La prima pompa di benzina. – Le sfumature dell’iride. – Giròni ed la crina e Girometa, Famiola! – Melograno. – La Sacra Sindone arriva a Torino ( 9 settembre 1785). – Smatphone e cellulare. – Il vin santo…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

La prima pompa di benzina. Nei tempi pionieristici dell’automobilismo su strada il pieno

si faceva in drogheria, le latte di benzina si vendevano ai lati delle strade e perfino in farmacia. In seguito, sul finire dell’Ottocento, l’aumento delle vetture circolanti, soprattutto negli Stati Uniti dove la corsa all’automobile si era fatta impetuosa, rese indispensabile l’apertura dei primi punti di rifornimento dotati di distributori. Il 5 settembre del 1885 lo statunitense Sylvanus Bowser ebbe l’idea di rivedere e correggere la classica pompa utilizzata nei pozzi d’acqua per renderla adatta al rifornimento di benzina. La prima rudimentale pompa era completamente manuale, funzionante a stantuffo, e dotata di un rubinetto per il rifornimento. Bowser brevetto la sua invenzione soltanto due anni dopo, nel 1887, cosa che non gli impedì di sfruttarla economicamente con la nascita e il successivo florido sviluppo della ditta omonima specializzata nella produzione e commercializzazione dei primissimi modelli di pompe di sua ideazione. Ancora oggi in paesi come l’Australia e la Nuova Zelanda con il termine “bowser” si e soliti indicare le pompe di carburante. I primi distributori di benzina elettrici si diffusero a partire dagli anni Venti e dieci anni dopo divennero anche automatici. Un altro passo avanti per gli automobilisti si ebbe negli anni Settanta, quando iniziarono a diffondersi i self service e i distributori divennero elettronici.Favria, 5.09.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Le giornate estive si accorciano e ogni anno in questo periodo mi sento addosso lo sguardo del tempo che scorre.  Felice martedì.

Le sfumature dell’iride.

Prendete una quantità variabile di melanina e mescolatela con un pigmento marrone o giallo. Otterrete la tavolozza cromatica dell’iride umana, dal nero (molto raro) all’azzurro, passando per combinazioni di ambra, verde, grigio. Tutto attorno, la sclera bianca li esalta e ha una funzione di coordinamento sociale: capiamo subito in quale direzione stanno guardando i nostri simili. Il colore degli occhi è un carattere poligenico, cioè dovuto all’interazione di più geni, come l’altezza e il colore della pelle. Non si trasmette quindi come i tratti discreti studiati da Gregor Mendel, semi lisci o rugosi, gialli o verdi nelle piante di pisello, ma è più complicato. Questo significa che in una popolazione non si troveranno categorie nette e distinte di persone con un colore preciso degli occhi, ma una gamma continua di gradazioni. Inoltre, essendo le popolazioni umane mobili e promiscue, i geni si mescolano e creano una distribuzione continua di variazioni tra gruppi umani di diverse regioni. Le barriere geografiche e le isole possono accentuare alcune differenze locali, come qui si nota per esempio negli occhi azzurri e verdi degli islandesi, che discendono quasi tutti da un manipolo di scandinavi approdati poco più di un millennio fa. Per un fenomeno noto come “effetto del fondatore”, i discendenti hanno ereditato questa percentuale fortemente sbilanciata a favore degli occhi chiari. Nel Baltico gli occhi blu sono persino più frequenti che in Islanda. Nei Paesi che invece sono stati lungamente attraversati da flussi migratori i colori degli occhi si ripartiscono più equamente, come in Gran Bretagna, Francia, Germania e in Italia. Occhi e pelle giocano strani scherzi: l’uomo di Cheddar, vissuto più di 9 mila anni fa nel Somerset, in Inghilterra, aveva gli occhi azzurri e la pelle scura, come gran parte degli europei dell’epoca. Se quindi ci affidassimo a questi caratteri esteriori per classificare l’umanità in presunte e inesistenti “razze”, commetteremmo errori grossolani. La meravigliosa diversità della tavolozza umana si concentra quasi tutta nel singolo individuo, nella sua irriducibile unicità. Anche il colore degli occhi ci ricorda che siamo tutti parenti e tutti differenti.

Favria, 6.09.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Le mattine di settembre mi sembrano dorate e croccanti come una mela. Felice mercoledì.

Giròni ed la crina e Girometa, Famiola!

Giròni ed la crina e Girometa! Gironi ed la crina era una tipica maschera piemontese nel teatro dei burattini, detto Gerolamo puntuto. La denominazione è dovuta al fatto che questa maschera è raffigurata come un nano che va in giro suonando il violone o il contrabbasso, strumenti detti scherzosamente crina poiché il suono assomiglia vagamente al grugnino di una scrofa, detta in piemontese crina. Deriva dal nome Gerolamo oltre a Gironi deriva anche Girometa o Girometta soprannome canzonatorio di un ritornello in una canzone scherzosa ed era anche la maschera piemontese moglie di Giromi ed la crina. Da li nasce una diffusa canzone piemontese diffusa nel XVII: “ La bella Girometta”, in cui si descrivono le varie parti del vestito della protagonista.  Sono incerte le notizie sulla sua nascita, pare originario di un paese dell’Astigiano, Callianetto. Arrivata a Torino la celebre marionetta trovò  un’accoglienza ostile. In quel periodo il Piemonte era dominato dai francesi che non gradivano che in Borgo Doragrossa il pubblico si affollasse allegramente per assistere al dramma semi-serio dal titolo inequivocabile “Artabano tiranno universale, con Gerolamo suo fido scudiero”. La chiara allusione a Napoleone Bonaparte, futuro imperatore, e al fratello Giuseppe, offrì il destro ai funzionari della Polizia per espellere marionette e marionettisti.  Gironi e la crina con Giacometta emigrano a Milano e  il buffo burattino  di legno  che vestiva una livrea di taglio settecentesco color rosso scuro profilata di rosso chiaro, con cravatta bianca annodata, a metà fra il fazzoletto da collo di uso campestre, calzava calze rosse e scarpe con grossa fibbia, portava in capo un cappello a lucerna di chiara moda illuminista e parlava una lingua che ricordava agli spettatori milanesi una terra libera ed indipendente: il Piemonte. Si muoveva e si dimenava in palcoscenico, portava le mani sui fianchi girando la testa ora verso i suoi interlocutori ora verso il pubblico e tracannava sulla scena un quintino di buon vino che un piccolo serbatoio occultato nella cavità superiore del corpo restituiva, una volta calato il sipario. Dopo il Congresso di Vienna  e le epurazioni avvenute per chi era stato filo francese di perdono le notizie del burattino che  ricompare nel 1835 nei paesi di provincia Piemontese. In quei anni nasce il burattino Famiola, che derivato  dalla traduzione dell’espressione piemontese “l’ai fam”, ho fame, pronunciato dal burattino nascendo da un enorme uovo che campeggiava al centro della scena; gioco scenico comune allora ai personaggi nati dalla fantasia popolare. Famiola indossava pantaloni, gilet e giacca di panno rosso bordati di bianco, calze a righe bianche e rosse, scarpe nere con fibbia settecentesca, parrucca nera con codino rialzato stretto da un nastro rosso, uno zucchettino rosso sul capo e al collo una vistosa cravatta verde a farfalla, insieme di colori che non doveva passare inosservato nei paesi di provincia del Piemonte. In quegli anni in cui la storia d’Italia, e, in particolare, del Piemonte, si preparava ad eventi importanti, l’attività continuò con ugual ritmo rispettando gli stessi itinerari nella scelta delle “piazze” che, sprovviste di un teatro vero e proprio, senza possibilità quindi di ospitare attori e cantanti in carne ed ossa, cominciarono ad accogliere con particolare simpatia le compagnie marionettistiche di passaggio,  ad entusiasmarsi alle peripezie di Famiola, finto buffone sordomuto per aiutare un padrone perseguitato ingiustamente o ingenuo interlocutore di un Sultano iroso, nel tentativo di ricongiungere amanti separati da ineluttabile destino.  Con il Risorgimento venne pura rappresentata  “La battaglia di Palestro”, e il pubblico accolse trionfalmente lo spettacolo che mostrava avvenimenti di cui era giunta soltanto un’eco confusa.

Favria,  7.09.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. L’aria settembrina fresca alla sera e fresca alla mattina. Felice giovedì

Melograno.

Anche il melograno fu importato in Grecia, a Roma, in Sicilia e in Nord Africa dai Fenici, tanto che in botanica è noto con il nome di Punica granatum. Il popolo fenicio,  cancellato dai Romani in uno scontro bellico durissimo per il predominio nel Mediterraneo,  lo considerava infatti una pianta sacra, associata ad Astarte, la grande dea madre, signora della vita, della riproduzione, dell’amore, ma anche del mare e della navigazione, delle acque dolci e di quelle marine. Così, a partire dal 1000 a.C., i Fenici portarono il frutto, la melagrana, di questa pianta sulle coste occidentali del Mare Nostrum, come alimento quotidiano, dolce e nutriente. Il suo succo era ritenuto medicamentoso: l’olio dei chicchi contiene acido punicico, con proprietà astringenti utili dopo i pesanti pasti dell’epoca. La tintura era invece usata come antinfiammatorio e antiparassitario. Cultura che vai simbologia che trovi. Nell’Urbe, secondo gli antichi miti, dopo che Venere ebbe piantato un albero di melograno nel suo giardino come simbolo di fertilità e fortuna, le spose dovevano intrecciare tra i capelli fiori e foglie della pianta come buon auspicio per il matrimonio e la nascita dei figli. Per gli ebrei, non solo i chicchi della melagrana sono dello stesso numero dei precetti divini, ma nell’Antico Testamento il frutto è simbolo di intenso amore tra due persone. Nel Cantico dei Cantici è scritto infatti: “Persino nel giardino, luogo dell’amore, fioriscono i melograni. Lo sposo che cerca la sposa va a vedere se nel giardino sono sorti i germogli”. Gli Arabi, che importarono la Punica granatum in Spagna, le dedicarono persino una città del loro regno in Andalusia: Granada, il frutto è chiamato anche granata. Per secoli, la porpora continuò a essere il colore della sacra regalità. E nell’antica Grecia iI frutto del melograno era simbolo di fertilità, femminilità e maternità, spesso dipinto tra le mani di divinità femminili, come Era e Afrodite, perché sacro proprio a loro. E il melograno appare come elemento chiave nel mito di Persefone, la figlia di Zeus e Demetra che fu rapita da Ade e costretta a vivere sei mesi all’anno nel Regno degli Inferi, proprio per aver mangiato sei chicchi del frutto di Punica granatum offertole dal dio innamorato.

Favria,   8.09.2023   Giorgio Cortese

Buona giornata. La vita è il regno delle sorprese dove quasi nulla avviene come previsto. Felice venerdì.

La   Sacra Sindone arriva a Torino  il 9 settembre 1785

Acquistata dai duchi di Savoia nel 1453, la Sindone, il sudario nel quale secondo la tradizione sarebbe stato avvolto il corpo di Cristo per essere deposto nel sepolcro, venne conservata nell’antica capitale del casato, Chambery, in una cappella appositamente fatta costruire all’inizio del ’500. Tra alterne vicende, compreso un devastante incendio che rischio di distruggerla, rimase in Savoia fino al 1578. Nel frattempo il duca Emanuele Filiberto, convinto che in Italia si sarebbero aperte praterie alle fortune dei Savoia, aveva fatto trasferire la capitale da Chambery a Torino. L’occasione di trasferire anche la Sindone si presento quando l’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, fece sapere di voler sciogliere un voto espresso durante l’epidemia di peste che aveva colpito la Lombardia recandosi a piedi a visitare la sacra reliquia. Unendo il motivo devozionale,  abbreviare la penitenza del prelato lombardo in odore di santità,  a quello politico, dare prestigio alla nuova capitale, duca diede ordine di spostare la Sindone in gran segreto evitando di indispettire i savoiardi col rischio di provocare ribellioni. Arriverà a Torino il settembre, accolta dall’arcivescovo Gerolamo della Rovere e dal duca in persona. La Sindone sarà temporaneamente custodita in piazza Castello, nell’antica cappella ducale di san Lorenzo. Sopportando severe penitenze e un viaggio per lunghi tratti disturbato da una pioggia battente, Carlo Borromeo arrivò a Torino il 10 ottobre dello stesso anno, accolto alle Porte Palatine dai grandi del Ducato e da Emanuele Filiberto. La Sindone era stata trasferita nella cattedrale dove il futuro san Carlo la venero insieme alla folla alla quale per la prima volta venne mostrata quella stessa sera.

Favria, 9.09.2023   Giorgio Cortese

Buona giornata. Certe persone arrivano come leoni e poi se ne vanno via simili a pecore. Felice sabato.

Smatphone e cellulare.

Quello che scrivo può sembra banale, ma non lo è: smartphone e cellulare non sono la stessa cosa. La grande differenza che intercorre tra i due è la possibilità di collegarsi a internet. Il cellulare nasce nel 1973 e introduce una novità incredibile per quegli anni: chiamare non da un telefono fisso, ma in totale libertà di muoversi. La parola come aggettivo si riferisce alla cellula e come sostantivo, carcere o veicolo in cui i detenuti sono rinchiusi in celle o compartimenti singoli, e anche come  telefono portatile. La parola deriva dal latino cellula, diminutivo di cella, cantina, piccola stanza, simile a celare, nascondere. Il cellulare come cella ci ricorda sia le galere in cui i detenuti erano segregati uno per cella, quanto i veicoli, carrozzoni prima, furgoni poi, usati per il loro trasporto, separati in compartimenti diversi perché non potessero comunicare fra loro. Poi  si arriva all’attuale significato per i telefoni mobili e scaturisce dall’organizzazione a celle della nuova rete telefonica di ripetitori, dove ciascuno copre un’area formando un tessuto di celle che assicura un segnale costante.  La parola smartphone,  deriva dall’inglese smart, intelligente, astuto e da phone, telefono, telefono intelligente, un telefono cellulare multimediale, che include alcune funzioni tipiche di un computer palmare,  progettato nel 1992 e poi con l’aggiunta  dello schermo touch, ormai presente su tutti gli smartphone.

Favria, 10.09.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno dobbiamo esseri grati per quelli che abbiamo. Ogni giorno abbiamo qualcosa per cui ringraziare. Felice domenica

Il vin santo.

Vi racconto la storia sull’origine del nome di questo vino  con uve di Trebbiano e Malvasia lasciate appassire dopo la raccolta, è largamente diffuso e apprezzato a fine pasto. Qui entra in gioco la tradizionale rivalità tra le due città rivali nella produzione del vin santo,  Siena e Firenze su chi l’ha usato per la prima volta Siena si sostiene che il nome risalga addirittura alla peste nera del 1348,  quella raccontata dal Boccaccio nel Decamerone,  che uccise la metà degli abitanti, e si spiegherebbe col fatto che un frate francescano curava gli appestati con un vino comunemente usato dai confratelli per celebrare la messa. Di qui la convinzione che avesse proprietà miracolose e quindi il nome di vin santo. I fiorentini non sono d’accordo, rivendicando alla loro storia la controversa origine del titolo. E raccontano che il merito andrebbe al cardinale Bessarione, vescovo greco venuto in Italia per prendere parte al concilio ecumenico tenutosi a Firenze nel 1439. Questo personaggio sarà decisivo nel diffondere in Italia la conoscenza della cultura greca e della filosofia platonica dopo la conquista di Costantinopoli ad opera dei turchi nel 1453, e dunque ebbe un grande rilievo nello sviluppo dell’Umanesimo letterario e del Rinascimento. Ebbene, è a lui, dicono i fiorentini, o meglio all’interpretazione sbagliata) di un suo commento, che si deve il nome del vin santo. Mentre gustava un sorso del saporito “vin pretto”, come lo chiamavano a quel tempo, esclamò: “Ma questo è un vino di Xantos”, riferendosi all’isola greca dove si produceva un celebre passito. I commensali, che conoscevano poco il greco e ancora meno quel passito, equivocarono pensando che avesse detto santo, e questo diventò da allora il nome del vin pretto. Insieme alla convinzione popolare che il nome del vin santo derivi semplicemente dall’uso abbondante che i preti ne farebbero durante la messa, ce n’è un’altra, più prosaica ma forse più veritiera, secondo la quale in origine le uve venivano fatte appassire fino alla settimana santa, prima di essere pigiate e passate nel torchio. Insomma i pareri sul nome sono tanti e discordi. Ma sull’interesse della sua storia, così come sulla sua qualità, nessuno ha da ridire.

Favria,  11.09.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita il confine tra l’agire da saggi o comportarci da stupidi è più sottile di una tela di ragno. Felice lunedì