Come si viveva nel ‘300 -Il pomo della discordia. – Il Monte di Pietà. – St. Patrick’s Day, Patrono d’Irlanda. – Giornata della felicità – San Giuseppe la festa dei papà… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Come si viveva nel ‘300 Nel passaggio tra feudo nel secolo XIII e poi nel comune nel

secolo XIV l’organizzazione del lavoro e il rapporto tra campagna e città cambiarono sensibilmente, quasi si ribaltarono. Se prima era la campagna a reggere il sistema economico, con i contadini che lavoravano a vita per la corte, del re o del nobile locale, fornendo cibi e poco altro, con il sorgere dei comuni, l’industria, il commercio e la pubblica amministrazione diventarono i campi principali della produzione della ricchezza. Studiando i vari registri delle attività commerciali, e gli elenchi professionali dei comuni, come ad esempio quello di “Arti e attività di Milano”, compilato da Bonvesin de la Riva per la città meneghina alla fine del XIII secolo e valido sostanzialmente anche per i comuni del XIV secolo, possiamo ricavare i guadagni delle varie attività. La condizione e la ricchezza dei contadini non era cambiata di molto. Il ricavato del loro lavoro era sempre sulla soglia della sussistenza, molto spesso al di sotto. Il reddito annuale del contado fiorentino si aggirava attorno a 70-80 fiorini per famiglia, con il lavoro di almeno tre persone, il che ci porta a un ricavato mensile di 6-7 fiorini. Il fiorino però era un’unità salariale. Nei rapporti commerciali e nei prezzi al dettaglio si parlava di lire, soldi o denari. Un fiorino valeva circa 30 soldi. Il salario mensile di una famiglia, composta da chi lavorava e da chi non poteva, era di circa 180 soldi al mese, 6 al giorno. Allora il costo di un paio di scarpe era di 12 soldi, circa due giorni di lavoro. Inoltre, il contadino doveva pagare di tasca sua attrezzi e sementi. Nella maggioranza dei casi, una famiglia non riusciva ad andare avanti solo col lavoro dei campi. Ecco perché le donne dovevano spesso cercare lavoro in città come domestiche, balie o filatrici. La paga delle domestiche era bassissima (3 fiorini l’anno), ma la famiglia di origine era sgravata dalle spese di mantenimento (cibo e altro). Una balia arrivava fino a 9 fiorini all’anno, vista la responsabilità che il lavoro richiedeva. La maggior parte delle donne che arrivavano a Firenze però cercavano lavoro nel tessile. Nella prima metà del XIV secolo, come scrive Giovanni Villani nella sua Nuova Cronica, Firenze contava circa 100.000 abitanti ed era una delle città più grandi del centro Italia, nello stesso periodo Roma arrivava a poco più di 40.000. Di questi, secondo i registri e i dati di archivio, più di 30.000 erano legati all’industria manifatturiera e al suo indotto. Per passare dalla lana grezza al prodotto finito c’era una catena di 15 passaggi. Filatrici, orditrici, tessitrici, pettinatrici, battitori, conciatori, tintori. Fu in quell’epoca, infatti, che nei comuni più attivi, si svilupparono le Gilde che raggruppavano i vari tipi di lavoratori. Questa differenziazione e specializzazione delle varie fasi lavorative, fece sì che difficilmente un singolo operaio tessile potesse conservare una sua autonomia e aprire una propria bottega tessile. La maggior parte, dunque, erano dipendenti di opifici (le fabbriche tessili del XIV). Gli stipendi degli operai Gli operai stipulavano un contratto a termine e dovevano rispettarlo per la scadenza e la qualità del lavoro. Se lasciavano il lavoro prima della fine del contratto, dovevano pagare una multa di 10 lire, circa 200 soldi, cifra enorme per un operaio. La giornata iniziava col rintocco della campana del podestà, che d’estate suonava al sorgere del sole. D’inverno invece il lavoro iniziava ancora col buio. La fine era sempre al tramonto, con un breve intervallo a mezzogiorno per il pasto. Il lavoro notturno era proibito, sia per la scarsa qualità dei lavori effettuati a lume di candela, sia per la paura di incendi. La paga era in media 8 soldi al giorno, ma in un anno, tolte le domeniche e le feste, si arrivava a 230 giorni di lavoro e si veniva pagati solo se si lavorava. La paga annuale era quindi di circa 1840 soldi, divisi per 365, con un guadagno reale di circa 5 soldi al giorno. Il costo del vitto era di 3 o 4 soldi al giorno. Le famiglie erano sempre a rischio fame o sopravvivenza. Un altro problema era che il salario degli operai era pagato in quattrini, piccole monete di rame, con un cambio sfavorevole rispetto al soldo o al fiorino. Questo rendeva ancora più debole il potere d’acquisto delle famiglie più povere.
Multe e sorveglianza
A colpire ulteriormente il salario dell’operaio concorreva il sistema di multe ed ammende in vigore negli opifici. Se un lavoro non era ben fatto, si infliggevano multe crescenti. La prima volta che una filatura veniva trovata difettosa, la multa era un soldo. Se lo stesso operaio commetteva lo stesso errore, si saliva a due lire, 40 soldi. Un tessitore, livello più raffinato di lavorazione, che non correggeva i punti imperfetti subiva una multa di 5 lire, ben due settimane di salario di allora. Oltre a carenze sul lavoro, le multe venivano inflitte per disubbidienza, mancanza di rispetto, turpiloquio. E, se non si pagava nei tempi, scattavano le more.
Le multe venivano inflitte multe?
Ogni opificio aveva un sistema di sorveglianza, comandato da un “ufficiale forestiere”, così chiamato perché veniva da un’altra città. Doveva avere una formazione giuridica (spesso erano notai) ed erano i garanti della disciplina interna all’opificio. Lo stipendio di un ufficiale forestiere era di 600 lire all’anno, e aveva alle sue dipendenze, a libro paga, una rete di informatori e sorveglianti, che prendevano il 25% di tutte le multe che infliggevano.

Il popolo grasso
Fin qui la vita dei contadini e degli operai. Ma il cosiddetto “popolo grasso”, i benestanti, quanto guadagnavano? Non è facile quantificarlo, perché il XIV secolo è stata un’epoca di vorticosi giri di denaro, con ricchezze che sorgevano e svanivano nel giro di pochi mesi. Ma dai registri delle casate, abbiamo il dato delle spese annuali. In media una famiglia benestante di Firenze spendeva circa 1200 lire all’anno, più di 60 soldi al giorno (laddove, come abbiamo scritto, un operaio ne incassava in media 5 al giorno).
La compagnia dei Bardi
Per renderci conto del giro di denaro osserviamo una delle aziende più ricche della Firenze del XIV secolo: la compagnia dei Bardi. La chiusura del bilancio dell’1 luglio 1318 segna un giro di affari di 873.638 fiorini d’oro, con cento dipendenti salariati distribuiti in 25 filiali (12 in Italia, 4 nel Levante-Medio Oriente, 9 tra Francia, Spagna, Paesi Bassi, Inghilterra e Tunisi), con stipendi che andavano da 5-7 fiorini all’anno per gli apprendisti ai 200 dei direttori delle filiali maggiori e ai 300 dei direttori centrali della sede di Firenze. Se pensiamo che i Bardi erano solo una delle grandi famiglie-compagnie che operavano a Firenze, possiamo renderci conto della ricchezza della città. Se l’industria tessile era quella che occupava il maggior numero di operai, quella edile, anch’essa molto forte, offriva salari migliori. Un capomastro chiedeva, ed otteneva, 30 soldi netti al giorno (sei volte più di un tessile) e gli operai edili potevano chiedere 20 soldi al giorno. A differenza del tessile, però, va detto che il lavoro non era garantito e potevano esistere periodi di disoccupazione. Facendo però un paragone, un operaio edile per arrivare a 1840 soldi doveva lavorare 92 giorni invece di 230. Un altro settore che assicurava un tenore di vita decoroso erano le botteghe artigianali, soprattutto quelle dei fabbri e dei negozianti al dettaglio. Pure in assenza di dati univoci, si può dire che il reddito medio di un bottegaio era tra le 5 e le 10 volte superiore a quello di un operaio (tra i 25 e i 50 soldi al giorno). Tra i più ricchi della città, c’erano i notai e i medici. Secondo Villani, i primi a Firenze erano 600, più dei sacerdoti (in tutto 500) e dei medici (che non arrivavano a 60). Il notaio, ossia l’ufficiale giudiziario che certificava la legalità di atti e transazioni, era indispensabile in una civiltà fondata sul commercio e sulle speculazioni. Per la stesura di un atto, il costo era di un fiorino (30 soldi). Se poi il notaio era alle dipendenze del comune, il salario annuo andava da 300 lire quando era appena assunto, fino a 800 (dopo qualche anno). Ancora più dei notai, i medici incassavano parcelle da favola. È vero che la medicina era ancora legata alla tradizione di Ippocrate e che il medico si limitava spesso a dare consigli di filosofia naturale o di ordine igienico-dietetico, ma quei consigli erano pagati cari. Un consulto a domicilio costava un fiorino d’oro. I medici più famosi, con poche visite o consulti prolungati, potevano accumulare cifre pari all’affitto dei palazzi nobiliari, che arrivavano tra i 40 e i 50 fiorini d’oro all’anno. Come per i notai, poi, se il medico era dipendente del comune, oltre alle visite private, poteva contare su uno stipendio variabile tra le 50 e le 120 lire all’anno. Insomma, nella Firenze di quegli anni non si riconosceva il valore del lavoro, solo i “grandi professionisti”, gli uomini d’affari senza scrupoli e capaci di rischiare, e tutti coloro che riuscivano a far fruttare il denaro, emergevano. Fra questi in particolare gli imprenditori che, sfruttando il lavoro di operai e disperati, cui offrivano un minimo per sopravvivenza, guadagnavano invece grandi cifre per sé
Favria, 14.03.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno i ricordi non sono nostalgia ma la bellezza della vita. Felice martedì

Il pomo della discordia

Si definisce “pomo della discordia” qualcosa che genera disaccordi e dispute. L’espressione deriva dal mito greco. Si narra infatti che Eris, dea della discordia, furiosa per essere stata esclusa dal banchetto di nozze di Peleo e Teti incise, per vendicarsi, sulla mela d’oro presa nel giardino delle Esperidi la frase “Alla più bella” e la lanciò di nascosto sul tavolo imbandito per la festa, causando così una lite furibonda tra Era, regina degli dei, Afrodite, dea della bellezza, e Atena, dea della saggezza. Incapaci di stabilire chi fra loro fosse la più avvenente, le dee si recarono da Zeus il quale preferì astenersi dall’esprimere il suo giudizio per affidare l’ingrato compito ad un mortale. La scelta ricadde su Paride, giovane principe di Troia, in quanto aveva fama di essere abile e giusto. Le tre dee tentarono dunque di ingraziarselo offrendogli ciascuna una lauta ricompensa: Atena lo avrebbe reso sapiente e invincibile in guerra, Era ne avrebbe fatto un uomo ricco e potente, Afrodite gli avrebbe concesso l’amore della donna più bella del mondo. La scelta di Paride cadde su Afrodite, che in cambio lo aiutò a rapire la splendida Elena, moglie del re di Sparta Menelao. Il gesto spinse quest’ultimo a rivalersi sulla patria del giovane scatenando un conflitto lungo, aspro e sanguinosissimo: la guerra di Troia.

Favria, 15.03.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Non dobbiamo parlare dell’arco della vita ma linea della vita, perché nel mezzo del cammino non giungiamo all’apice  ne dopo abbiamo una discesa. la vita è una meravigliosa linea retta.  Felice mercoledì.

Il Monte di Pietà.

I primi Monti di Pietà sorsero nell’Italia Centro-settentrionale: si ritiene comunemente che la più antica struttura in qualche misura riconducibile all’idea di un Monte sia quella di Ascoli Piceno, fondata il 15 gennaio 1458, sebbene si presentasse con caratteristiche un po’ diverse dai veri e propri Monti perché aveva lo scopo di accentrare la raccolta di elemosine da distribuire poi ai poveri della città. La denominazione Monte di Pietà deriva dall’unione di due termini: Monte indicava, nel linguaggio finanziario dell’epoca, un istituto o un luogo di raccolta di denaro, mentre Pietà si riferisce all’Imago Pietatis, ovvero la rappresentazione di Cristo che si erge dal sepolcro, talvolta affiancato da angeli o da Maria e Giovanni dolenti, conosciuta anche come Cristo in Pietà, frequentemente utilizzata come insegna dai Monti per rappresentare efficacemente e diffondere lo scopo caritatevole dell’istituto. I Monti di Pietà nacquero con il preciso scopo di concedere prestiti gratuiti o a condizioni favorevoli, in cambio di un pegno, liberando le classi meno abbienti dalle maglie dell’usura che già a quel tempo affliggeva la società. Secondo la morale cristiana, era considerata inammissibile l’imposizione di un tasso di interesse ed il reato di usura era addirittura equiparato a quello di eresia. Per questo motivo gli Ebrei, non essendo vincolati dal precetto evangelico, furono i primi a sviluppare questo tipo di attività finanziaria, che ben presto divenne anche la loro principale. Di qui ecco spiegato anche l’altro scopo dei francescani: contrastare e soppiantare il monopolio della comunità ebraica. Il funzionamento era semplice: chi aveva necessità di denaro depositava un oggetto presso il Monte di Pietà che lo stimava e proponeva una somma al richiedente. Il Monte si incaricava di custodire l’oggetto per un anno, trascorso il quale il proprietario poteva riscattarlo versando una somma pari a quella che gli era stata offerta, maggiorata della percentuale richiesta, rientrando così in possesso del proprio oggetto. Nel caso in cui il bene non fosse stato riscattato, il Monte aveva il diritto di rivendere l’oggetto e se la vendita avesse fruttato un importo maggiore di quanto consegnato al proprietario, una percentuale precedentemente concordata sarebbe stata trattenuta dall’istituto, mentre la rimanenza sarebbe andata al proprietario. Il basso tasso di interesse richiesto dai Monti di Pietà (solitamente il 5-10%, all’epoca considerati tassi molto contenuti nella formulazione di transazioni commerciali) costituiva il punto di forza dell’istituzione perché doveva necessariamente essere concorrenziale rispetto a quello imposto dai banchi ebraici (che oscillava tra il 20 e il 30%). L’istituzione dei Monti di Pietà si diffuse soprattutto nel XVI secolo, ovvero dopo che Papa Leone X, con la bolla INTER MULTIPLICES del 4 maggio 1515 prodotta nel Concilio Lateranense V, riconobbe la legittimità dei Monti di Pietà, lodandone gli scopi “buoni e necessari alla società” e dichiarando la legalità del modesto onere finanziario, ovvero il tasso di interesse, purché l’onere fosse limitato alla sola copertura delle spese di gestione.

Favria,  16.03.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Dietro ad ogni problema esiste un’opportunità. Felice giovedì.

St. Patrick’s Day, Patrono d’Irlanda.

San Patrizio è il patrono dell’Irlanda, che festeggia la ricorrenza ogni anno il 17 marzo , a Chicago la locale comunità irlandese lo festeggia colorando di verde un fiume. Ma chi era, davvero San Patrizio? Il vero nome di San Patrizio era Maewyin Succat, visse tra il 385 e il 461 ed era di origini scozzesi. A sedici anni fu rapito dai pirati irlandesi e venduto come schiavo a re Dalriada, sovrano di un regno che allora comprendeva parte della Scozia e dell’Irlanda.  Fuggito dalla corte, il giovane si fece diacono col nome latino di Patrizio e divenne poi vescovo. A lui papa Celestino I affidò il compito di evangelizzare le terre irlandesi: il futuro santo lo svolse con grande impegno, favorendo la contaminazione tra elementi cristiani e celtici pagani. San Patrizio è collegato anche al simbolo dell’Irlanda, il trifoglio. Per spiegare agli irlandesi la Trinità (un unico Dio, in tre Persone e non tre Dio), Patrizio utilizzò proprio il trifoglio. Si racconta che Patrizio pregasse in una caverna molto profonda nell’isolotto lacustre di Lough Derg, nella contea irlandese di Donegal. Secondo la leggenda, talvolta spingeva i fedeli ad avventurarsi in essa perché potessero vedere con i loro occhi l’ingresso dell’inferno. Oggi con l’espressione “pozzo di san Patrizio” si indica una riserva misteriosa e infinita di ricchezze. Una leggenda vuole che sia stato proprio Patrizio a scacciare i serpenti dall’Irlanda. Nel 441, al termine di un digiuno di 40 giorni e 40 notti sul monte Croagh Patrick, il santo avrebbe scagliato una campana da una montagna, facendo fuggire per il frastuono tutti i serpenti. Più probabilmente, però, l’assenza di questi rettili è dovuta all’ultima era glaciale, terminata circa 12.000 anni fa. Per gli scienziati, il freddo avrebbe tenuto lontano i serpenti fino al disgelo, quando l’Irlanda era ormai diventata un’isola. A quel punto, coi mari circostanti, per loro sarebbe stato impossibile raggiungerla. Gli studiosi però non sono tutti d’accordo sulla situazione precedente all’era glaciale: per alcuni i serpenti non ci sarebbero mai stati, nessun fossile è stato trovato, per altri si sarebbero estinti a causa del freddo.

Favria, 17.03.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Vi auguro che abbiate la salute, qualche soldino e il cuore leggero,
che la fortuna si prenda cura di Voi giorno e notte. Felice venerdì.

Giornata della felicità

La   Giornata si festeggia, a partire dal 2013, il 20 marzo di ogni anno, giorno che corrisponde all’equinozio di primavera. Così come l’avvento di questa stagione viene festeggiato da tante e diverse popolazioni, l’allora consigliere dell’ONU Jayme Illien ha ritenuto adeguato far coincidere la celebrazione di un desiderio altrettanto universale e condiviso, quello della felicità. Attraverso l’istituzione di questa giornata, l’assemblea dell’ONU si fa portavoce della consapevolezza dell’importanza di rispettare il diritto alla felicità, alla quale ciascuno deve ambire ogni giorno. Gli esseri umani da sempre si pongono l’interrogativo come essere felici nella vita. Ma  che cosa è davvero la felicità? A questa domanda ognuno di noi ha la sua idea personale di cosa sia questa emozione.  Pensiamo che la nostra vita è un’opera d’arte,  che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo, come ogni artista, quale che sia la sua arte e ogni giorno superare le difficili sfide della vita. Ogni giorno dobbiamo scegliere obiettivi e cercare di risolverli. Ogni giorno dobbiamo tentare l’impossibile trasformando ogni occasione in una opportunità. Ogni giorno la speranza e la passione sono la nostra umana benzina dove l’incertezza è l’habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane. Sfuggire all’incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità autentica, adeguata e totale sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi, come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso. La felicità è legata ai nostri rapporti con gli altri: più riusciamo a vivere una vita ricca di relazioni soddisfacenti, più felici saremo. Secondo gli scienziati che hanno analizzato le azioni che caratterizzano gli uomini contenti della propria esistenza, sembra  se siamo generosi con gli altri, grati per la vita che abbiamo, imparare la difficile arte del perdono. Per essere felici dobbiamo provare le sensazioni positive prima elencate, impegnandoci ogni giorno a migliorare la nostra condizione fisica e spirituale. Nella vita possiamo essere felici con poco,  e sicuramente  stare bene con noi stessi e il sentimento della gratitudine ci può aiutare. Personalmente sono felice se aiuto gli altri con i piccoli gesti quotidiani.

Favria, 18.03.2023  Giorgio Cortese

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Buona giornata. Non c’è azione in questa vita cosi impossibile che non possiamo compiere. la nostra quotidiana esistenza deve essere vissuta sempre come un grande atto eroico. Felice sabato.

San Giuseppe la festa dei papà.

La festa del papà ha origine nei primi decenni del XX secolo, per festeggiare la paternità e i padri in generale. Alla fine dell’Ottocento la Chiesa Cattolica proclamò San Giuseppe, festeggiato proprio il 19 marzo, protettore dei padri di famiglia e patrono della Chiesa universale. “In Giuseppe hanno i padri di famiglia il più sublime modello di paterna vigilanza e provvidenza; i coniugi un perfetto esemplare d’amore, concordia e fedeltà coniugale […]”, sono le parole di papa Leone XIII che racchiudono il significato di questa ricorrenza. Non in tutto il mondo la festa del papà si festeggia oggi, in Serbia si celebra il 6 gennaio, nei Paesi che seguono la tradizione anglosassone la terza domenica di giugno. In Nuova Zelanda e in Australia questa festa viene celebrata la prima domenica di settembre. Il dolce che celebra la Festa del papà a Roma è il bignè di San Giuseppe dolce fritto e ripieno di crema. A Napoli sono tipiche le zeppole di San Giuseppe, mentre in Umbria e in Toscana il 19 marzo si mangiano le frittele di riso. In Sicilia si mangia la Sfince di San Giuseppe, una frittella morbida ripiena di ricotta di pecora e scorze d’arancia, in Lombardia e in altre regioni del Nord Italia sono tradizionali i tortelli di San Giuseppe.  Se è vero che tutti  gli uomini possono avere un figlio, ma solo le persone speciali possono essere dei veri  papà. Ed allora per la Per la festa del papà un augurio generale, pilastro della vita per la famiglia fondamentale, certezza e garanzia per i figli, cresciamo e ci miglioriamo con i suoi consigli. Il padre ci padre protegge in un abbraccio sicuro e ci aiuta ad abbattere qualsiasi muro, lo abbiamo vicino quando la vita ci tira i sassi e ci resta  accanto guidando i nostri passi. Il papà amore supremo e straordinaria immensità auguri sinceri a tutti i papà.

Favria, 19.03.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Un augurio speciale a tutti i papà che non ci sono più, che guidano i passi dei propri figli, anche dal cielo e ci guardano da lassù. Per tutti i papà… Auguri! Felice domenica