AAA. Cercasi donatori di sangue subito! – Temporale estivo serale – Beghine, begardi, bigotto! – Il vitel tonnè! – Il fardello della faretra. – …Le pagine di Giorgio Cortese

AAA. Cercasi donatori di sangue subito!
L’emergenza sangue non va mai in vacanza. Servono donatori per il prelievo straordinario di venerdì 31 luglio, a Favria (To) dalle ore 8,00 alle ore11,00 cortile interno del Comune. Occorre uno sforzo straordinario di tutte le persone di buona volontà e che godono di buona in relazione ovviamente allo stato di salute in atto e alla valutazione cardiologica del medico accettante. Età compresa tra i 18 ed i 65 per chi è donatore, per chi vuole candidarsi non superare i 60 anni per la prima donazione. Chi è già donatore può superare il limite dei 65 anni . Pressione arteriosa tra 110 e 180 mm di mercurio (Sistolica o MASSIMA) tra 60 e 100 mm di mercurio (Diastolica o MINIMA), pesare più di 50 chili. Nella vita non serve essere un dottore per salvare le vite umane! Se sei del Gruppo zero e da diverso tempo non doni, da più di 90 giorni, vieni venerdì 31 Luglio a Favria To, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,00, farai la differenza! Trattandosi di prelievo straordinario è gradita la conferma telefonando al numero 3331714827 o messaggio anche con WhatsApp o mail corteseg@tiscali.it
Grazie di cuore

Temporale estivo serale
Arriva come un ladro il temporale improvviso, traboccante di lampi e di tuoni che sembrano vogliano sconvolgere tutto il mondo. Nere s’ammassano le nubi a formare una barriera alla luce del sole e simile ad una mitraglia le nuvole bige scaricano un mare di gocce sulla a lungo assetata terra. Nel plumbeo muro d’acqua che abbevera l’orto, il giardino si calmano i rumori usuali e soltanto il rombo dei tuoni preceduto da saettanti fulmini copre lo strepitare della pioggia. In cielo onde di storni impauriti volano in danza continua, cercando riparo e sulla terra tra le zolle e l’asfalto nascono improvvisi fiumi alla deriva, si fanno tra loro impetuosi e scorrono via arruffando le acque, come dei capelli scossi al vento. Poi tutto si placa, rifiatano i gli alberi che tremavano con i rami percossi, si asciugano i fiumi improvvisati e la mia anima trova questa sera quiete e ristoro. Da domani ci affideremo di nuovo al sole che ci porterà l’arsura dell’estate, ma per adesso mi godo l’improvvisa frescura dopo settimane di grande calura
Favria, 21.07.2015 Giorgio Cortese

Se la forza risiede nel cuore, la nobiltà è nell’animo, e allora posso riconoscere dalle fondamenta su cui si sorregge una persona.

Certe persone troppo piene di se stessi , si ritroveranno con il vuoto attorno.

Beghine, begardi, bigotto!
Secondo alcuni studiosi l’etimologia della parola “bigotto” risale al francese bigot, come aggettivo dispregiativo dato ai Tedeschi per la loro ricorrente esclamazione”bi Gott”, che nell’antico alto tedesco significava “per Dio”. Ma il lemma bigotto potrebbe derivare dagli appartenenti di ordini religiosi, derivanti dal latino medievale beguina, beghina, begina, beghardus. Con questo nome, beghine, venivano designate le religiose appartenenti ad alcune congregazioni femminili e dimoranti a piccoli gruppi in luoghi appositi detti “beghinaggi”, beguinagia. Le loro origini vengono fatte generalmente risalire all’attività religiosa di un frate di Liegi, Lamberto il Balbuziente, morto nel 1178. Questi, dopo di avere, intorno al 1170, consacrato la sua fortuna alla fondazione di un ospizio, annesso alla chiesa di San Cristoforo a Liegi e destinato ad accogliere le vedove e i figli dei crociati, avrebbe concepito l’idea d’istituire delle congregazioni di donne che, pur senza pronunziare voti monastici, fossero disposte a condurre vita devota e promettessero di professare la povertà, l’obbedienza e la castità finché fossero rimaste nell’ordine. Secondo altri studiosi il nome deriverebbe da Begga di Andenne o da un’immaginaria vecchia parola sassone, “beggen”, che significherebbe “mendicare” o “pregare”, in senso dispregiativo che li accumuna agli albigesi, un altro movimento ereticale diffuso in Europa tra il XII e il XIV secolo. Molte furono le donne, specialmente quelle rimaste vedove nelle crociate, che si raccolsero in comunità semiconventuali, occupando il quartiere adiacente alla chiesa di San Cristoforo. Il loro nome sarebbe derivato dal nomignolo del fondatore Lamberto, detto in francese le bègue, quia balbus erat, come dice il cronista Egidio, monaco di Orval, ovvero, secondo un’altra etimologia, che è generalmente accettata, dall’antico sassone beggem, che significa “pregare”. Dopo la morte di Lamberto, il movimento si estese con molta rapidità non soltanto nelle Fiandre, ma anche in Francia, in Germania e in altri luoghi. Sull’esempio di quella di Liegi, ogni comunità occupava tutto un quartiere delle città, con chiese, ospedali e foresterie proprie. Lì, distribuite in piccole dimore, le religiose vivevano sotto la direzione di una magistra. A tali comunità venivano ammesse donne di ogni condizione, ma pare vi fossero tre specie di comunità: quelle formate dalle donne più ricche, a cui era proibita la mendicità; quelle dotate dai fondatori, formate da donne povere, alle quali pure la mendicità era interdetta; le comunità, infine, non dotate e formate da donne povere, che invece potevano vivere mendicando o accudendo a lavori manuali. La propaganda terziaria degli ordini mendicanti del sec. XIII, specialmente dei francescani e dei domenicani, trovò in questi ambienti il terreno già favorevole; così che, mentre talune comunità conservavano la loro autonomia e il loro primitivo carattere, altre si trasformavano in case di terziarie francescane, domenicane e anche agostiniane. Le correnti mistiche, sprigionatesi dal francescanesimo e particolarmente dallo spiritualismo gioachimita, esercitarono, non meno di quelle ortodosse, un larghissimo influsso sulle comunità delle beghine, le quali scivolarono nell’eresia, gettando il sospetto e il discredito su tutto il movimento e provocando reiterate condanne di sinodi e papi, cominciando da quella del concilio di Fritzlar del 1259. Il sinodo di Magonza, del 1261, prescrisse che non si accogliessero donne che non avessero raggiunti i 40 anni; quello di Béziers, del 1299, ne decretò la soppressione, come organizzazioni non riconosciute dalla chiesa. Il concilio provinciale di Colonia del 1306 e quello ecumenico di Vienne del 1310 ne rinnovarono la condanna. Il concilio di Vienne del 1311, celebrato sotto Clemente V, le soppresse ufficialmente, come ereticali, e incaricò gl’inquisitori di ricercarne le affiliate e di punirle severamente. Tali decreti furono rigidamente applicati da papa Giovanni XXII, sebbene questi avesse distinto le beghine ortodosse da quelle eterodosse e lasciasse senza molestia le beghine dei Paesi Bassi. Per la confusione creatasi tra le comunità ortodosse e quelle sospette e per i conflitti che ne derivarono tra le autorità ecclesiastiche e quelle laiche, la persecuzione parve poi attenuarsi; ma essa riprese nuovamente vigore tra il 1366 e il 1378, sotto i papi Urbano V e Gregorio XI, quando sorsero nuovi numerosi beghinaggi che tendevano a diventare ricoveri di mendicanti e di donne di dubbia reputazione. Tale carattere venne anche accentuandosi nel corso del secolo seguente. All’epoca della Riforma nei paesi protestanti, e all’epoca della rivoluzione nei territorî francesi, le organizzazioni delle beghine furono nuovamente soppresse; ma in alcuni luoghi, e specialmente in Belgio e in Olanda, non tardarono a riprendere vita e rifiorire. Il beghinaggio di Gand, che occupa un intero quartiere della città, non contò meno di 600 sorelle. Né mancarono, anche nei più oscuri periodi, religiose che seppero raggiungere le vette della santità, come, per esempio, Gertrude da Oosten di Delft, morta nel 1358. Accanto alle comunità femminili delle beghine, sorsero anche comunità di uomini beghini o begardi, beguardi, beghardi, senza che sia possibile farne risalire con certezza le origini allo stesso Lamberto il Balbuziente. La più antica memoria si ha di essi a Lovanio nel 1220 e poi ad Anversa nel 1228. Si diffusero anch’essi di buon’ora e largamente, soprattutto nelle Fiandre, in Francia e in Germania. Ebbero nomi diversi, oltre quello di beghini o affini, secondo le diverse regioni: boni pueri, boni valeti, bons garçons, lollards, forse dal fiammingo löllen “essere balbuziente”. Sembra che le primitive associazioni fiamminghe di begardi fossero formate di artigiani. I beghinaggi maschili furono assai meno numerosi di quelli femminili e degenerarono con maggiore facilità e rapidità. Attratti nell’orbita degli ordini mendicanti, spesso si confusero con i loro gruppi di terziarî. Più spesso fecero causa comune con i nuclei di esaltati spirituali, non escluso quello della setta dello “Spirito di libertà”, che, partendo dalla premessa, sempre sottintesa anche se non espressa formalmente, dell’identità tra Dio e l’uomo, affermava che l’uomo può giungere a uno stato di perfezione in cui unus est cum Deo et Deus cum eo unus absque omni distinctione; che l’uomo può raggiungere, nella vita terrena, la piena beatitudine quale egli avrebbe nella vista beatifica; che l’uomo libero è perfetto quanto Cristo. Dai principî panteistici su enunciati i begardi eterodossi trassero poi dettami di vita pratica, che conducevano all’annullamento di ogni legge morale: l’uomo perfetto, non potendo peccare, deve agire secondo l’inclinazione della sua natura. Le vicende e le condanne dei beghini sono in sostanza le stesse delle congregazioni femminili. I begardi non dovettero sopravvivere al secolo XIV, durando tuttavia più a lungo nei Paesi Bassi, ove avevano più salde radici e avevano meno alterato il loro carattere primitivo. Oggi tutti sappiamo chi sia un bigotto. La riflessione che si può fare è quindi sul taglio, sulla connotazione particolare della parola: è ovviamente un dispregiativo, ma non ringhioso. È enormemente ironico. Indica praticamente la tendenza allo scandalizzarsi levando gli occhi al cielo e facendosi sfuggire un’esclamazione contegnosa: un moraleggiare tutto da ridere di chi è troppo pieno di se stesso ma non si rende conto di avere il vuoto attorno.
Favria, 22.07.2015 Giorgio Cortese

Una vita senza la passione rende ogni sforzo vano.

Gentile donatore, l’emergenza sangue non va mai in vacanza. Servono donatori per il prelievo straordinario di venerdì 31 luglio, a Favria (To) dalle ore 8,00 alle ore 11,00, cortile interno del Comune, farai la differenza! Trattandosi di prelievo straordinario è gradita la conferma telefonando al numero 3331714827 o messaggio anche con WhatsApp o mail corteseg@tiscali.it
GRAZIE DI CUORE!

Nella vita c’è un tempo per pescare e un tempo per asciugare le reti.

Se è vero che dopo ogni tempesta arriva l’arcobaleno, io mi siedo qui paziente, calmo e placido ed aspetto che arrivi il mio.

Il vitel tonnè!
Le Origini del Vitello tonnato o Vitel tonnà o Vitel tonnè che dir si voglia, sono perse nella notte dei tempi e avvolte nel mistero. A dispetto della sonorità francese del nome è un piatto freddo della cucina piemontese di origine Savoiarda a base di carne di vitello bollita, tagliata a fette e ricoperta con una salsa a base di maionese, tonno sotto olio e capperi. Il nome deriverebbe dal francese tannè, conciato, accomodato ma anche scuro, quindi da intendersi come un vitello in salsa scura che è infatti il colore della salsa dato dalle acciughe. Conviene ricordare che esistono due diversi modelli di vitello tonnato, l’uno caldo e l’altro freddo, che la salsa a base di maionese per quest’ultimo è diventata norma solo nel nostro secolo e che nelle prime versioni ottocentesche, secondo quanto sentito, raccolte sotto questo nome non rientrava neppure il tonno. Per alcuni tonnato voleva dire cucinato come fosse tonno e che la ventresca sott’olio sia stata aggiunta in un secondo tempo, probabilmente attratta dal nome del piatto. Questo piatto nella preparazione fredda è tipicamente estivo, personalmente ho dei bei ricordai da ragazzo nelle merende sinoire estive o di Ferragosto. Molto probabilmente la ricetta del vitello tonnato affonda le sue origini nel tardo Medioevo, quando in Piemonte era molto frequente il mestiere di acciugaio, cioè di rivenditore di alici sotto sale. All’epoca il prezzo del sale era alle stelle e molti montanari e contadini piemontesi percorrevano quelle che oggi conosciamo come le vie del sale fino alla Liguria e alla foce del Rodano dove acquistavano il sale a prezzi più accessibili e lo trasportavano in barili nascosto sotto strati di acciughe. Una volta ritornati in patria rivendevano il sale a prezzi più alti e le acciughe a prezzi stracciati, acciughe che, tra l’altro, essendo state a contatto con il sale, erano diventate più saporite e si conservavano per più tempo, e venivano utilizzate per svariate ricette come per la bagna cauda d’inverno. Ritornando però a fatti più concreti e più vicini ai giorni nostri, posso affermare che ufficialmente la prima apparizione della ricetta del vitello tonnato fu nel libro di Pellegrino Artusi “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, nell’Ottocento. Ecco la ricetta: “Prendete un chilogrammo di vitella di latte, nella coscia o nel culaccio, tutto unito e senz’osso, levategli le pelletiche e il grasso, poi steccatelo con due acciughe. Queste lavatele, apritele in due, levate loro la spina e tagliatele per traverso facendone in tutto otto pezzi. Legate la carne non molto stretta e mettetela a bollire per un’ora e mezzo in tanta acqua che vi stia sommersa e in cui avrete messo un quarto di cipolla steccata con due chiodi di garofani, una foglia d’alloro, sedano, carota e prezzemolo. L’ acqua salatela generosamente e aspettate che bolla per gettarvi la carne. Dopo cotta scioglietela, asciugatela e, diaccia che sia tagliatela a fette sottili e tenetela in infusione un giorno o due in un vaso stretto, nella seguente salsa in quantità sufficiente da ricoprirla. Pestate grammi 100 di tonno sott’olio e due acciughe; disfateli bene colla lama di un coltello o, meglio, passateli dallo staccio aggiungendo olio fine in abbondanza a poco per volta e l’agro di un limone od anche più, in modo che la salsa riesca liquida; per ultimo mescolateci un pugnello di capperi spremuti dall’aceto. Servite il vitello tonnato con la sua salsa e con spicchi di limone. Il brodo colatelo e servitevene per un risotto.”
Buon autit a tutti
Favria, 23.07.2015 Giorgio Cortese

Un attimo sono triste, l’attimo dopo felice, poi di nuovo triste. Poi mi arrabbio, poi gioisco, poi rido ma l’attimo dopo sono triste. No, non è una malattia. È la vita.

Il fardello della faretra.
Nella vita di ogni giorno ognuno di noi porta il suo fardello di preoccupazioni, di timori e di speranze. La parola fardello, pensate deriva dall’arabo far’d, vestimento, o parte di una delle due balle che formano il carico di un cammello. In portoghese il termine farda designa l’abito militare, in spagnolo fardar, somministrare gli abiti e nell’antico francese fardes, abbigliamento. La voce è pervenuta in Europa con i commerci nel Medioevo. Da li al significato di grosso fagotto, da portare per lo più a spalla o da caricare sopra un veicolo il passo è breve. Ma anche la parola faretra è simile, perché in latino significava portare. Era un astuccio di varia forma e materiale, atto a conservare le frecce, che gli antichi arcieri portavano generalmente sospeso alla spalla destra per mezzo di una correggia; era anche attributo di divinità cacciatrici e guerriere come Artemide, Eracle, e del dio Amore. Infatti si denomina faretrato, dal latino pharetratus, che porta la faretra, per indicare Eros con la freccia pronto a scoccare un nuovo amore. La faretra poteva avere diverse forme ed essere portato appeso alla cinta, alla sella di un cavallo, o sulla schiena. In alcuni casi si poteva avere anche uno spazio in cui deporre l’arco. Le faretre sono state usate fin dai tempi antichi da tutti i popoli che hanno fatto uso di archi o simili armi da lancio, e hanno fatto parte dell’equipaggiamento bellico fino al tardo Medioevo, quando le armi da fuoco hanno soppiantato gradualmente archi e balestre. Oggi, le faretre, alla cinta, sono parte dell’equipaggiamento di coloro che praticano il tiro con l’arco. Le faretre moderne sono in genere fatte per contenere 25-30 frecce e spesso sono divise in scomparti. Durante la Guerra dei Cento Anni, veniva usata dagli arcieri inglesi un secondo tipo di faretra, chiamato “sacco di pecora”, che aveva la forma di sacco ed era fatto con pelli di pecora. Tale sacco aveva sul fondo un’intelaiatura, generalmente di legno, grazie alla quale il piumaggio delle frecce, inserite con la punta verso l’alto, così non si rovinavano le medesime. La particolarità del “sacco di pecora” infatti era che le frecce venivano messe al contrario rispetto alla faretra tradizionale, questo perché una volta chiusa l’estremità del sacchetto con un cordino, le frecce non potevano uscire, e così gli arcieri erano liberi di combattere in prima linea con la spada, correre e saccheggiare, senza preoccuparsi di perdere le frecce. Un altro tipo particolare di faretra, di origine orientale, è il turcasso che, come le faretre per il tiro sportivo moderno, veniva portato dagli arcieri turchi agganciato alla cintura e non a tracolla. Parlando di frecce, queste sono simili alle parole che uso ogni giorno, frecce conficcate nella ruvida pelle della realtà del mio quotidiano fardello.
Favria 24.07.2015

Nella vita non devo nascondere le mie fragilità, perché sono loro che rendono unica la mia umanità.