Res Gestae Favriesi. dall’emina alla mina. – Paese che vai… barba e baffi che trovi! – Il nodi del papillon o farfallino. – Settembre. – Il laghetto valentino. – Alborada pennuta. -Il dolce profumo e sapore del caffè. -Res gestae favriesi, l’umile lythrum virgatum, salcerella vergata. – Zenzero quel pizzico di dolce e piccante!. – A che cosa serve la storia? -Il quotidiano edificio. – Cercando la felicità! – Benvenuta okra, dita delle donne. …Le pagine di Giorgio Cortese

Nella vita ciò che conta non è il viaggio ma la meta

Res Gestae Favriesi. dall’emina alla mina
Tempo addietro ho visto in una casa di campagna a Favria una strano oggetto e non riuscivo ad immaginare che uso potesse avere avuto in passato questo cilindro di legno e ferro. Successivamente mi è stato spiegato che si trattava di una “mina” sono rimasto sorpreso. Confesso la mia ignoranza, ho pensato sentita la parola “mina” che fosse una specie di contenitore per esplosivo ma si trattava di tutt’altro: semplicemente un’antica unità di misura. Dal latino hemina, unità di misura antico usato per gli aridi, granaglie, cereali, di forma cilindrica, costruita in assi di legno e rinforzata da fasce verticali di ferro che si ripiegano sotto il fondo; dovevano avere l’altezza pari a 2/3 del diametro e all’imboccatura, cerchiata di ferro, una traversa, pianca, fissata al fondo con un’astina di ferro, bolzone. La bacchetta, assicurata al recipiente con una catenella, serviva a rasare la superficie al livello della pianca durante la misurazione. Questa è solo una delle antiche unità di misura, in uso già da molto tempo prima dell’Unità d’Italia, il Piemonte aveva delle proprie unità di misura, sia per le estensioni che per le quantità. Erano talmente radicate nella mentalità popolare che continuarono ad essere utilizzate anche dopo che furono nominalmente sostituite, verso la fine del XIX secolo, dalle attuali. Scomparse da qualche decennio le antiche misure per le capacità, sopravvivono ancora nel linguaggio corrente, specie per gli anziani, le unità di estensione. Per le estensioni, le misure erano la giurnà, la giornata antica unità di misura di superficie utilizzata in Piemonte che in ambito agricolo viene usata tutt’oggi. L’origine del nome deriva dalla corrispondenza con la quantità di terreno arabile mediamente con una coppia di buoi in una giornata. La giornata corrisponde a mq. 3.810,40 e si suddivideva in 100 tavole. Una tavola formata da 12 piedi quadri. A sua volta la tavola si suddivideva in 4 trabucchi un trabucco in 36 piedi che corrisponde a mt 0,514403. Per gli elementi solidi, invece, esistevano i recipienti appositi in ferro, che erano adoperati per vettovaglie come cereali, legumi, Sulla falsariga delle misure per le estensioni, tali unità, la mina appunto corrispondente a litri 23,05, poi la Brenta che corrisponde e a litri 49,3069 e dopo la pinta formata da due boccali di quartini. La brenta, specie di bigoncia di legno, in uso in Piemonte, che si porta spalleggiata per mezzo di cinghie o con l’uso di lunghi e robusti bastoni e serve per il trasporto del vino o del mosto. Il lemma brenta dall’antico tedesco brente, con il significato di vaso di legno per latte, secondo altri deriva sempre dall’antico tedesco bret, asse o tavola, da dove arriva bretern, fatto di assi. I volumi d’acqua che scorrevano per le bealere erano misurati in oncie piemontesi, 1 oncia equivale a 24 litri al secondo circa. Le misure lineari erano il trabucco, formato da 6 piedi; il piede di ben 51 centimetri e diviso in 12 oncie. Il pensare alle antiche unità di misura e alle moderne del sistema metrico decimale mi viene da pensare che da millenni noi miseri bipedi presumiamo, misurando lo spazio e il tempo, di vincerli, mentre sono essi che misurano nei perché la vita non si misura dal numero di respiri che faccio, ma dai momenti che il respiro mi viene tolto!
Favria, 29.08.2015 Giorgio Cortese

Nella vita quotidiana posso scappare dalle persone, dai luoghi o situazioni. Posso certamente scappare dappertutto, ma ovunque andrò non potrò mai fuggire dai miei pensieri.

Paese che vai… barba e baffi che trovi!
Milioni di anni fa i capelli erano un modo per distinguerci dalle scimmie, loro col corpo ricoperto di peli, noi glabri, con un unico cespugli di peli in faccia e testa. Così ci riconoscevamo e ci facevamo identificare dagli altri animali. Oggi la capigliatura non è più un segnale di specie, ma un modo per comunicare la nostra identità e personalità. Sono una specie di “maschera” con cui seduciamo i partner, ci isoliamo dagli altri, ci mostriamo aggressivi, riveliamo le nostre idee, dichiariamo di appartenere a un gruppo, e poi con ogni taglio abbiamo l’occasione, anche noi maschietti di “cambiare identità”, infatti i capelli e la barba, sono lo strumento della cosiddetta comunicazione non verbale più usato. Barba e baffi sono strumenti per mostrarci agli altri e comunicare il nostro carattere. Possono essere barbe aggressive, come quelli dei militari, molto curate, appuntite e geometriche; stravaganti come quelle degli artisti; incolte e disordinate per mostrare la nostra indole da ribelli, normali per trasmettere saggezza, o coraggio come in passato, oppure per apparire più maturi. Il tutto senza temere di non poter cambiare. La barba è il terreno della sperimentazione di espressioni e stile: un colpo di rasoio e si può ricominciare, e a anche così per i capelli. Ogni cultura e tempo ha il suo linguaggio “peloso”. Ogni uomo in media ha circa 20-25 mila peli della barba, distribuiti su 250 cm quadrati. Crescono mezzo millimetro al giorno, ma la velocità dipende anche dalle stagioni, dal metabolismo e dal livello di ormoni prodotti dall’organismo. I peli si sviluppano quando il corpo acquista la capacità di procreare e sono il segnale visivo per indicare la piena maturità sessuale. La loro concentrazione in alcune zone del corpo, sembra legata al ruolo dei feromoni nell’accoppiamento. I maschi di molte specie animali riconoscono infatti il periodo fertile delle femmine tramite segnali olfattivi. Anche noi siamo stimolati dai feromoni, e i nostri lontani antenati in misura ancora maggiore. I peli, trattenendo e mantenendo più a lungo gli odori, hanno dunque la funzione di rendere più facile la ricerca del partner. I peli dopo 10-15 anni però sono destinati a cadere e a essere sostituiti da altri peli. Pensate che una persona che abitualmente si rade, nel corso della vita accumula circa 3,5 kg di peli della barba. Nell ‘antichità capelli fluenti e rigogliosi erano una dimostrazione di forza, virilità e coraggio. I monaci buddisti si radono completamente per dichiarare il loro voto di castità, mentre nelle società occidentali moderne la completa calvizie non è più sinonimo di vecchio, ma di virilità, fascino e potenza sessuale. E poi ci sono le persone che non vogliono cadere in questi problemi di comunicazione interculturale dichiarando sempre le personali idee in modo più diretto, scrivendo i messaggi sui capelli, come certo tifosi e giocatori di calcio. Pensate che in testa, secondo gli esperti, abbiamo un esercito di circa 120 mila capelli che avanza a una media di 1,5 cm al mese, circa 0,4 mm al giorno. Di notte, secondo alcuni studiosi, più lentamente. Il picco, invisibile a occhio nudo, sarebbe tra le 10 e le 11 del mattino e poi tra le 4 e le 6 del pomeriggio. A legarli tutti si arriverebbe a tessere un filo lungo 16 km, ma dal diametro minuscolo, tra i 2 e 9 centesimi di mm. Per fermarli e domarli ci pensano forbici e phon. Secondo delle recenti indagini, i capelli sono in vetta alle preoccupazioni estetiche di noi italici maschietti, subito dopo il peso. A conferma di ciò, basta ricordare il calvario di un recente Presidente del Consiglio, alle prese con trapianti e cure per arrestare la “deforestazione” incipiente. I rimedi contro la calvizie come il taglio radicale per rafforzare i capelli, impacchi di tuorlo d’uovo, lozioni anticaduta, frizioni, sono sempre privi di fondamenti scientifici. E allora secondo un’altra ricerca, le famiglie italiane spendono ogni anno oltre 7 miliardi di euro per la cura del loro aspetto, dai barbieri ai parrucchieri per donne, fino agli istituti di bellezza. L’arte della rasatura di chiama pogonotomia, dal greco “pogon” barba, e “témno” tagliare, ed è antichissima, era praticata fin dalla preistoria con coltelli di selce o di ossidiana, e si diffuse in seguito con l’avvento dei metalli. Gli Egizi si radevano già 3400 anni prima della nascita di Cristo, ma furono i Greci a perfezionare la tecnica. Si racconta che il primo barbiere arrivò a Roma dalla Sicilia intorno al 300 a. C.. I rasoi erano a mano libera. Andare dal barbiere e farsi tagliare la barba, vuole dire mettere la propria gola nelle mani di un estraneo era, ed è tuttora, un atto di fiducia. La barba come detto è seguito nel corso dei millenni dettami diversi, senza barba: l’efebico Apollo, i faraoni, Alessandro Magno, Cesare, Churchill. Con barba o baffi, Zeus, Abramo, Gesù e una buona corte di santi, Seneca che detestava radersi e Hitler. Insomma, gli uomini si sono fatti la guerra anche dal barbiere, dividendosi in due partiti per motivi religiosi. I sikh indiani e gli ebrei ortodossi che portano lunghe barbe, La religione ebraica, già tremila anni fa, vietava rasoio e imponeva forbici per sbarbarsi. In Russia lo zar Pietro il Grande impose una tassa salata sulla barba. L’imperatore Adriano la introdusse a Roma per nascondere un porro sul mento. Lord Brummel, capostipide dai dandy, al contrario aveva tre barbieri personali, rispettivamente per capelli, basette e barba. Nell’Italia rinascimentale si contano almeno 70 editti che regolavano la lunghezza di baffi e pizzetti. A Sparta, i vigliacchi venivano puniti imponendo ai condannati di radersi una sola guancia. In Egitto, invece, il faraone portava una barba falsa e il suo barbiere personale era tra i massimi dignitari; nei 70 giorni in cui il faraone stesso veniva mummificato era vietato radersi. I romani proibivano la barba tra i soldati, per non offrire appigli ai nemici, mentre i Normanni, mille anni dopo circa, imposero i baffi ai francesi e gli inglesi. Da Giovenale sappiamo che nell’antica Roma i barbieri, tra una rasatura e l’altra esercitavano la professione di chirurghi e dentisti, cavando denti, incidendo ascessi e asportando emorroidi. Senza grandi anestesie. Questa commistione di professioni continuò per secoli: in Francia la corporazione dei barbieri chirurghi fu sciolta solo nel 1718, mentre in Italia le due categorie rimasero unite fino agli inizi dell’Ottocento. Concludo questa esplorazione superficiale sul mondo della barba, capelli e dei barbieri con un verso che canta Figaro nel Barbiere di Siviglia: “Rasoi e pettini, lancette e forbici, al mio comando tutto qui sta”. In passato non era abituale radersi da soli. La maggior parte degli uomini si recava almeno una volta dal barbiere, per prendersi cura dei propri peli. Eccessivo? Non sembra. Gli antropologi, infatti, sono sicuri che barba e capelli sono importantissimi: ci servono per sedurre, per farci riconoscere nel mondo animale e per comunicare agli altri la nostra identità, sessuale e culturale. Insomma, sono una delle parti più importanti del nostro corpo da affidare a mani esperte!
Favria, 30.08.2015 Giorgio Cortese

Nella vita molti si accorgono della piega della mia giacca, ma non della crepa sul mio animo. Mi faccio coraggio, passa tutto sempre, anche quello che credevo non sarebbe passato mai. E poi arriva quel momento in cui mi accorgo che non ne valeva la pena e mi sento vuoto, frastornato. Perché hanno questo potere le delusioni. Lasciano dei vuoti così profondi, che non so come poterli riempire. Con il tempo, con le lacrime e con coraggio. Mi devo sempre ricordare che la malinconia bussa sempre alla porta prima d’entrare, l’importante è non aprirle.

Il nodi del papillon o farfallino.
Un sabato mattina l’amico Pietro mi ha chiesto sul nodo del papillon. Prima di iniziare a parlare del nodo è opportuno fare un piccola storia sul papillon e la cravatta. I primi ad indossarla furono i legionari romani stanziati nelle regioni del Nord Europa. Inossavano sulla lorica, e una pezza d’arme che copriva petto, pancia, fianchi e schiena fino alla cintura, come una corazza, aveva una base di cuoio rinforzata di scaglie metalliche. I legionari indossavano una striscia di tessuto detta focale stretta attorno al collo con un nodo, lasciando pencolare i due capi sul petto e che serviva soprattutto a ripararsi dal freddo. La cravatta vera e propria, con funzione ornamentale e di riconoscimento a quale esercito si apparteneva, allora non esistevano le divise e solo gli ufficiali indossavano una coccarda sul tricorno, nacque solo all’inizio del 1600: una larga striscia di lino bianco o rosso, la kravatska, dallo slavo krvat, croato, che identificava la divisa delle milizie croate al soldo di Luigi XIV durante la guerra di religione detta dei Trent’anni, una serie di conflitti armati che dilaniarono. L’Europa tra il 1618 ed il 1648 e fini con la pace di Vestfalia. La cravatta allora aveva un significato romantico. Si trattava del dono fatto da madri, mogli, fidanzate ai soldati che partivano per la guerra, testimonianza di affetto e di riconoscimento nell’appartenere ad un determinato esercito. Al riguardo i favriot chiamati alle armi come truppe provinciali, come tutti i sudditi dei Savoia alla fine del settecento portavano una sciarpa-cravatta azzurra, i francesi bianca, gli spagnoli rossa e gli imperiali gialla. Sino agli inizi del ‘700, questo modello conosciuto anche come fasciola era indossata come moda anche da religiosi, medici e anziani professionisti, gli altri particolari, i cittadini di allora si chiamavano così preferivano lo jabot, una pettorina di pizzo arricciato o plissettato. Il lemma jabot, una pettorina che significava, “gozzo degli uccelli”, oggi non viene quasi più usato e sopravvive nei giorni nostri come componente di vari costumi ufficiali, come in quelli della Corte Costituzionale Federale Tedesca. Ritornando alla cravatta e papillon durante il Direttorio, i nobili avvolgevano attorno al collo larghi foulard candidi, mentre i giacobini rivoluzionari, in aperta polemica, ne sfoggiavano di neri che simboleggiavano “dannazione eterna”. La cravatta più simile alla nostra moderna risale all’800, una stretta striscia di seta passata sotto il colletto della camicia e di solito annodata con un fiocco sul davanti. Il “come” annodare il fiocco si tramutò in una questione altamente estetica e modaiola, tanto che in quel periodo vennero pubblicati innumerevoli manuali riguardanti “l’arte di annodarsi la cravatta”; uno di questi fu scritto da Honoré de Balzac, dal suo saggio del 1830, “Il trattato della vita elegante”, dona qualche suggerimento per quanto riguarda il papillon. Una delle cravatte più in voga allora fu quella detta alla Byron, il celebre poeta inglese infatti la portava non sotto il colletto, ma appoggiata alta sulla nuca, passata attorno al collo subito sotto il mento avvolgendo le due estremità in un grande fiocco mai largo meno di dieci centimetri e terminate con due grandi cocche. Questa cravatta veniva usata soprattutto dai letterati, con Leopardi in testa. In compenso quella alla Lord Brummel fasciava completamente e “spessamente” il collo, stile medicazione dopo un colpo di frusta. Nel 1886 al Tuxedo Club, appare lo smoking ed è portato assolutamente con un farfallino, combinazione che diventa espressione di eleganza per eccellenza. Sembra che il nome “noeud papillon”, espressione che indica in francese il nostro “farfallino”, entra nel vocabolario nel 1904 in seguito al successo dell’opera “ Madame Butterfly “ ed in onore del suo compositore Giacomo Puccini. Alla fine del XIX secolo , in piena Belle Epoque, la stella del varietà francese Ève Lavallière (1866-1929), che si chiamava in realtà Eugenia Fenoglio ed era figlia di un sarto italiano emigrato a Parigi, lanciò quel tipo di cravatta larga e svolazzante che in suo onore venne chiamata alla Lavallìere, che piaceva moltissimo a pittori e socialisti; gli anarchici invece allora preferivano distinguersi indossando una cravattina nera, come i giacobini rivoluzionari, terminante con due palline. Ma alla fine del secolo nacque l’uso di lasciare le cocche del fiocco sempre più lunghe, tanto che questo scomparve lasciando il posto al solo nodo, come nelle nostre cravatte odierne; e anche lì nacquero grandi studi sull’arte di farli, quei nodi. Molti invece, non volendo rinunciare al fiocco, adottarono il papillon, detto anche cravattino o farfallino: un fiocchetto rigido in tessuto pregiato, oggi usato soprattutto con abiti eleganti. In Italia, fu un simbolo attribuito ai futuristi, ai comunisti, agli anarchici e ai rivoluzionari in genere e la cravatta a farfalla risulta oggi più rara nell’uso quotidiano semiformale quale alternativa alla cravatta lunga e ha assunto per molti un sapore démodé o volutamente originale. Nell’immaginario collettivo, oltre a questi riferimenti, la farfalla è associata all’abbigliamento tipico di particolari professioni, quali l’architetto, l’artista o il professore universitario, ma ciò non ha, o ha perso, un riscontro nella realtà. In Sicilia e Calabria viene chiamata “du mazzi”, due mazze. Esistono innumerevoli varianti dei nodi di papillon, ad un occhio esperto fiocchi e nastri non sembrano cambiare di molto. Ciò che cambia è la natura stessa del papillon che viene annodato ogni volta in modo diverso, e questo crea sottili differenze, quasi impercettibili. Il “Classico” è un nodo particolarmente composto, adatto ai papillon già pronti da indossare, dato che una volta preparato è piuttosto difficile da sciogliere. Per questo viene utilizzato dai cravattai soprattutto per i papillon da vendere già annodati. Il “Churchill” è un tipo di papillon che ha riscosso molto successo tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta quando era simbolo di successo ed eleganza. Il particolare taglio del “Churchill”, curvilineo – rettilineo, dona ai nastri ed i fiocchi ad un certo spessore. Il “Bluff” è forse il più comune degli Ascot montati. È di dimensioni maggiori rispetto all’Ascot regolare e sarebbe quindi più complicato da preparare a mano. Apparentemente manca il nodo che in realtà è nascosto dalle gambe mantenute lievemente sollevate da una cucitura ed incrociate. La cravatta montata è una cravatta artificiale, posticcia, un puro espediente che da una vita ad una cravatta già annodata, il cui nodo è cucito. Al riguardo del papillon ritengo che nella vita di ogni giorno l’eleganza dovrebbe essere il criterio del giudizio di ogni comportamento come di ogni prodotto della mente. L’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare. Il mio pensiero può essere elevato senza avere l’eleganza, ma, nella misura in cui non avrà eleganza, gli verrà meno la capacità di agire sugli altri. Nella vita, la forza senza la destrezza è una semplice massa che zavorra il comportamento.
Favria, 31.08.2015 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno il buon gusto nel vestire è qualcosa di innato, come la sensibilità del palato e la morale consiste nell’arte di travestire le vittorie in sconfitte

Settembre
Canta su Settembre Francesco Guccini: “Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull’ età, dopo l’ estate porta il dono usato della perplessità, …Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità, come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, …” Personalmente amo Settembre per la lentezza dei suoi tempi, per il retrogusto di dolce malinconia condita con salata concretezza in una pietanza tutta da assaporare e odorare con la pacatezza delle menti che pian piano ritrovano il ritmo della routine. Ritengo questo mese che anticamente era il settimo dell’anno un punto e virgola, un lungo respiro, un ponte tra l’estate con le camice a mezze maniche e indossare di nuovo l’amato papillon. Settembre rappresenta l’attesa della natura proiettata verso un gesto come il l taglio del granoturco e dei grappoli dell’uva. Ma questo mese è ancora un’occasione per rubare uno scampolo d’estate a un agosto ormai alle spalle. Il mese dell’adagio del giorno che tarda ad aprirsi anche quando non piove e a farsi strada nella trama leggera della nebbiolina che avvolge le albe.
Favria 1.09.2015 Giorgio Cortese

L’unione fa la forza. Lo scopo nella vita è di collaborare per una causa comune; il problema è che alcune persone hanno dimenticato questo chiaro concetto.

Il laghetto valentino
Pensando al Comune dove abito, trovo che abbia una caratteristica trascurata da molti. Favria ha un piccolo laghetto con al centro un isolotto, unito alla terraferma da un ponte. Certo il laghetto Valentino, nel parco Bonaudo è piccolo, ma viene accudito con amorevoli cure dalla locale associazione pescatori, che si prodigano nel mantenerlo dignitosamente pulito dalle erbacce, si prendono cura dell’immettere sempre delle trote per le varie gare che qui si svolgono. Questi volontari vivono con la passione dell’amo da pesca, amano la pesca intesa come rispetto dell’ambiente che li circonda, come un patrimonio da conservare, da valorizzare per le future generazioni. Il pescare mi ricorda la vita quotidiana. Se per pescare, bisogna avere la mente sgombra, si lancia la lenza, poi ci si concentra sul galleggiante, non si lancia la lenza così a caso, perché nella pesca come nella vita bisogna avere la pazienza del pescatore per far abboccare un’idea all’amo del pensiero. In conclusione la pesca come la vita è simile alla matematica: non la si può mai imparare completamente
Favria, 2.09.2015 Giorgio Cortese

A val pì n’aso a ca soa che’n profesor a cà d’j àutri. Vale più un asino a casa propria che un professore in casa altrui.

Certi novelli demagoghi credono di essere talmente importanti, perfetti e sicuri di se stessi, che quando inciampano nelle loro bugie elettorali e cadono nel ridicolo sono convinti che sia caduto il mondo intero.

Alborada pennuta
L’alborada è una forma musicale popolare originaria della Galizia e gli strumenti caratteristici attraverso cui veniva eseguita erano la dulzaina, una specie di oboe rustico, e il tamboril, piccolo tamburo. Il lemma alborada corrisponde al francese aubade e all’italiano mattinata, indicando un pezzo ispirato o da eseguirsi all’alba, contrapposto quindi alla serenata. L’alborada di cui voglio parlarvi è una composizione particolare. Parlo del concerto mattutino degli uccelli, autentici orologi in penne e piume che se non hanno l’orologio non sbagliano mai in quanto alla puntualità nel fare partire il concerto mattutino. Certe mattine, in estate, con le finestre aperte, vengo piacevolmente svegliato da loro e allora controllo la sveglia, sono sempre puntuali, pur non iniziando insieme, a distanza di pochi minuti gli uni dagli altri. Purtroppo, nei pennuti cantano solo i maschi, mancano i contralto, i mezzo soprano ed il soprano. Ma per par condicio, non ci sono neanche come voci maschili, quali il basso, il baritono ed il tenore. Inizia da subito a dare la sveglia il merlo, vestito di nero come un brigante e con il becco giallo, che è tra i più mattinieri, sale sul podio, scusate sul ramo più alto dell’albero emettendo un canto che ricorda un fischiettare allegro, sonoro, molto vario. Pochi minuti dopo il canto flautato del merlo, tocca alla capinera, più piccola del passero, ha il piumaggio grigio e, sulla testa, una calottina di piume ancor più scure che assomiglia a un buffo, cappellino, il suo canto è prolungato e dolcissimo e melodioso, di poco inferiore, per dolcezza, a quello dell’usignolo, lo si potrebbe definire simile ad un “chiacchiericcio” con alcune note più sonore che ricordano quelle del merlo. Il leggiadro aspetto di questo pennuto, completa degnamente le qualità canore. I passeri, i maschi, fanno da coro, mentre le femmine, al suolo, cercano semi e minuscoli insetti. Poi partono gli assoli dei fringuelli che terminano sempre con un energico trillo. Un ripetuto e forte ciuinc, uit e ciui. Ritengo che si dica l’espressione “Allegro come un Fringuello” per la vivacità dell’uccellino, con un canto senza pari per gioconda festosità. Il concerto è a più voci, anche con il trillo del cardellino, molto bello, ed il sibilo rullato, intenso e a tratti penetrante, del lucherino. Poi i verzellini, così chiamati perché frequentano campi di rape e verze, dal canto più che melodioso è fresco, piacevole e cinguettante in volo da albero ad albero. Poi ascolto il verdone, che deve il nome al colore delle piume. Il verdone ha un canto forte e piacevole, anche se non molto pregiato. Il grido principale è un chiip o chiic quasi sempre ripetuto in rapida serie, da qui il nome dialettale di ciurlo o ciorla, soprattutto in volo, con numerose varianti di ritmo e di tonalità. Proseguo, ascoltando il rigogolo, uno degli uccelli più appariscenti del nostro territorio, grazie alla sua livrea giallo dorata. Le ali e la coda nere danno ancora più risalto al suo manto sgargiante. l suo canto più frequente è una specie di ui-u-uio, che sembra avergli dato il nome di Oriolo, anche se altri sostengono che derivi dal latino classico “aureolus” d’oro. A questo canto alterna anche altri versi simili a quelli della ghiandaia e altri che finiscono sempre con …- ui. Da una vicina siepe ecco anche lo scricciolo, il più piccolo dei piumati, lungo meno di una sigaretta, pesa appena sette grammi che canta a squarciagola, coprendo con le sue note squillanti il canto degli altri uccelli. Al concerto della giornata che sta ad iniziare, si uniscono, anche se possono sembrare stonate, le ghiandaie e le gazze, ma fanno parte del coro che il Creato mette a disposizione gratuitamente ogni mattina anche le ghiandaie dalle notevoli capacità imitative e spesso, oltre al loro normale grido che è un acuto e poco gradevole “ree ree”, si mette a miagolare come un gatto a ad imitare, spaventando gli altri artisti pennuti il verso della poiana. E poi le gazze con il loro impeccabile piumaggio bianco e nero e ha dei riflessi che possono variare, a seconda della luce, dal grigio al verde metallico. La gazza non emette un vero e proprio canto, ma un caratteristico cicaleccio aspro e a tratti sgradevole all’orecchio umano. Poi come iniziato il coro cessa, nel finale intervengono anche le tortore selvatiche che fanno il verso lamentoso simile a quello del piccione, ma dal parco risponde anche un nutrito gruppo di colombacci selvatici nel duetto finale di voci. Poi messer maestro merlo, da il rompete le righe a questo concerto pennuto e tutto si acquieta ed il sole è ormai sorto nel cielo. Secondo il filosofo greco Gorgia la parola è potere, perché ha la capacità di fare accadere le cose e cambiare i destini, ma il sentire al mattino i gorgheggi armoniosi ed i cicalecci aspri sono simili a parole sullo stupore del Creato che mi danno ossigeno rilassante al cervello, per iniziare bene la giornata. E’ troppo bello svegliarsi al mattino uscire in balcone e ascoltare questi suoni che giungono dal vicino parco
Favria, 3.09.2015 Giorgio Cortese

La vita, certi giorni, sembra che sia su di una corda che non è tesa in alto, ma appena al di sopra del suolo. Sembra destinata a far inciampare più che a essere percorsa.

Il dolce profumo e sapore del caffè.
La parola araba qahwa, in origine, identificava una bevanda prodotta dal succo estratto da alcuni semi che veniva consumata come liquido rosso scuro, il quale, bevuto, provocava effetti eccitanti e stimolanti, tanto da essere utilizzato anche in qualità di medicinale. Dal termine “qahwa” è discesa la parola kahve, termine che ha gettato le basi per l’italiano caffè, attraverso la parola turca “qahvè” un progressivo restringimento di significato in quello attuale. Altri sostengono realtà il termine caffè derivi da Kaffa, il nome della regione dell’Etiopia, luogo in cui la pianta cresceva rigogliosamente e spontanea. Nel 1450 raggiunse la Mecca, diffondendosi in tutto l’Islam. Poi a Costantinopoli i Turchi aprirono una casa del caffè nel 1554. Da qui arrivò in Europa, attraverso Venezia, già noto nel 1570, dove la prima bottega del caffè in piazza San Marco apparve nel 1645, e a Vienna, dove i Turchi in ritirata nel 1683 abbandonarono 500 sacchi di caffè, trasformato da “caffè alla turca” in “caffè viennese”, con miele e panna. A Vienna nacque anche il “cappuccino” infatti un frate cappuccino fece aggiungere al caffè della panna e delle spezie, secondo altri il nome si riferiva alla somiglianza con l’abito marrone dei frati di quell’ordine religioso, detta Kapuziner. Il caffè entra stabilmente nella dieta di noi italiano durante la Prima Guerra Mondiale all’indomani della sconfitta di Caporetto, l’esercito italiano si rischiera lungo il Piave, c’è bisogno che i fanti stiano ben all’erta per non far passare lo straniero. E quindi che bevano caffè. La circolare del novembre 1917 prevede che al mattino vengano distribuiti otto grammi di caffè e dieci di zucchero. Nel tempo le dosi saranno aumentate fino ad arrivare a venti grammi. I soldati, una volta tornati a casa, continueranno a bere caffè al mattino, determinando in tal modo un cambiamento definitivo della prima colazione. Il caffè d’orzo, è invece, un’invenzione italiana nata durante la Seconda Guerra Mondiale, periodo in cui non tutti potevano permettersi il caffè tradizionale. Nella bevanda non vi è caffeina: è preparata esclusivamente con orzo sottoposto ed essicazione e tostatura. Al bar solitamente lo si ordina chiamandolo semplicemente orzo e viene servito in tazza grande o tazza piccola a seconda della richiesta. Lo si estrae utilizzando la stessa macchina del caffè, con l’ausilio di filtri, oppure con delle apposite macchine, nate di recente, che valorizzando maggiormente il prodotto, rendendolo più dolce e cremoso. Ma per bere un buon caffè è necessaria una buona torrefazione. Torrefare o tostare derivano dal rado latino tostare, seccare, derivante dal lemma latino torrere, seccare, abbrustolire. Interessante questo verbo perché dal participio passato tostus, deriva il lemma tosto, con il significato attuale di durezza, consistente, duro, sodo, e da li all’espressione gergale di faccia tosta il passaggio è breve. Ritornando al caffè, questa è la bevanda preferita in tutto il mondo e viene assaporata in modo diverso in ogni paese. Non c’è nulla di più familiare e rassicurante del gorgoglio del caffè che “sale” sul fornello di casa, mentre il suo delizioso aroma pervade il soggiorno. Pare che il grande Beethoven contasse pazientemente i sessanta chicchi necessari alla preparazione di ogni tazza, in modo che il suo caffè risultasse sempre della stessa forza. Ritengo che la vita è una bellissimo e interminabile viaggio alla ricerca della perfetta tazza di caffè, e penso di essere arrivato alla mia meta agli Antichi Sapori di Favria – Torrefazione – Enoteca, confetteria e prodotti tipici in via San Pietro 21 a Favria tel. 338 890 4433 dove con arte viene preparato e poi spetta a me con arte berlo e gustarlo. Il bello del caffè come viene preparato dagli Antichi sapori è prima del suo gusto che rimane a lungo in bocca è quella dolce offerta aromatica alle narici. Quando il caffè giunge nello stomaco e tutto mette in movimento, le idee avanzano come battaglioni di un grande esercito sul campo di battaglia, e refoli di pensieri o intuizioni che mi paiono geniali si avventano con generoso entusiasmo nella mischia, perché il caffè è energia per il copro e anche balsamo per l’animo. Pensate che ogni giorno in Italia si consumano 100 milioni di tazzine di caffè, una media pro capite di ben 4,5 chilogrammi di caffè tostato, 7 grammi per ogni tazzina. Come dire che ogni italiano beve quotidianamente due tazzine. Il 70% del consumo degli italiani avviene in casa, il 20% al bar ed il 10% nei luoghi di lavoro. Il caffè, il secondo prodotto per commercio dopo il petrolio e prima dell’oro, è fonte di reddito per 200milioni di persone nel mondo, fra cui 25milioni di coltivatori, che ne raccolgono annualmente 106milioni di sacchi. Il maggiore produttore di caffè è il Brasile. E allora buona degustazione di un caffè acquistato dagli Antichi Sapori a Favria che rispecchia i dettami di un proverbio turco: “Il caffè, per essere buono, deve essere nero come la notte, caldo come l’inferno e dolce come l’amore”.
Favria, 4.09.2015 Giorgio Cortese

Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. Certe parole sembrano possedere un potere magico formidabile. Certo, le parole non sono azioni; ma qualche volta una buona parola vale quanto una buona azione

Res gestae favriesi, l’umile lythrum virgatum, salcerella vergata
Ritengo che i botanici siano persone dottissime ed ottimiste, vivono nella convinzione che tutti devono essere altrettanto sapienti. Se così non fosse. sarebbe sorto loro sorto il sospetto che solo pochi traggono immediato vantaggio dalla connessione della parola greca lythrum, sangue, ovvero pianta con i fiori rossi. Di che cosa sto parlando ma della onnipresente Lythrum virgatum, detta volgarmente salcerella presente più o meno frequentemente lungo i fossi di scolo delle acque piovane o che portano l’acqua dell’irrigazione che come un immense arterie irradiano il prezioso liquido necessario all’agricoltura favriese. Gli è stato dato questo nome anche perché si riteneva che questa pianta fosse efficace contro le emorragie, il nome specifico indica la somiglianza delle foglie con quelle del salice. Da alcune settimane, chi ha la fortuna di osservare fossati, stagni o zone umide ancora presenti nelle nostre campagne noterà sicuramente ampie macchie color viola porpora, parlo della salcerella vergata. In Europa, da cui proviene la Salcerella, se ne conoscono gli effetti benefici in erboristeria e medicina sin dal passato. I fiori della salcerella sono molto amati da api e farfalle i quali ne permettono l’impollinazione, per questo viene coltivata dagli apicoltori, le api vengono attirate dal liquido zuccherino presente sul fondo del calice. Pensate che in Siberia o giovani germogli sono considerati un surrogato degli spinaci, Come molte altre piante, anche questa ha la sua leggenda: anticamente ii contadini la usavano come porta fortuna, ritenevano che ornando gli ultimi carri di fieno della stagione, con i fiori della Salcerella, questa ne garantisse la perfetta conservazione durante tutto l’inverno. Dioscoride ne consigliava l’impiego in pozioni per via rettale nella cura della dissenteria e istillata nelle narici contro le epistassi e applicata sulle ferite come emostatica e vulneraria. Le foglie , in passato venivano utilizzate come surrogato del tè, e ne venivano anche apprezzate le virtù cicatrizzanti ed astringenti. Venne pure impiegata con successo durante la prima guerra mondiale, per combattere un’epidemia dissenteriforme manifestatasi fra i soldati francesi e nel trattamento di una forma di enterite emorragica manifestatasi in alcuni soldati reduci della prigionia dopo la seconda guerra mondiale. Attualmente viene utilizzata anche nella medicina veterinaria. La radice, ricca di tannino, un tempo veniva usata per la concia delle pelli, mentre dai fiori, veniva estratto un colorante usato in pasticceria e per tingere le fibre naturali, soprattutto di cotone o di lana. Diffusa come ornamentale, non soffre di nessuna malattia, ma negli Stati Uniti dove è stata introdotta nell’ottocento a scopo ornamentale, ha soffocato le piante autoctone per cui è stata vietata la vendita e l’importazione, ed è stata inserita nell’elenco delle 100 specie aliene.
Favria, 5.09.2015 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno sono le piccole cose che avvicinano le persone, basta molto poco a volte…

Zenzero quel pizzico di dolce e piccante!
Lo zenzero è il nome italiano dello zingiber officinale, pianta erbacea perenne originaria dell’Asia orientale, che ha l’aspetto di una canna con grossi rizomi orizzontali tuberosi, molto aromatici e dal profumo canforato, con sentore di limone e di citronella. Il nome zingiber deriva dall’indiano zingibil, ma la pianta ha tantissimi nomi volgari a seconda del paese ove viene coltivata e secondo alcuni etimologisti l’origine del nome zingiber deriverebbe dall’Arabo zind-schabil, che significa radice! Secondo altri il lemma deriva dall’estinta lingua medioindiana che usava l’espressione singivera. Quando la pianta giunse con i reduci delle campagne asiatiche di Alessandro Magno, prima in Grecia e poi in tutto il Mediterraneo, le varie lingue modificarono il nome originale secondo i propri canoni, il che spiega la notevole differenza tra le varie denominazioni odierne, ma la base rimane il nome che si dava alla radice. Ed è appunto la radice, la parte utilizzata come alimento che ha un profumo pungente ed un gradevole sapore piccante. Lo Zenzero era già conosciuto da Galeno che ne descrisse la radice, definendola “importata dalla Barbaria” e nel 1500 veniva raccomandato in Europa come “commendevole nei cibi e costumarsi di mangiare nei condimenti”. Pare che le proprietà medicinali dello Zenzero fossero già note alle antiche culture orientali, dove veniva usata da sola o come componente di rimedi erboristici sia in India che in Cina, e anche come spezia alimentare, soprattutto in piatti a base di carne, come condimento o in salse, per la birra e altre bevande fermentate, o per sciroppi e biscotti, e per preparare un curry particolarmente apprezzato in India. In effetti, lo Zenzero possiede una forte attività antiossidante sui grassi e altri cibi, facilitandone così la conservazione. Oggi lo zenzero viene usato in cucina come aromatizzante e stimolante della digestione, ma anche in liquoreria come correttivo e per bibite dissetanti, e nella produzione della frutta candita e di confetture e anche nell’industria della birra, specie nei paesi anglosassoni. Personalmente mi è stato consigliato per problemi intestinali e devo dire che le sue proprietà carminative sono eccezionali. Preciso che il carminativo è un rimedio che toglie l’aria che si è accumulata nello nell’intestino e lenisce quei dolori detti coliche che ne derivano. Parlando con persone che conosco ho scoperto che alcuni lo utilizzano per problemi di inappetenza o di digestione lenta e laboriosa, o per il mal d’auto, la nausea e il vomito, come antispasmodico. Dallo zenzero nasce la bevanda denominata ginger, che è poi il nome comune inglese dello zingiber o, o zenzero. Bevanda analcolica a base di zenzero che ha come ingredienti di base: l’acqua, zucchero, anitride carbonica, estratto di arancia e estratto di zenzero. Talvolta viene chiamato anche spuma rossa o con il diminutivo gingerino, dal gusto dolce e piccante tipico dei rizomi della pianta. Personalmente ho trovato dell’ottimo zenzero presso BIO NATURALMENTE Mara a Favria(TO) in via Vittorio Veneto 2 tel. 012434544
Favria, 6.09.2015 Giorgio Cortese

L’incoerenza fa a pugni con la costanza della ragione, è quella mancanza di fermezza nei propositi, nelle aspettative nei rapporti umani, è impressionante come l’incoerenza della gente può stravolgere le mie più intime convinzioni lasciandomi a volte deluso o avvilito

A che cosa serve la storia?
A che cosa serve, raccontare, leggere e conoscere la storia? La più facile ed immediata è che una migliore conoscenza del passato può aiutarci a capire e risolvere i problemi di oggi, sempre che ci sia un minimo do umiltà nel capire dagli errori del passato. Ma la storia oltre ad essere secondo la famosa frase di Niccolò Macchiavelli:, la storia serve anche per la costruzione della memoria collettiva, infatti, senza la storia e la memoria un popolo è senza una memoria comune. Ma attenzione la storia si presta ad essere manipolata, mistificata, può essere condizionata dalle ideologie. Personalmente la storia serve perché mi insegna che anche le crisi più gravi possono essere sempre superate. Ritengo che devo sempre avere fiducia nel futuro, vincere le mie umane paure, resistere alle avversità senza mai abbandonami alla disperazione. La storia è utile per me adulto, come lo sono le fiabe per un bambino. Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere. La storia ci insegna, allora che c’è sempre una luce infondo al tunnel, esiste sempre una candela tremula di speranza nelle tenebre dell’umana esistenza.
Favria 7.09.2015 Giorgio Cortese

Quando di giorno mi lascio trascinare dalle abitudini mi accorgo alla sera di soffrire la quotidiana febbre di inutilità.

Il quotidiano edificio
Ho 57 anni, sono sposato da 30 anni e ho ricevuto due figli con la missione di aiutarli a diventare ciò per cui so¬no nati. Lavoro da 36 anni in banca, dovrò lavorare ancora parecchi anni ma, non mi lamento, perché le difficoltà della vita sono il mezzo più grande che ho per essere educato. Se penso alla mia vita fino ad oggi, ritengo che spesso ho ricevuto più insegnamenti da una sconfitta che da un successo, perché quando ottengo dei risultati positivi corro sempre il rischio di specchiarmi nel momentaneo successo, senza analizzare nulla, mentre davanti a una difficoltà sono obbligato ad essere atten¬to alla realtà e a imparare da essa. Nutro sincera passione per il mio lavoro e per tutte le attività che mi impegnano, sono curioso e il mio animo si carica di positività dello stupore per ogni cosa che imparo ogni giorno. Solo così tutte le difficoltà hanno un senso e di¬ventano un’occasione di pro¬gresso. Leggendo la storia ho visto che tutte le grandi invenzioni e scoperte nel mondo sono nate perchè c’era sempre qual¬cosa che non funzionava bene. Forse chi mi legge pensa che il lavoro di un bancario sia ripetitivo, il lavoro è intelligenza e questa non è mai ripetitiva. Certo il quo¬tidiano può sembrare ripetitivo, ma ogni giorno le opportunità non si aspettano, si creano. Mi dispiace per chi vive di competizione e non crede nella collaborazione.
Favria, 8.09.2015 Giorgio Cortese

Non mi devo mai abbattere se la vita non è facile, nella vita dopo ogni tempesta arriva sempre l’arcobaleno.

Cercando la felicità!
Ma la felicità esiste? No, la felicità in se non esiste. Esistono piccoli momenti che mi rendono felice come una persona, una notizia, un gesto. Le felicità non devo affannarmi a cercarla, la felice nasce e cresce giorno per giorno con chi mi fa stare bene. E quando sono felice non mi metto ad urlare ma la vivo in silenzio dentro il mio animo per conservarla a lungo.
Favria, 9.09.2015 Giorgio Cortese

La vita certi giorni mi accarezza e poi mi prende a schiaffi, mi regala sorrisi e poi mi lascia lividi. Ma questo è il bello della vita una continua ripartenza con la gioia nell’animo.

Benvenuta okra, dita delle donne
Il Gombo è conosciuto in Italia anche con il nome Okra oppure Bamia o Quiabo, ma essendo diffuso in tutto il mondo possiede veramente un’infinità di appellativi: quasi uno per ogni paese di coltivazione. Da noi è approdato solo recentemente, probabilmente veicolato dagli immigrati che ne fanno largo uso, ma la sua coltivazione si sta diffondendo abbastanza velocemente grazie alla curiosità degli orticoltori, tanto che si stanno intentando delle coltivazioni più ampie in Sicilia e in Sardegna, dove le condizioni climatiche sono più favorevoli, ma può essere coltivato con successo anche nella pianura Padana o in zone collinari fino a 600 m, se seminato in posizioni riparate. Il gombo è un ortaggio ricco di vitamine, acido folico, calcio, zinco e potassio e contiene una mucillagine preziosa per lenire alcuni problemi intestinali e utile per la preparazione di prodotti di bellezza per la pelle e i capelli. L’origine geografica di gombo è contestata, con i sostenitori del Sud Asiatico, origini etiopi e dell’Africa occidentale. I sostenitori di un meridionale punto di origine per la presenza dei suoi genitori proposti in quella regione. I sostenitori di un dell’Africa occidentale punto di origine alla maggiore diversità di okra in quella regione. Gli egiziani usano la parola araba per l’impianto, Bamya, suggerendo che era venuto da oriente. La pianta può essere entrato Asia sud-occidentale attraverso il Mar Rosso o lo stretto di Bab el Mandeb alla Penisola Arabica, piuttosto che a nord attraverso il Sahara, o dall’India. Uno dei primi resoconti e di un mussulmano spagnolo che visitò l’Egitto nel 1216, che ha descritto la pianta coltivata dalla gente del posto che ne mangiavano i baccelli. Dal Arabia, la pianta si sviluppa attorno alle rive del Mar Mediterraneo e verso est. L’impianto è stato introdotto per le Americhe dalle navi che solcavano il commercio degli schiavi nell’Atlantico da 1658, quando la sua presenza è stata registrata in Brasile. È stato inoltre documentato in Suriname nel 1686. Gombo potrebbe essere stato introdotto a sud-est Nord America dall’Africa agli inizi del 18 ° secolo. In 1748, veniva coltivato a nord fino Philadelphia. La pianta prefiligie il clima caldo, appartiene alla famiglia delle Malvacee. Si presenta con diversi nomi: Okra, Gombo, Bamia, Bhindi in India, Abelmoschus esculentus oppure Hibiscus esculentus, quelli botanici, ma denominata anche Lady’s finger, “Dita delle donne“, per la forma elegante e allungata. L’origine geografica di gombo è contestata, gli egiziani usano la parola araba Bamya, suggerendo che era venuto da oriente. La pianta può essere entrata in Asia sud-occidentale attraverso il Mar Rosso o lo stretto di Bab el Mandeb alla Penisola Arabica, piuttosto che a nord attraverso il Sahara, o dall’India. Uno dei primi resconti è di un mussulmano andaluso che visitò l’Egitto nel 1216, che ha descritto la pianta coltivata dalla gente del posto che hanno mangiato la gara, giovani baccelli con pasto. Dal Arabia, la pianta si sviluppa verso il Mar Mediterraneo e verso est. Viene introdotto per le Americhe dalle navi che solcavano il commercio degli schiavi nell’Atlantico da 1658, la sua presenza viene registrata in Brasile. È stato inoltre documentato in Suriname nel 1686. Gombo potrebbe essere stato introdotto a sud-est Nord America dall’Africa agli inizi del 18 ° secolo. pErsona e che hanno mangiato l’okra dicono che il sapore è davvero unico e ancora non ho trovato un paragone adotto per descriverlo. C’è chi lo avvicina vagamente a quello degli asparagi.
L’Okra contiene vitamina A, B6, vitamina C, acido folico, calcio, zinco e fibra alimentare. Proprietà: per la ricchezza di acido folico, è indicata per le donne durante il periodo della gravidanza; è un toccasana per il tratto gastro-intestinale, lenisce l’intestino irritato, è leggermente lassativa e favorisce la perdita di peso. Vi consiglio ogni tanto di sperimentare ortaggi originali: vi assicuro che in mezzo alle tante verdure già affermate e conosciute, qualche tocco esotico non solo non guasta, ma è di grande effetto!
Favria, 10.09.2015 Giorgio Cortese

Donare è il verbo che mi sforzo di mettere in cima ai miei pensieri ogni mattina al mio risveglio. La raccolta ne sarà la conseguenza naturale se faccio della positività un modo di vivere