Una vita tra i banchi. – L’attimo. – Essere belli e buoni oggi, la Kalokagatìa. – Il latino ed il lavoro dei campi. – Sanziene – Tutti “cadiamo” in qualche lapsus. – Il leone nei modi di dire…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Non sono capace a scrivere, amo cantare ma sono stonato, amo la musica ma non sono capace a ballare, ma una cosa è certa, il mio nome e le mie quotidiane azioni sono affiancate alla mia vita.

Una vita tra i banchi.
Carissima Domenica è molto difficile cercare le parole per salutarti. Per chi ha avuto la fortuna di conoscerti e di affidarti i figli, e i Tuoi alunni che adesso sono diventati adulti, durante gli, innumerevoli anni che hai trascorso nella scuola, che un tempo si diceva “asilo” “J. Servais nel lontano 1979. Già prima ci è stato detto che hai iniziato, nel 1974, con incarico come assistente a Front 1975 e 1976: assistente a Vesignano 1977 e di ruolo, a Front, nel 1978 a Salto Canavese. Ecco dopo questa lunga vita tra i banchi e con i bambini, il pensiero di immaginare proprio questa stessa scuola senza di te risulta per noi adesso è inconcepibile, Domenica, e permettimi ma vogliamo continuare ad usare il presente, sei un pilastro della nostra scuola, e non lo diciamo solo per “circostanza” e sarai sempre ancora un continuo punto di riferimento per ognuno di noi. Per la tua grande “Professionalità” e “Competenza” come Insegnante. Per la Tua “Serietà e il Senso del Dovere”, questo ultimo termine espressione ormai antiquata ma che c’è ancora tanto bisogno. Domenica, grazie per il tuo Entusiasmo con cui hai affrontato ogni anno l’inizio della scuola. Per il tuo costante Ottimismo anche di fronte ad eventi o situazioni “pesanti” da gestire di vario genere, con cui hai sostenuto chi era in difficoltà. Per la tua Dolcezza e allo stesso tempo l’ Autorevolezza che hai sempre avuto verso tutti quegli alunni, anche i più monelli… da cui comunque riuscivi a tirare fuori il meglio, che ti hanno conosciuto e che ti porteranno sempre nel loro cuore. Ma soprattutto per la tua grande Umanità e Sensibilità. Ci sono maestre che lasciano il segno, che insegnano oltre che con le parole dando per prime l’esempio, e questo Tu lo hai fatto e hai lasciato ad ogni passaggio dei bambini nella Tua classe un segno indelebile. Grazie Domenica, maestra di vita oltre a maestra di scuola, non solo maestra ma educatrice. Come abbiamo detto prima è difficile immaginare il prossimo anno scolastico senza di Te, ci sentiremo persi, ma è giusto che dopo tanti anni di lavoro nella nostra scuola sia arrivato il tempo del riposo, ma noi Ti avremmo voluta ancora con noi. Ci sono persone che hanno dei “doni speciali” con gli altri. Ecco, Tu sei, secondo noi, una di quelle. Se il mondo fosse popolato anche in una piccola percentuale di persone come Te, sarebbe di sicuro un posto migliore. Ti vogliamo bene! Goditi la meritata pensione, con affetto i genitori dei bambini che hai educato in questi innumerevoli anni e con riconoscenza i Tuoi alunni
Favria, 20.06.2016 Giorgio Cortese

La vita di ogni giorno non la devo misurare in ore, minuti o secondi ma in intesi attimi

L’attimo.
In un solo momento può accadere ciò che non speravo accadesse neppure in un anno. Che strana e meravigliosa la vita fatta di rarissimi momenti di grande intensità e di innumerevoli intervalli. Peccato vher molte volte ignorando i momenti magici, finisco con il vivere solo gli intervalli. Pensare che l’istante occupa uno stretto spazio fra la speranza e il rimpianto, ed è lo spazio stupendo della vita. Ogni giorno, mi riprometto che non devo giudicare giorno bello ed un giorno brutto se dimentico il valore di ogni istante. Certo attimi bisognerebbe lasciarli cosí come si sono vissuti, mai tentare di ripeterli, di riviverli, , perché nello stesso fiume non è possibile scendere due volte. Nella vita di ogni giorno ogni momento è l’ultimo, perché è unico. Questa è la bellezza dell’istante, quel momento in cui posso o non voglio cogliere l’opportunità di cambiare tutta la mia esistenza.
Favria, 21.06.2016 Giorgio Cortese

Il tempo è breve e se inseguo l’immenso perdo sicuramente l’attimo presente. Alla fine della giornata non ricordo i giorni passati ma solo gli attimi che hanno fatto inebriare o intristire l’animo

Essere belli e buoni oggi, la Kalokagatìa
Kalokagatìa o Kalokagathia, dal greco “kalos”, bello, e “agathos”, buono. Termine che designa un canone estetico degli antichi greci, , secondo il quale alla virtù morale corrisponde necessariamente la bellezza fisica, idea che non trova riscontro in seguito dalla figura di Socrate, che raggiunse le vette della sapienza e della riflessione estica pur essendo di brutto aspetto. L’eroe omerico era, sempre e comunque, “kalòs kài agathòs” ; vale dunque la pena chiedersi cosa significasse questa formula, come facesse il violento Agamennone a risultare tanto “buono”, e secondo quali canoni estetici fossero tanto belli i guerrieri achei. Kalòs, vuole dire bello; ma l’uomo “kalòs” è l’uomo nobile, e già questo mi aiuta a comprendere meglio come mai tutti i capi che combattevano presso Troia venissero definiti così. Nell’aggettivo si evoca l’idea di un uomo privilegiato, che è nato da una famiglia altolocata ed ha ricevuto una perfetta educazione fin da ragazzo, si esercita nella lotta ed educa il suo corpo all’eccellenza, a calibrare le forze, a controllare la potenza muscolare, a colpire con precisione ed efficacia. L’educazione dell’uomo “kalòs” è quella di aver passato anni a rendere il suo corpo una perfetta macchina da guerra, ma senza trascurare la sua mente. Fin dalle origini la civiltà greca attribuisce fondamentale importanza al “lògos”, ossia al pensiero che si traduce in parola: l’eroe omerico è un uomo che sa parlare, sa proporsi, sa perorare la sua causa. Centinaia di uomini gli sono al seguito, ed egli deve saperli guidare, abituarsi ad esser guardato e preso ad esempio; nella assemblee, la voce non deve tremargli, gli occhi devono essere espressivi, non può balbettare, non a caso i Greci hanno sempre definito gli stranieri “balbuzienti”, ossia “bàrbaroi”, barbari, e le sue parole devono essere appropriate, convincenti, ben articolate. L’aggettivo “agathòs” è forse ancor più flessibile nella sua gamma di significati, e comprende in sé tutta una serie di valori fondamentali per gli antichi greci. ”Agathòs” è innanzitutto l’uomo coraggioso, che non indietreggia davanti al pericolo, capace di affrontare qualsiasi situazione. L’eroe omerico, tra la morte e una fine ingloriosa, non ha dubbi; sa che la vita è comunque destinata a finire, spera che il ricordo del suo valore rimarrà immortale. Egli è sicuro di sé, delle sue idee, della causa per cui lotta. Insomma l’eroe omerico è agathòs perché è rispettabile, valoroso, capace. Che poi non sia “buono” nel senso cristiano del termine, è irrilevante: un uomo agathòs può essere prepotente, arrogante, egoista e, se occorre, scaltro fino all’inganno come Ulisse, questo non sminuisce minimamente quelle doti di capopopolo che l’hanno portato alla sua posizione di eccellenza. In senso lato la parola kalokagathia indica la reale fusione, per la cultura greca antica di etica ed estetica, per cui ciò che è bello deve necessariamente essere buono e viceversa. Di conseguenza ciò che è interiormente cattivo sarà anche brutto fuori. Oggi questo concetto antico, può essere reso attuale nell’era della globalizzazione con la virtù e la cultura. Ritengo che è proprio in questa capacità di rinnovarsi ed adeguarsi alle nuove esigenze della società che ci rende belli e buoni, quasi come eroi miti di una grecità che ci appartiene. Oggi essere belli e buoni è vivere ogni giorno nel mondo con la ricerca non certamente della perfezione ma almeno nel tendere alla verità, alla conoscenza, con la correttezza e l’onestà evitando i troppi “se” e troppi “ma” senza indugiare di fronte alle quotidiane scelte solo se si vede una più conveniente. L’onestà è qualcosa che nasce e vive dentro al nostro animo e si riflette nelle azioni del nostro corpo
Favria, 22.06.2016 Giorgio Cortese

Quando durante la giornata manco un bersaglio non attribuisco la causa agli altri ma la cerco in me stesso

Il latino ed il lavoro dei campi.
Il latino non è poi quella lingua dotta delle persone istruite ma è l’antica lingua del lavoro dei campi, un tempo è stata una lingua di contadini. Mi sono imbattuto nel lemma frugale, per indicare una persona sobria ed onesta, deriva dal lemma latino frugi, sobrio e questa parola non si capisce se non presumendo un modo di dire che si riferiva alla ricchezza delle messi e dei frutti. La storia di parole quali “rivale” e “delirare” portano alla stessa conclusione. «Rivale» indica l’avversario, e spessissimo si dice del rivale in amore: ma il significato originario si riferisce a coloro che condividono lo stesso rivo d’acqua e contendono sull’uso dell’acqua. L’origine della parola «delirare» è istruttiva: «delirare» significa «uscire dalla lira» e lire , scriveva Columella, autore latino di opere di agricoltura, erano chiamate dagli agricoltori i solchi del campo arato. «Lieto» è chi prova gioia e manifesta apertamente la sua esultanza: ma l’origine della parola indica i campi fertili che producono messi abbondanti: «lieti» sono detti dagli scrittori antichi i pascoli, e una traccia del significato originario si conserva nel derivato «letame», indicante la sostanza che allieta, cioè rende produttivi, i campi. Bada però di non credere che gli antichi abitanti di Roma fossero persone rozze o incolte: se la storia della lingua ci fa ricostruire l’immagine di un villaggio rustico, questo vale per l’età di Romolo e Remo o dei primi re: sappiamo che al tempo della repubblica a Roma c’erano splendidi tempi, bellissimi edifici, ampie vie, anche se lo spirito contadino si era conservato nella semplicità del modo di vivere e nel carattere taciturno e pronto alle battute. Certo prima dell’età di Cicerone i Romani avevano un vocabolario povero e poco adatto alla scienza e alla filosofia. Gli stessi scrittori latini percepirono la povertà della lingua nativa o la contadina inesperienza del vocabolario: ma questo è un altro problema, di cui discorreremo in altra sede.
Favria 23.06.2016

È la quotidiana forza dei piccoli gesti, piccole parole, piccoli atti, piccole dimostrazioni, per rendere ogni giorno la mia vita e di chi incontro ancora più preziosa e degna di essere vissuta

Sanziene
Il 24 giugno la Romania, oltre alla festa della nascita di San Giovanni Battista celebra la giornata delle “Sânziene”o Dragaica. Le “sânziene” sono delle bellissime fanciulle con poteri magici che nella notte precedente il 24 giugno volano e caminano sulla terra. La parola stessa “sânziene”, costruita da “sân” ovvero sante e “ziane” o fate denota un significato suggestivo legato allo straordinario. La parola si riferisce anche ad un fiore di campo, di colore giallo-dorato con piccoli fiori ricchi di polline e con una fragranza forte di fieno e miele. Anche se toccata con molta finezza, “il fiore del solstizio estivo” forma una pioggia fine di particelle dorate. E’ chiamata così non a caso in quanto la festa è vicina al solstizio estivo, ma anche perché ha un periodo di vita molto breve, come se sbocciasse soltanto per festeggiare l’inizio d’estate e la richezza della stagione iniziata. Nella notte del 23 giugno le fate toccano magicamente con il loro ballo la terra e i prati e di seguito tutte le erbe e le piante ricevono proprietà curative contro qualsiasi malattia. I loro poteri rappresentano purezza, salute e ricchezza della stagione appena iniziata. Però anche i giovanni dei villaggi devono preparare il loro arrivo, le fanciulle devono raccogliere il giorno 23, prima del tramonto, i fiori “sânziene” e intrecciare delle corone che poi vengono lanciate sul tetto della casa per portare fortuna in matrimonio. I ragazzi invece per attirare le fate fanno dei fuochi sui prati. Ci sono varie leggende sulla bellezza e sulla positività della sanziene, alcune versioni le classificano come delle fate cattive che puniscono le persone che non celebrano la loro festa. In tutte le leggende però le sanziene proteggono la giustizia, e la purezza dell’anima. Le origini di questa festa non si conoscono. Certe voci sostengono che sia di origine geto-dacica legata al rito del sole, altre invece la legano ai romani, al colto della Dea Diana e alla sua bellezza. In ogni caso, la festa delle Sanziene e l’unica festa di origine pagana accettata col suo vero nome nel calendario ortodosso.
Favria 24.06.2016. Giorgio Cortese

I miei genitori vivono sempre nel mio cuore ma ci sono sere in cui la nostalgia diventa più forte e divento bambino alla ricerca dell’abbraccio materno che ormai serbo solo più nel mio cuore

Il modo in cui affronto le situazioni ogni giorno mi fa conoscere ancora di più me stesso e se mi fermo a riflettere non significa che sono debole, ma è solo un modo di capire me stesso e di capire gli altri..

Tutti “cadiamo” in qualche lapsus
Il lemma deriva dal latino labi, scivolare, il participio passato Parola che, anche oggigiorno ricorre nelle frasi lapsus linguae, errore verbale, sbaglio nel parlare, e lapsus calami, errore di scrittura. Ritengo che sarà capitato a tutti, almeno una volta, di quando stiamo parlando con qualcuno, quando all’improvviso, pur volendo utilizzare una specifica parola, ne esce un’altra, spesso dal significato opposto. In questo occasioni mi correggio subito, magari superando un po’ di imbarazzo, e continuo il discorso. È il famoso lapsus, ovvero l’uso non intenzionale di parole sbagliate rispetto a quel che si voleva dire, dovuto in molti casi a motivazioni inconsce. Vengono abche chiamati gaffe, lemma francese che deriva da gaffer, commettere un’indelicatezza of uso il lemma italiano in disuso: topica. Personalmente noto che se un lapsus ogni tanto può capitare in modo innocuo e fisiologico, ci sono periodi in cui esso si manifesta con più frequenza, spesso nei momenti meno indicati, magari quando sono sotto pressione. Ad esempio non mi viene subito in mente il nome di alcune persone mentre parlo, oppure dico delle battute palesemente fuori luogo di cui mi accorgo solo dopo. Ma queste schegge che emergono dal mio animo mi segnalano il bisogno di conoscere meglio me stesso, e perché in effetti queste “schegge di verità nascoste” possono inquietare non poco chi mi sta accanto. Allora rallento il mio modo di parlare troppo veloce, e ansioso e rifletto con calma cosa devo dire e tutto scorre nei migliore dei modi, perché tutti commettiamo errori. È per questo che c’è una gomma per ogni matita. E poi grazie ai laspus, gaffe, topiche abbiamo l’opportunità di iniziare a diventare più intelligenti. Favria, 25.06.2016 Giorgio Cortese

Cerco ogni giorni di mai fermarmi all’apparenza, ma andare oltre dall’altra parte del muro dell’ignoranza, .

Il leone nei modi di dire.
Il leone, in varie espressioni, è preso come simbolo di forza, di audacia e di violenza: battersi da leone, è un leone in battaglia. In particolare, sentirsi un leone significa sentirsi pieno di vigoria, di ardire. Trovarsi nella fossa dei leoni, cioè trovarsi in una situazione assai rischiosa, deriva dalla fossa di Babilonia in cui, secondo il racconto biblico, fu gettato il profeta Daniele. Altri modi di dire sono fare la parte del leone, cioè riservarsi, in una spartizione, la parte migliore e più cospicua, e la zampata del leone, cioè, in un’opera, l’impronta del genio creatore. Vestirsi della pelle del leone vuol dire ‘nascondere la propria nullità sotto false apparenze’, rischiando di far la fine dell’asino di cui parla Fedro nella favola dove un leone prende come compagno di caccia un somarello. Coperto di frasche, l’asino spaventa con i suoi ragli le fiere, che scappano atterrite e finiscono proprio tra gli artigli del leone. “ Che ne dici della mia voce?”, chiede l’asinello al termine della caccia, “ Straordinaria! “risponde il leone. “ Tanto che sarei scappato anch’io, se non avessi saputo che eri tu.” Hic sunt leones è un modo di dire latino che indica scherzosamente un luogo o una cosa che nascondono rischi e pericoli a sorpresa; indica pure una materia o una scienza che non si conoscono molto bene. La locuzione deriva dal fatto che gli antichi geografi descrivevano solo le zone dell’Africa che conoscevano, per lo più ridotte alle aree costiere del Mediterraneo. Per le zone più interne del continente, non sapendo come cavarsela, scrivevano sulla carta geografica “hic sunt leones, qui ci sono i leoni, volendo in tal modo indicare che tutte quelle aree erano inesplorate.
Favria, 26.06.2016 Giorgio Cortese

Le persone speciali sono quelle che sono di vedere in me quello che non manifesto