Proposta: mettete dei fiori nei vostri cannoni! – Il mondo sta cambiando…. – Le parole pesanti e pensanti! – I mancini! – Mi sai nen – La campana. – Patata, potato, batata. – Il profumo del pulito…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Proposta: METTETE I FIORI NEI VOSTRI CANNONI Mettete dei fiori nei vostri cannoni … “, così recitava il motivo di un

celebre brano musicale che nel 1967 riprendeva lo slogan di una intera generazione di pacifisti. Questo slogan  di un’intera generazione di pacifisti,  venne reso famoso in Italia dalla canzone “Proposta” dei Giganti del 1967 con la quale arrivarono terzi nel Sanremo di quell’anno: “…Mettete dei fiori nei vostri cannoni perché non vogliamo mai nel cielo molecole malate, ma note musicali che formano gli accordi per una ballata di pace, di pace, di pace…”.  Allora ero un bambino e non mi rendevo conto, ma quegli anni erano ben più vicini alla guerra  come oggi. Allora in Europa era ancora viva sulla pelle, la memoria della Seconda Guerra Mondiale  che aveva lacerato gli animi delle persone  e gettava ancora un pesante cono d’ombra. Gli anni sessanta del secolo scorso fu una stagione di grande sviluppo e, ad un tempo, di grandi tensioni sul piano internazionale. Erano gli anni in cui convivevano, quasi si nutrissero a vicenda, rischi e speranze; di poco successivi a quelli della crisi dei missili a Cuba e dei “due Giovanni”: Giovanni XXIII e John F. Kennedy. Purtroppo come esseri umani non abbiamo capito niente e la storia si ripete, ancora una volta,  oggi “imperialista”, sia ad Occidente e ad Oriente, con le “sfere di influenza”, la rincorsa alle fonti energetiche, la competizione esasperata nel campo delle tecnologie più sofisticate per portare morte e non vita, la ricerca spasmodica di un prestigio, di un primato, di una ragione per prevalere sul “nemico”, la ricomparsa dei “nazionalismi”, una spaventosa condizione di disparità sociale che opprime vastissime aree di sottosviluppo. Abbiamo subito la “globalizzazione” senza governarla, i grandi della Terra   si sono arroccati   sugli spalti di una sfida d’altri tempi.  Dopo la pandemia, dove per paura abbiamo delegato delle nostre libertà, anzi ancora dentro questo asfissiante tunnel, ecco la terribile guerra. Oggi le democrazie e le autocrazie, l’Occidente e l’Oriente che, anziché riconoscersi reciprocamente e fecondarsi l’un l’altro, con il dialogo e la collaborazione, rischiano di avviarsi ad uno scontro fatale senza capire a quali conseguenze posso giungere. Oggi questa incapacità di dialogo ha sfilato i fiori dai cannoni per rimetterci proiettili e granate, morte e distruzione.

Favria, 6.07.2022 Giorgio Cortese 

Buona giornata. La creatività e la genialità appartengono agli umili di vita. Felice mercoledì.

Il mondo sta cambiando….

Il mondo sta cambiando, il popolo si sta disaffezionando alla democrazia, partecipando sempre meno alle elezioni. Questo, allora è momento di cambiare la nostra “visione del mondo”.

È finita un’epoca, ci troviamo come quei cittadini romani al tramonto dell’impero, oggi come allora sono cambiate le prospettive per chi nasce. Forse il paragone è troppo per alcuni, ma ricordatevi che viviamo in un periodo di cambiamento epocale e chi se ne è reso conto, si adatterà a fatica.

Chi non se ne è accorto, navigherà nuovi mari con vecchie barche, con rischio costante di naufragio. Oggi le istituzioni dell’Italia repubblicana, nate dopo la seconda guerra mondiale e la guerra di liberazione stanno diventando irrilevanti.

La democrazia rappresentativa che è costata sangue di tante italiani viene vista sempre di più vuota. Questo perché decenni di governi inadeguati coniugate a politiche mediocri ha delegittimato lo Stato e le sue Istituzioni.

Viviamo in un periodo dove l’economia comanda più della politica.

Molti non votano più perché sono disillusi da una mancanza di visione politica e dal sempre più largo uso del clientelismo.

Questo allontana sempre di più concittadini si allontanano dalla Res Pubblica, convinti che il loro voto non serve a nulla e allora perché debbono votare e la frattura tra partiti ed elettori cresce ed aumenta in maniera impressionante il partito del non voto.

Oggi tra i concittadini soffia il vento dell’ansia e della rabbia, il ceto medio è sempre più povero, il posto fisso diviene sempre di più un mito è il lavoro sempre più precario e mal pagato.

Le periferie si ribellano al centro, l’aggressività prevale sulla collaborazione, il particolarismo sull’integrazione.

Oggi viene sbandierata l’onestà che vale di più della competenza, l’ignoranza è titolo di merito. La propensione ad apparire, con i social, alimenta l’autoreferenzialità.

I flussi migratori portano ad una crisi di identità e a guerra tra poveri.

Oggi, il malcontento abbinato alla tecnologia e viviamo in una continua votazione digitale, con i m i piace e i seguaci, non mi piace follower del personaggio pubblico che sul momento è sulla cresta dell’onda.

Certo votiamo ogni giorno, la l’ignoranza diffusa, perché certe nozioni si imparano sui libri e non sui social portano all’incapacità di giudicare e di seguire le numerose bufale che si trovano sui social.

Quando poi arriviamo a vota diveniamo incapaci di capire chi eleggiamo è capace ad amministrare e la loro competenze.

Così rischiamo una deriva autoritaria, perché milioni di cittadini, indeboliti e isolati, hanno paura del futuro e reclamano sicurezza, economica, sociale e culturale.

Per fermare questo rischio reale ed evitare come in passato che le paure dei votanti porti all’Atene dei Trenta Tiranni o l’ascesa di Mussolini o Hitler la nostra democrazia conquistata con il sangue va protetta con leader competenti e noi elettori cittadini consapevoli.

Ricordiamoci che in un stato mal governato non può esservi giustizia.

È necessario ristabilire il primato della politica sull’economia con persone abili e capaci di decisioni coraggiose in situazioni difficili.

Gli eletti rappresentano lo Stato e non i suoi elettori e l’elezione è designazione di capacità.

Ricordarci sempre tutti che il voto è un diritto, ma comporta il dovere di essere un minimo preparato nell’esercitarlo, ad esempio nel riconoscere pregi e difetti dei candidati che si presentano alle elezioni, delle politiche che propongono, e scegliere il miglior candidato o la migliore politica.

Non ho ricette, sono solo un semplice elettore, ho solo la speranza che persone competenti infiammino gli animi per dei sogni di futuri politici che siano condivisi da tanti cittadini elettori.

Favria, 7.07.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Luglio e quel cielo luminoso e vasto, di un azzurro che non sti stanchi mai. Felice giovedì

Le parole pesanti e pensanti!

Vi siete mai domandati quante parole pronunciamo ogni giorno. Fare un calcolo non è facile. Secondo esperti di parte, pare che le donne siano più prolisse di noi maschietti e ne usano in media ventimila parole al giorno contro le settemila di noi uomini. Mah, parlo per me, penso di farne anche di più, come tutti, dato che oggi con i cellullari e messaggi vocali di parole ne facciamo tante confrontandoci con i nostri simili anche se oggi la memoria numerica l’abbiamo già persa perché affidata ai telefonini. Ora stiamo perdendo anche quella semantica, usiamo un numero sempre minore di parole. Chissà quante parole ci potrebbero essere da quelle che ho pronunciato dalla mia nascita fino ad oggi se le riunisco in un libro e poi chi mai leggerebbe un libro simile! Nella nostra vita le parole hanno il potere di distruggere e di creare, quando le parole sono sincere e gentili possono cambiare il mondo e l’atteggiamento delle persone che incontriamo, Le parole cantano, feriscono, insegnano. La ferita provocata da una parola non guarisce ma altre parole la leniscono. La parola è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello, le parole si parlano, i silenzi si toccano. Vi siete mai domandati quanto pesano le parole? Ogni giorno le parole che pronunciamo possono essere o pesanti come macigni o leggere come le piume. Le parole sono proprio una bella invenzione che poi hanno permesso la nascita della scrittura. Certe parole sono caldi abbracci di speranza e gioia, mi accarezzano l’intimo del mio animo e mi sostengono nel mio quotidiano cammino, altre parole pronunciate con astio, sono pesanti e grevi nel mio animo. Purtroppo certe persone dimenticano che c’è sempre tempo per lanciare una parola, ma non sempre per riprenderla. Certe parole sono false come una monetà da tre euro altre sono codarde perché pronunciate alle spalle e allora come le piume della codardia svolazzano via e di loro non presto la minima attenzione. Certe persone usano sui social commenti indignati su commenti idioti su commenti tristi, sono parole vuote e pesanti che vanno subito a fondo nell’oblio del tempo. Ogni tanto incontro persone che usano parole rotonde e luminose come “Buongiorno, Brunasera”, e mi sembra di sentire la fragranza della fresca brezza del vento del mattino e nessuna menzogna. Nella vita quotidiana le parole, prima di avere un significato, hanno un peso, un odore, un sapore, un suono e persino una risata tutta loro. Le nostre emozioni stanno nelle nostre parole come uccelli impagliati. Dentro la lingua dei neonati le sillabe sono ancora canto e suoni inarticolati, poi crescendo viene anche per loro il tempo di prendere la farina delle parole e fare il loro primo pane. Certi giorni penso che le mie parole sono simili a dei giganti quando mi fanno un torto, e come nani quando mi rendono un servigio e non rifletto che la parola è per metà di colui che parla, per metà di colui che l’ascolta, e si le parole fanno un effetto in bocca e un altro negli orecchi. Non esiste una magia come quella delle parole, trasmettono idee ed infondo passione, sono una potente vitamina nell’animo. Certe parole sembrano possedere un potere magico formidabile, e nella storia umana migliaia di uomini si sono fatti uccidere per parole di non hanno mai compreso il significato, e spesso anche per parole che non hanno nessun significato.  A volte scrivo una parola, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere come una lucente stella nella pagina bianca. Certe parole non sono azioni, ma qualche volta una buona parola vale quanto una buona azione ed allora divengono simili a squadre di soccorso quando ti vengono pronunciate ed hai l’animo greve di preoccupazioni. Per una parola un uomo viene spesso giudicato saggio, e per una parola viene spesso giudicato folle.  Dunque dobbiamo stare molto attenti a quello che diciamo. Bisogna assomigliare alle parole che si dicono. Forse non parola per parola, ma insomma ci siamo capiti. Scusate se ho tentato di raccontare qualcosa, ma adesso ammutolisco perché mi sono accorto di non avere detto ancora niente. Nel mio animo le parole non riescono a zampillare fuori e rimangono dentro di me facendosi beffa delle parole non dette. Che forza le parole sgorgano dall’animo passano dalle bocche, s’infilano negli occhi e li posso restar ferme una vita intera. 

Favria,   8.07.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno la vita è simile ad un arazzo che ricamo giorno dopo giorno con fili di molti coloro. Alcuni  sono grossi e scuri, altri sottili e luminosi, ma sono tutti importanti. Felice venerdì


I mancini!

Una volta, quando andavo a scuola i mancini venivano corretti, la credenza che la sinistra fosse la mano del demonio. Nel Vecchio Testamento Isaia dice: “È la mia mano destra che ha fondato la terra, è la mia mano destra che ha misurato i cieli”; nel Nuovo Testamento, invece, si posiziona il buon ladrone alla destra di Gesù e il cattivo ladrone alla sua sinistra. E poi, “una volta asceso al Cielo, Gesù è seduto alla destra del Padre”. Ma non è solo la religione cristiana a “preferire” il lato destro: nel Corano è scritto che Maometto, per fare le abluzioni, adoperava la mano destra ritenendo la sinistra impura. Insomma la vita dei mancini era inferno. La vita per loro è ancora un inferno, perché il mondo , è a misura di destri e molte sono le situazioni scomode a cui i mancini devono adattatarsi, essendo una minoranza. Dalla scrittura che va da sinistra verso destra al mouse, che è tradizionalmente posizionato alla destra della tastiera; dalle chitarre, accordate sempre per chi suona con la mano destra alle forbici che hanno sempre una impugnatura pensata per la mano destra e lo stesso vale per gli apriscatole, progettati per essere ruotati con la mano, o per le macchine fotografiche analogiche, in cui la leva si può muovere solo con la mano destra. Per significare le piccole difficoltà quotidiane dei mancini è emblematico una puntata dei Simpson, Ned Flanders, il vicino di Homer, decide di aprire un negozio per mancini chiamato “Sinistrorium” all’interno del centro commerciale di Springfield, per dare una migliore qualità di vita ai numerosi mancini della città. Il negozio di Ned Flanders fallisce, ma nella vita reale esistono molti prodotti pensati per i mancini. Per i bambini, per esempio, ci sono i kit per la scrittura che comprendono una penna ergometrica, una gomma con scanalature per sinistra, un righello con numerazione da destra a sinistra e un paio di forbici per mancini. Anche i produttori di utensili per la cucina hanno realizzato una serie di prodotti ad hoc per chi usa la mano sinistra. I mancini nel mondo sono una minoranza ma è mancino l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama, era mancino Albert Einstein, ed era mancino anche Steve Jobs. E l’elenco è ancora lunghissimo: Bill Gates, Leonardo da Vinci, Jimi Hendrix, Mark Zuckerberg, Alessandro Magno, Diego Armando Maradona, Giulo Cesare, Valentino Rossi.

Favria,  Giorgio 9.07.2022  Cortese

Buona giornata. Benvenuta estate che si affaccia dal cielo attraverso gli scintillanti raggi del sole di luglio. Felice  sabato. 

Mi sai nen

Si pronuncia così come si scrive, letteralmente si traduce in “Io non so” ed è un modo di dire molto comune, a volte un intercalare nel discorso, che assume veramente numerosi significati differenti tra i quali il vero e proprio “non sapere” è l’ultimo come frequenza e per importanza. 

“Mi sai nen” può esprimere stupore o decisamente contrarietà a qualcosa. 

Può essere una forma di timidezza, di chiusura o di difesa. 

Può anche rappresentare la reazione rispetto a qualcosa di bizzarro che ci sorprende e ci fa sorridere.

Oppure può essere una frase di chiusura rispetto ad un interlocutore per un discorso che non ci aggrada.

Insomma, spesso vuol dire tutto tranne proprio “io non so”, anzi a volte sottolinea proprio il contrario, ”io la so molto più lunga……”

E’ soltanto dalla circostanza e dal tono che possiamo davvero capire cosa vuol dire: “Mi sai nen”. 

Favria, 10.07.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. La vita è ciò che facciamo di essa. Felice  domenica

La campana.

Il nome campana da cui poi deriva campanile indica inequivocabilmente la terra d’origine, la Campania. Tutto ebbe inizio nel IV secolo, dopo l’editto di Costantino,   Cristiani poterono uscire dalla clandestinità e cominciarono ad impiegare trombe,  cartelli e campanelle per richiamare i fedeli. La campana rappresentò un’innovazione rispetto ai primi rudimentali strumenti e fu chiamata proprio così perché il bronzo della Campania era ritenuto il migliore. La prima campana fece udire i suoi rintocchi nel 410 su iniziativa di San Paolino, vescovo di Nola. Con il tempo, è diventata non soltanto un simbolo religioso, ma anche sociale; dalla  Martinella, che rappresentava la libertà dei Comuni all’epoca di Federico Barbarossa fino alla consacrazione da parte dei poeti, “l’ora di Barga” di Giovanni Pascoli,  alle recenti campane fabbricate per gli eventi sportivi. La campana e il campanile da strumenti sacri si sono integrati nella società fino a divenire un simbolo della stessa comunità civile.

Favria, 11.07.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana le cosi migliori e più belle non possiamo ne vederle ne toccarle, ma dobbiamo sempre sentirle von il cuore pieno di stupore. Felice  lunedì

Patata, potato, batata.

Oggi mangiamo nelle nostre tavole il tubero cotto della patata  a polpa bianca o gialla, pianta erbacea della famiglia delle Solanaceae. La parola patata deriva direttamente dallo spagnolo ed è l’incrocio linguistico del quechua. Perù, papa e dell’haitiano batata, che indicava la patata dolce. La patata insieme al mais, sono forse l’alimento americano che più ampia diffusione ha avuto nel mondo. In italiano, così come in altre lingue europee, con il termine patata ci riferiamo a una categoria generale di tuberi di origine americana tra i quali spicca il più comune in Europa.  Viene chiamato potato in inglese, potatis in svedese, kartoffel in tedesco e pomme de terre in Francese, questi ultimi come loro abitudine si vogliono sempre differenziare per vezzo. La parola batata, lemma con il quale i Taino, popolo estinto delle Antille, denominava proprio la patata dolce. Il termine entrò presto nello spagnolo delle colonie per riferirsi a tuberi diversi, come testimonia un brano della cosiddetta prima lettera di Hernán Cortés, scritta nel 1519 dal Messico da poco scoperto. Successivamente gli Spagnoli con Francisco Pizzaro conquistano l’impero Inca nell’odierno Perù negli anni ’30 del Cinquecento lo usarono per denominare la patata vera e propria li coltivata. Dall’America meridionale la patata arriva in Europa, inizialmente in Spagna, precisamente a Siviglia, tra il 156064, per poi passare nel Portogallo e quindi a Madrid alla fine del secolo. In Italia, importata dagli spagnoli, la patata arriva nel 1564-65 ed è presente negli orti botanici di Padova e Verona. A Roma la patata fu introdotta dai Carmelitani Scalzi, che dalla Spagna ne portarono un bel po’ in dono a papa Pio V, 1566-1572 il quale, grande appassionato di botanica, ne riempì i giardini vaticani, guardandosi bene però dal mangiarla. Nel Seicento le patate sono ancora una curiosità botanica e il granduca Ferdinando II de Medici, li fa piantare a Firenze. Sempre nel Seicento la patata è presente a Bologna, nei campi dell’università, dove viene coltivata grazie alle condizioni climatiche favorevoli. A fine settecento tutte le accademie agrarie del Veneto ne raccomandano la coltivazione, che avviene soltanto in via sperimentale. Più in generale, in Italia la coltivazione della patata in misura significativa iniziò a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, utilizzata per prevenire le carestie e pur essendo introdotta nel vitto delle guarnigioni austriache, la patata fino al 1830-40 è usata prevalentemente come alimento per gli animalinonostante gli sforzi degli studiosi, tra i quali sembra ci fu anche Alessandro Volta. Ancora a metà ‘800 questo tubero trovava una forte resistenza come testimonierebbe la sua marginale presenza nei ricettari dell’epoca. In Francia nel 1771 l’accademia di Besancon aveva posto un concorso dal titolo: “Quali sono i vegetali che possono essere sostitutivi in caso di carestia rispetto a quelli di impiego comune e la loro preparazione”. Antonie Augustine Parmentier, agronomo, un personaggio che oggi sui social chiameremmo influencers. Egli curò la redazione di una memoria rimasta celebre sulla base dell’uso fatto mentre era farmacista al seguito delle truppe in tempo di guerra. La memoria fu premiata nonostante una legge del parlamento del 1748, che accusava il tubero di trasmettere infezioni. Parmentier convinse il sovrano a coltivare la patata in un terreno a Campo di Marte e per destare l’interesse delle persone lo fece sorvegliare da guardie e diffuse la voce che la coltivazione di tale prelibatezza era destinata esclusivamente al Re. In poco tempo, curiosi, golosi e perditempo volevano mangiare la patata considerata un vero e proprio status symbol, da questo agronomo nasce il piatto zuppa Parmentier, una vellutata a base di patate porri e panna, che è buonissima, perfetta per le fredde sere invernali e grazie alle innumerevoli varianti può andare incontro a tutti i gusti e adattarsi a diversi menù. L’effetto dell’introduzione della patata nella dieta degli europei fu enorme. Pensate chela popolazione della sola Irlanda passò da 500 mila persone nel 1660 a oltre 9 milioni nel 1840! Quasi tutte le colture furono sostituite da piantagioni di patate, ma nel 1845 prima e nel 1846 poi ci furono due anni consecutivi di totale fallimento del raccolto di patate, fece la sua comparsa la peronospora, un fungo della patata. Quasi ogni campo era coltivato a patate, e il risultato dei due anni di grande declino produttivo fu disastroso con oltre 1 milione di irlandesi morirono di fame, oltre 1 milione furono costretti ad emigrare. Questa terribile carestia sarebbe stata poi ricordata col nome “potato famine”, carestia delle patate. È curioso notare che gli europei non appresero mai a conservare le patate, con catastrofiche conseguenze quando i raccolti andavano perduti, come accadde in Irlanda nel 1845-46 quando un fungo della patata causò milioni di morti. Gli andini a cui le patate erano state in origine “sottratte” ne sarebbero rimasti sorpresi: loro avevano infatti sviluppato dei sistemi di disidratazione delle patate che ne permettevano la conservazione anche per diversi decenni! Gli Incas scopritori del tubero, ritenevano la patata talmente importante, che le tributavano riti religiosi e su di esse si basavano per calcolare il tempo, unità di misura per calcolare quanto ci vuole per cuocerle, e le superfici agrarie, ancor oggi l’unità di misura fondiaria utilizzata in Perù è il topo, pari al terreno necessario a coprire il fabbisogno di patate per una famiglia. Oggi, grazie alla sua versatilità, la patata è il prodotto vegetale al quale sono dedicate più forme di preparazione e con la sua storia ci può insegnare molto su come può essere introdotto un nuovo alimento nella dieta delle persone.  Concludo con un curiosità,  Matt Damon, protagonista del film “The Martian” del 2015,  aveva visto giusto piantando patate nel suolo marziano per sopravvivere sul Pianeta Rosso, oggi una serie di test ha confermato che questi tuberi potranno un giorno crescere nelle condizioni atmosferiche marziane, e in definitiva per dimostrare che le patate possono crescere sul nostro pianeta anche in condizioni climatiche estreme, magari con loro verranno colonizzati in un lontano futuro pianeti abitabili da novelli mangiapatate!

Favria, 12.07.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno accolgo la fragilità dei giorni che li impoasto con il pane. Osservo segnali lontani tra le case, oltre la folla, un vento sereno di sementi viene dal futuro. Felice martedì

AAA.

Il profumo del pulito.

Quando il nostro bidone della biancheria sporca è straripante, oggi come oggi, abbiamo due alternative o metterla in lavatrice per il lavaggio oppure per certi tipi di capi particolari o per comodità  non c’è nulla di più facile che raccoglierla tutta, salire in auto, e avviarsi al negozio di lavasecco più comodo e vicino: dopo pochi giorni, non più di due o tre, potremo ritornare a ritirarla e ce la vedremo riconsegnare perfettamente lavata e stirata Ma lavare il bucato, nel corso della storia, non è sempre stato rapido e semplice,  e comodo, come lo è per noi oggigiorno. Anche se un vecchio proverbio recita che: “ I panni sporchi vanno lavati in casa…”, eppure a dispetto di questo antico adagio, ricco di sottintesi, non è stato sempre così. Perché, mentre oggi, per fare il bucato abbiamo a disposizione delle lavatrici,  e le lavanderie che fanno innegabilmente tutto il lavoro al posto nostro, che sono un concentrato di tecnologia una volta non  era così. Allora per togliere lo sporco dal tessuto infatti occorreva un’azione meccanica intensa, così da estirpare ogni particella che lo macchi o che gli conferisca un odore sgradevole, e la corrente della Roggia ne offriva una gratuita e intensa. Per contribuire alla pulizia, I panni venivano ritorti più volte, sfregati fra loro, o perfino battuti con violenza contro le rocce o apposite tavole di legno, di tanto in tanto a mano e talvolta con l’ausilio di appositi randelli o mazze di legno. A Favria come in tante Comunità del Canavese esistevano dei lavatoi pubblici  che utilizzavano l’acqua della Roggia di Favria, e qui le lavandaie  erano costrette a lavare i panni lungo la roggia, in ginocchio su lastre di pietra, esposte  alle intemperie, sotto il sole e spesso al freddo.  Gli strumenti del mestiere erano tanti: il sapone solido a pezzi, la cenere di legna, la tavola da lavare, il colatoio, la conca e tanti altri. Il sapone veniva usato insieme all’acqua per lavare e pulire i panni, ma, una volta asciugati, questi dovevano essere sbiancati. Per farlo era necessaria la cenere e tutto un processo che, grazie alle foglie di alloro, rendeva i panni anche profumati.  Nelle case, si  lavava, periodicamente,  utilizzando grosse tinozze metalliche riscaldate sul fuoco, dove il calore dell’acqua si dimostrava utile nel rimuovere lo sporco quanto e più della corrente naturale. Conseguentemente, strizzati per asciugarli, I panni venivano stesi ad asciugare del tutto, esattamente come oggi, su fili o pali, o addirittura a terra. Non esistevano molte sostanze detersive, ovviamente: spiccava la lisciva, ottenuta per soluzione di cenere di legno in acqua calda. A Roma antica, inoltre, per smacchiare si usava già l’ammoniaca, nella forma in cui è più facile trovarla in natura: l’urina. Fu, come in molti altri campi, la rivoluzione industriale a mutare del tutto tutto questo. Dapprima fu inventata una semplicissima macchina a rulli, attraverso i quali veniva fatto passare il tessuto bagnato: questi, per compressione, espellevano l’acqua in eccesso, strizzando molto più in fretta che per torsione. All’inizio mossi a mano, questi vennero in seguito elettrificati nel 1900. E intanto, nel diciannovesimo secolo, gli inventori si sbizzarrirono ad inventare svariti macchinari per lavare i panni, tutti sostanzialmente basati su un meccanismo rotante che agitava, dapprima mosso a mano, e all’inizio del ventesimo secolo dall’elettricità, i capi nell’acqua contenuta in una vasca. Successivamente venne introdotto un cilindro perforato, dal quale l’acqua in eccesso usciva per rotazione: la prima centrifuga, a cui si accompagnò un meccanismo identico ma che soffiava aria calda sui capi, l’antenata delle moderne asciugatrici. Oggi pensiamo sempre a quel profumo di pulito  del bucato steso al sole che  ci riporta alla nostra giovinezza. Un profumo talmente forte, buono e fresco da essere ricercato non solo da famose aziende di detersivi ma addirittura da quelle che producono profumi per ottenere fragranze floreali e fruttate che sanno di pulito. La lavanderia “Come Una Volta Di Lamantea Cinzia Favria” si prende cura dei vostri capi con professionalità e competenza. Specializzata nel lavaggio di abiti da sposa e abiti da cerimonia, piumini e del vestito di Babbo Natale.

Favria, 13.07.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita di ogni giorno la felicità si può trovare anche negli attimi più tenebrosi, se solo uno si ricorda di accendere la luce. Felice mercoledì.