoria dei Savoia: oltre a varie crociate locali che li decimarono nel Trecento e nel Quattrocento, i Valdesi dovettero guardarsi dalle persecuzioni promosse nell’ambito della Controriforma, avendo il movimento aderito al Protestantesimo. Il conflitto terminò il 5 giugno 1561 quando il duca Emanuele Filiberto di Savoia concesse la “pace di Cavour”, grazie alla quale Valdesi ottennero di poter liberamente professare il loro credo seppur all’interno di rigorosi confini delle valli Pellice, chiamata allora val Luserna, bassa val Chisone, val Perosa e Germanasca, val San Martino, territori oggi noti come Valli Valdesi. La ritrovata serenità durò poco meno di un secolo, fino a quando nuovi conflitti politici scatenarono le tragiche Pasque Piemontesi del 1655, la più feroce e sanguinosa repressione mai subita dai Valdesi, che spinse molti di loro a emigrare in Svizzera o in Germania. Ma nell’agosto del 1689 più di 900 tra Valdesi e Ugonotti, guidati dal pastore Enrico Arnaud, partirono dalla località svizzera di Prangins, sul lago di Ginevra, e in una quindicina di giorni superarono le Alpi e percorsero più di 250 chilometri combattendo contro le truppe regolari del Piemonte e quelle francesi giunte a dar man forte alla repressione. La grande marcia, nota come Glorieuse Rentrée, Glorioso Rimpatrio, si concluse nel prato di Sibaud di Bobbio Pellice, dove un monumento eretto nel XIX secolo ricorda il giuramento prestato dai reduci, ridotti a non più di 300 unità, di mantenersi uniti e solidali. Le persecuzioni sarebbero durate ancora, a ondate, fino al 1848, quando Carlo Alberto con le “Lettere Patenti” del 17 febbraio riconobbe finalmente ai Valdesi la libertà di culto e i diritti politici e civili.
Favria, 14.11.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Chi sa parlare e non sa ascoltare potrà anche essere uomo di cultura, ma certo poco saggio, poiché conosce solo il suo pensiero rinunciando a priori a quello altrui. Felice martedì

La morbosa passione verso il denaro e le ricchezze!

Sin dall’antichità la parola avarizia indicava la brama eccessiva di ricchezza e l’attaccamento esagerato al denaro. La figura dell’avaro, in latino avarum ha la stessa etimologia di avidus,  è sempre stata argomento di grande interesse di scrittori e poeti, diventando oggetto di scherno e di satira. Nella commedia di Tito Maccio Plauto “Aulularia, chiamata anche la Commedia della Pentola o La Pentola d’oro, è significativa sull’avarizia, pensate che la fama di questa commedia era così vivida  che Mòliere  si ispirò ad essa per la sua commedia  l’Avaro. La commedia di Plauto inizia con un prologo, un breve riassunto della storia “argumentum”. Questo prologo era un acrostico attraverso il quale nella versione latina si legge il titolo della commedia “AVLVLARIA”, poiché nel latino classico non esisteva la lettera “U”, ma la  “V” che  poteva essere letta come  “U”:” Non fate meraviglie: in due parole vi dirò chi sono. Sono il Lare domestico di quella casa, da cui m’avete visto uscire. Già da molti anni l’abito e la guardo per l’avo e per il padre di quello che ora la possiede. Il nonno in gran segreto e con grandi preghiere un bel gruzzolo d’oro m’affidò seppellendolo in mezzo al focolare e pregando che ben lo custodissi.La trama è abbastanza semplice, Euclione, un vecchio taccagno, eredita una pentola piena di monete e vive nel costante terrore che gli venga sottratta. Eunomia consiglia al fratello Megadoro, vicino di casa di Euclione, di trovare moglie. Così Megadoro decide di sposare Fedria, figlia di Euclione, e va da questo per chiedergli la mano della figlia. I due si accordano di celebrare il matrimonio il giorno stesso; Euclione pensa che Congrione, il cuoco chiamato per cucinare il banchetto nuziale, sia un ladro sentendolo più volte pronunciare la parola “pentola” e lo malmena, ma poi si rende conto della paranoia e lo lascia continuare a cucinare. Per sicurezza però Euclione decide di spostare la pentola d’oro nel tempio della fede.Il servo di Liconide, nipote di Megadoro innamorato di Fedria, vede Euclione nascondere la pentola e fa per prenderla, ma il vecchio avaro decide di rispostarla nel bosco Silvano e il servo avendolo seguito fin lì ruba la pentola e la nasconde in casa di Megadoro. Il servo allora cerca di comprarsi la libertà offrendo la pentola a Liconide che però rifiuta e portando la pentola a Euclione chiede la mano di Fedria. Scriveva N. Macchiavelli che “Avaro in nostra lingua  è ancora colui che per rapina desidera di avere,  misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo”. L’avaro di Plauto si chiama Euclione. E’ gretto, avido, sospettoso, nevrotico, e ha nascosto una pentola piena d’oro in un luogo segreto su cui ossessivamente vigila, inquieto ed alienato da ogni altro interesse, fino a creare egli stesso le premesse del furto tanto temuto. Già gli avari che Dante li colloca nel quarto cerchio dell’Inferno in quanto hanno il vizio di  accumulare ricchezza, che accumulano per il piacere del possesso, dopo i lussuriosi e i golosi. Oggigiorno, purtroppo siamo circondati da avidi, che quasi mai ci fanno sorridere. Politici, candidati in cerca della cadrega per le prossime elezioni politiche, personaggi famosi o gente comune, sono sempre più desiderosi di ricchezze, ma come dice Proust: “Il denaro è lo zero che moltiplica un valore“, non vale niente.Questi personaggi si scrivono con tre lettere “Fur, ladro!, in piemontese rende benissimo il termine “cit” che significa piccolo e gretto di cervello! Non vale la pena di dedicare i propri giorni ad accumulare solo per accumulare capitali e non godersi le gioie semplici della vita. Perché molte volte non sono gli eventi a portare la felicità ma la felicità ma è  la felicita’ a portare eventi positivi. A volte cerchiamo la felicità in cose assurde e rincorrendone alcune categoricamente impossibili… poi fermandoci un attimo scoraggiati. Ecco che allora ci accorgiamo che è vicinissima,  basta cercarla dentro noi e nelle piccole cose che abbiamo.

Favria 15.11.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ricordiamoci sempre che la medesima acqua può sostenere o affondare una nave.  Felice mercoledì

L’Idromele.

Considerato da alcuni popoli del mondo antico come la “bevanda degli dei”, l’idromele è un liquore prodotto a partire dalla fermentazione del miele e che nel corso della storia ha riscosso un successo che ha ben pochi precedenti tra le bevande alcoliche. Definire con esattezza l’origine dell’idromele è un compito difficile, ma è possibile che la formula sia stata scoperta per puro caso dai primi cacciatori- raccoglitori circa  20.000 anni fa. Il miele costituiva un’importante fonte di zuccheri ed energie e i nostri antenati nomadi non si facevano mai sfuggire l’occasione di prelevarlo da alveari selvatici. Gli alveari selvatici si trovano spesso all’interno di cavità degli alberi  che prendeva umidità (in Africa capita specialmente con baobab e miombo), cavità che tendono ad allagarsi durante la stagione umida. A contatto con acqua e lieviti  presenti in natura, il miele inizia un processo di fermentazione producendo piccole quantità di alcool. L’inebriamento indotto dal miele fermentato potrebbe aver spinto i  cacciatori-raccoglitori delle origini ad elaborare la prima, rudimentale ricetta dell’idromele. Le prime testimonianze archeologiche sulla produzione di idromele risalgono ad oltre 9.000 anni fa: frammenti di vasi di ceramica rinvenuti in Cina contengono tracce chimiche di miele, riso e composti organici coerenti con il processo di fermentazione. Anche l’India si distinse per la produzione di idromele: la più antica descrizione della bevanda è contenuta nel Rigveda, uno dei libri sacri della religione vedica datato a 3.700-3.100 anni fa. In Europa, i più antichi campioni di idromele risalgono a quasi 5.000 anni fa: la cultura del vaso campaniforme, Bell Beaker, fiorita all’inizio dell’Età del Bronzo, produceva in tutta Europa bevande alcoliche a base di miele che, nei secoli successivi, ogni popolazione del continente elaborò per creare una delle svariate versioni dell’ idromele. Nell’ età dell’oro della mitologia greca, l’idromele era la bevanda preferita degli eroi. Molti studiosi hanno identificato l’ ambrosia, la bevanda degli dei, con l’idromele; alcuni hanno anche proposto l’ipotesi che l’ambrosia fosse una bevanda realmente esistita. Aristotele discusse le proprietà dell’idromele nella sua opera Meteorologica, ritenendolo un tonico in grado di restituire vigore e virilità agli uomini. Tre secoli dopo Plinio il Vecchio è il primo a definire una distinzione tra vino addolcito con miele e “vino di miele”. Beowulf, protagonista di uno dei più importanti lavori letterari dell’antica letteratura inglese, beveva idromele e come lui tutti gli eroi danesi e celtici. Il poeta celtico-romano Aneirin che celebra nel 550 a.C  il regno di Gododdin, cita l’idromele. Il bardo gallese Taliesin  nel VI secolo d.C. sempre in Britannia compose “canzone dell’Idromele”. Anticamente in alcune  regioni d’Europa era tradizione regalare ad una coppia appena sposata una quantità di idromele sufficiente ad un mese lunare di bevute; da questa tradizione ebbe origine l’espressione “ luna di mele”. La bevanda veniva regalata per favorire il concepimento di un figlio, dato che le si attribuivano doti ricostituenti e il potere di inebriare i sensi e semplificare il corteggiamento. La Polonia ha una lunghissima tradizione legata all’idromele: durante il Medioevo vaste regioni polacche erano ricoperte da foreste primarie che, secondo il monaco del XII secolo Gallus Anonymus, autore della Cronaca polacca, erano ricche di alveari selvatici. Nel 996 il mercante arabo Ibrahim ibn Yaqub così scriveva: “a parte il cibo, la carne e la terra da arare, il regno di Mieszko I è ricco d’ idromele, che è il modo in cui gli Slavi chiamano i vini e le bevande intossicanti”. Nel XV secolo, invece, il diplomatico veneziano Ambrogio Contarini scrisse: “non avendo vino, i Polacchi producono una bevanda con il miele, una bevanda che intossica le persone molto più del vino”. Tra il XVII e il XVIII secolo in Polonia vengono trascritte non solo molte ricette per la produzione di idromele, ma anche le differenti varianti polacche di questa bevanda: czwórniak, trójniak, dwójniak e półtorak.  Sulle coste del Mediterraneo la produzione di idromele iniziò a ridursi non appena si riuscì a coltivare su vasta scala la vite per la produzione di vino, più semplice da creare in grandi quantità. Nelle regioni più settentrionali d’Europa, dove la coltivazione della vite era difficile o la disponibilità di frutta era limitata, l’idromele continuò a godere di una vastissima popolarità. La cultura nordeuropea precristiana attribuiva un’enorme importanza all’ idromele: si trovano riferimenti a questa bevanda alcolica sia nella letteratura scandinava sia nella mitologia norrena. L’idromele era la bevanda preferita di Odino, che rubò ai giganti il sacro idromele che gli donò infinita conoscenza e l’arte della poesia,  e di altre creature soprannaturali, oltre ad essere l’alcolico che i guerrieri giunti nel Valhalla bevono dalle mammelle della capra Heidrunn dopo un’intera giornata trascorsa a combattere. Un altro episodio mitologico legato all’idromele è quello di Kvasir, un esponente del popolo mitologico degli Asi e ritenuto l’essere soprannaturale più saggio mai esistito nell’universo. Per appropriarsi della sua saggezza, due nani, Fjalarr e Galarr, lo assassinarono per estrarne il sangue e mescolarlo con miele; dal miscuglio fermentato si generò un magico idromele che donava straordinarie doti da poeta a chiunque lo bevesse, mi viene da dire, averne adesso un pochino per me. Nelle “sale dell’idromele” vichinghe chiamate sal o salr, si svolgevano banchetti, celebrazioni religiose e feste per i trionfi in battaglia bevendo idromele e cantando le gesta degli eroi passati e contemporanei. All’interno delle sale dell’idromele si stipulavano alleanze o si ordivano intrighi: nella saga di Ynglinga, il poeta islandese Snorri Sturluson racconta come, nell’ VIII secolo, il re svedese Ingjald fece costruire un’enorme sala dell’Idromele,  con il solo scopo di ardere vivi tutti i suoi vassalli addormentati e intorpiditi dall’alcool. Una delle prime ricette dell’Idromele fu  redatta in forma scritta dal naturalista romano Columella nel 60 d.C.. Nella sua opera De re rustica,  scrive:”Prendere acqua piovana rimasta a decantare per diversi anni e mescolare un sextarius, circa mezzo litro,  di acqua con una libbra romana di miele. Per un idromele più leggero, mescolare un sextarius d’acqua con nove once di miele. Il miscuglio deve essere esposto al sole per 40 giorni per poi essere lasciato vicino al fuoco. Se non si dispone di acqua piovana, far bollire acqua di sorgente. La più antica ricetta dell’idromele polacco fu trascritta nel 1567 dallo svedese Olaus Magnus, che aveva ottenuto la formula dagli abitanti della città di Gniezno: secondo la ricetta, occorre mescolare 10 libbre di miele a 40 libbre  d’acqua e far bollire la mistura, insaporendola con luppolo e lasciandola fermentare dopo aver aggiunto lievito di birra. L’idromele è sostanzialmente un sottoprodotto dell’estrazione del miele da un alveare. Prima dell’estrazione meccanizzata, il miele veniva prelevato schiacciando gli alveari per ottenere una poltiglia di cera e zuccheri semiliquidi; per separare il miele dalla cera, la poltiglia veniva lavata con acqua calda. Ciò che rimaneva era cera, miele e una certa quantità di acqua zuccherina che, se lasciata libera di fermentare per qualche settimana, si arricchiva di alcool e acquisiva il sapore tipico dell’idromele. Esistono  diverse varianti di Idromele: Braggot,  ottenuto dalla combinazione di idromele e malto, birra. Capsicumel, idromele fatto con peperoncino. Cyser, idromele e sidro. Melomel, idromele e frutta. Metheglin, idromele con spezie. Pyment,  idromele e vino. Rhodomel, idromele con rose. Rubamel, idromele con lamponi. Weed Mead, idromele con canapa. Le varianti con aggiunta di alcol sono diffuse soprattutto in Germania e America, dove la bevanda si chiama  mead e segue la  tradizione di liquori di dolci, che prevede di mescolare distillati da cereali o bourbon con il miele per ottenere bevande zuccherine. In Bosnia, Serbia e Repubblica Ceca è invece molto diffuso il Medovina, un idromele di sapore complesso per la presenza di spezie come cannella, vaniglia e cioccolato, dalla gradazione alcolica del 18%; il tipico Metheglin  gaelico  è arricchito con buccia d’arancia, noce moscata e coriandolo, mentre il Tej etiope si prepara con il gesho un luppolo piuttosto legnoso, rami e foglie secche. Secondo gli esperti, l’idromele si può cominciare a bere dopo due mesi dall’imbottigliamento, ma raggiunge il massimo di gusto e aroma solo dopo sei mesi d’invecchiamento o addirittura dopo qualche anno. I tempi dipendono comunque anche dal tipo di miele utilizzato in partenza, e l’invecchiamento deve essere portato avanti in ambienti freschi, al riparo dalla luce del sole e con un’umidità elevata. Solo così possono emergere gli aromi terziari, che contribuiscono al bouquet che caratterizza il profumo e il gusto della bevanda.

Favria,  16.11.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Il tempo non cancella ma costudisce. Felice  giovedì

Tigellino.

Prefetto del pretorio dell’imperatore Nerone. Nato da oscuri genitori di Agrigento, coinvolto in scandali a Roma e relegato nel 39 d. C. per adulterio con Agrippina sorella di Caligola, ritorna in Italia per grazia di Claudio. Diventato amico di Nerone per il comune amore alle corse dei cavalli, è nominato prefetto dei vigili, indi nel 62, morto Burro, prefetto del pretorio, con Fenio Rufo. Il suo prestigio è accresciuto con la scoperta della congiura pisoniana nel 65 d. C., per cui è onorato con insegne trionfali e con statua nel Foro. A Fenio Rufo, condannato in tale occasione per sua iniziativa, succede come collega Nimfidio Sabino.  Da allora Tigellino è onnipotente, e accompagna Nerone in Grecia nel 66. Nel 68, in circostanze oscure, sentendo il terreno cedere sotto Nerone, lo abbandona ed è costretto dopo la morte di Nerone dal collega Nimfidio ad abdicare dalla prefettura. È salvato allora dalla morte richiesta dal popolo per l’intervento di Tigellino, Vinio favorito di Galba. Ma Otone lo condanna a morte. All’annuncio Tigellino si uccise nei bagni di Sinuessa. Una fama di lussuria, avarizia e crudeltà lo accompagna nella tradizione storica anti-neroniana

Favria, 17.11.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. In questo paese di ignoranti quelli che riconoscono un condizionale da un congiuntivo rischiano di passare per intellettuali. Felice venerdì

Scuro e scuro.

In italiano alla parola scuro troviamo due significati, abbiamo lo scuro, che deriva dal longobardo skur, copertura, protezione, che sono ciascuna delle imposte cieche che, applicate alla parte interna delle finestre, consentono la completa oscurità dell’ambiente e migliorano la sicurezza contro le effrazioni. Ma abbiamo anche la parola scuro che deriva dal latino obscurus, con aferesi della sillaba iniziale che indica oscuro, poco illuminato, che è privo, parzialmente o del tutto, di luce. Per estensione una persona dal carattere fosco, torvo, corrucciato. Nessuna tenebra dura per sempre. E anche nell’oscurità c’è sempre qualche stella.

Favria, 18.11.2024 Giorgio Cortese


Buona giornata. Nella vita sono le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità. Felice sabato

Idem, Ibidem.

La parola idem significa, lo stesso; ugualmente. La parola deriva dal latino,  in particolare pronome e aggettivo dimostrativo, composto di is, quello, e dalla particella -dem, che ha valore di “precisamente” ed esprime identità. Oggi questa  parola latina continua ad essere comunemente usata in italiano. In realtà, rispetto all’ampiezza del suo principale significato originale, cioè quello di  “stesso, medesimo”, la troviamo usata in casi piuttosto specifici, ma non per questo poco vigorosi. Un caso molto importante è quello delle citazioni: quando non si vuole ripetere per esteso ciò che si è già enumerato, dati, nomi, indicazioni, si può usare la parola idem,  spesso abbreviata in “id.”. Quindi una volta citati, nei casi seguenti si ricorrere a questa parola latina per una questione di eleganza stilistica. Ancor più importante e generale è il caso,  spesso connotato da familiarità o ironia,  in cui si attribuisce a idem il significato di “lo stesso, allo stesso modo”, riprendendo ellitticamente qualcosa di già detto o un caso analogo. Se al ristorante  il mio amico ordina i ravioli, potrei anche io chiosare dopo con idem, perché sono davvero eccezionali ed è ovvio che li voglio anche io. Viene usato a volte se si vuole per smontare un’affermazione che può essere usata anche su un’altra: “Idem come sopra”, per evitare di ripercorrere tutti i passaggi. La parola ibidem vuole dire: “nella stessa opera o nello stesso passo di un’opera, per evitare di ripeterne il riferimento integrale quando ne sia appena stata data indicazione. La parola deriva dal latino e significa: “nello stesso luogo”, da ibi, qui col rafforzativo -dem. L’ibìdem è un latinismo che vive come riferimento bibliografico. In latino è un “nello stesso luogo”, frutto di un ibi, qui, rafforzato dal suffisso -dem. In questa forma  si è diffuso nella prima metà dell’Ottocento, e si tratta di uno strumento piuttosto utile. L’ibìdem, indicato fra parentesi, è un riferimento che contribuisce a snellirle evitando almeno ripetizioni in sequenza. Infatti capita spesso che il discorso insista su un passo specifico di un documento richiamato, e che da questo passo siano quindi tratti o riportati stralci susseguenti a più riprese. Precisione vorrebbe che ad ogni nuova occorrenza si ripetesse la citazione nella sua esatta completezza, per intero. Per fortuna può accorrere l’ibidem, che si accolla di indicare con eleganza che la citazione viene dallo stesso posto di quella prima, insomma torna indietro e guarda, non sto a riscriverlo. Queste parole sono un modo aggraziato e vivace di impiegare il latino che poi morta come lingua non è, perché ci permette di dare corpo a osservazioni altrimenti asciutte.

Favria, 19.11.2023 Giorgio Cortese


Buona giornata. A volta basta aspettare e anche certe banalità hanno la probabilità di diventare delle perle di saggezza Felice domenica

Noi bambini degli anni 50 e 60 del Novecento.

Oggi noi bambini degli anni 50 e 60 del Novecento siamo in pensione, abbiamo  quasi tutti e se la salute ci sostiene siamo ricchi. Abbiamo fatto esperienze lavorative e affettive diverse ma oggi diciamolo stiamo bene. Anche se siamo dipendenti Inps siamo ancora relativamente giovani con il cervello che nel corso della vita ha accumulato molte più informazioni dei nostri genitori. Abbiamo visto cambiamenti epocali come la televisone a colori che trasmette interrottamente, internet, i social, la tecnologia dei computer nei vari settori. Abbiamo praticamente tutto ciò che desideravamo 60 anni fa, ricordo che da  bambino andavo a scuola a piedi e non era proprio vicino a casa e i bambini che venivano accompagnati con l’auto,  quelli che avevano i genitori fortunati ad averla, viaggiavano senza cinture di sicurezza e senza airbag!  Ricordo che i flaconi dei medicinali non avevano delle chiusure particolari e poi bevevamo l’acqua dalle fontanelle, ma anche dalle canne del giardino o dove capitava, e nessuno non si è mai ammalato. Nei pomeriggi d’estate ci dividevamo la gazzosa o il chinotto con gli amici, dalla stessa bottiglia, e nessuno mai ne morì a causa dei germi. D’estate andavamo in bicicletta  senza casco e passavo con gli amici i  pomeriggi a costruire carretti giocattolo che avevano come ruote dei tondini circolari scartati dalle numerose officine che si trovavano nel quartiere. Con questi carretti che poi erano una tavola con quattro tondini di ferro fissati da un chiodo, che lasciava le ruote girare in maniera libera ci  lanciavamo dalle discese e  verso la fine ci ricordavamo che non avevamo i freni e finivamo su di un campo che attutiva la caduta. Poi noi dopo numerosi incidenti e sbucciature ai ginocchi, imparavamo a risolvere il problema, noi da soli! Quando non dovevamo andare a scuola uscivamo da casa al mattino e giocavamo tutto il giorno. I nostri genitori non sapevano esattamente dove fossimo, però, nonostante ciò, sapevano che non eravamo in pericolo. Allora non esistevano i cellulari per chiamarci e controllarci, erano gli anziani che vigilavano. Se ci facevamo male,  non c’erano mai denunce, erano soltanto incidenti: nessuno ne aveva colpa.  Se ci azzuffavamo, tutto finiva poi li fino alla prossima discussione per futili motivi, ma i genitori non si sognavano di querela nessuno, anzi, molte volte poi  prendevamo il resto  di scapaccioni a casa. Allora mangiavamo i dolci, pane con tanto burro e bevevamo bibite piene di zuccheri, ma nessuno di noi era obeso. Allora non  avevamo la Playstation, né il Nintendo, né i videogiochi, nè  tantomeno la TV a colori, né le webcam, né il PC, né internet, solo qualcuno avevano il mangiadischi. Per le previsioni del tempo non avevano il programma sul cellulare, ma ascoltavano il mitico Bernacca prima del telegiornale delle otto, ed era un utile ripasso di geografia, con le minime e massini dei capoluoghi di regione in Italia e le capitale Europee. Non avevamo follower ma avevamo tanti amici  in carne e ossa, e quando uscivamo da casa li trovavamo. Andavamo, in bici o a piedi, a casa loro, suonavamo al campanello o entravamo  chiedendo permesso e parlavamo con loro. Allora wuai ad essere maleducati. Ci inventavamo dei giochi, o giocavano la settimana sulla strada. Le strade, almeno quelle di paese, erano anche un campo di calcio: bastavano 4 mattoni,  e le poche auto in giro rallentavano e stavano attente a non schiacciarci. Allora bocciavano alle elementari  e nessun genitore si lamentava, la rifacevano per il loro bene e basta e nessun genitore ricorreva al Tar. Allora i genitori non contestavano ne attaccavano i maestri e professori ma accettavano senza problemi le loro decisioni e se  noi bambini protestavamo i genitori ci mettevano in punizione e difendevano sempre la scuola. Se arrivavamo in ritardo o ricevevamo una nota sul diario i  nostri genitori non ci avrebbero difeso, erano sempre dalla parte della legge.  Le nostre iniziative erano nostre. E le conseguenze, pure.  Nessuno si nascondeva dietro a un altro. I giocatoli nuovi li ricevevamo per il compleanno, a Natale o alla Befana, non ogni volta che si andava al supermercato. I nostri genitori ci facevano dei regali con amore, non per sensi di colpa.  E le nostre vite non sono state rovinate perché non ci fu dato tutto ciò che volevamo. Avevamo libertà, successi, insuccessi, e responsabilità, e abbiamo imparato a gestirli. E adesso  siamo arrivati alla seconda giovinezza, dei bambini che  crescono all’indietro e sono il legame con la storia.

Favria, 20.11.2023

Buona giornata, Nella vita il potere è conferito ma la forza d’animo è intrinseca dentro di noi. Felice  lunedì