Da bukon a lisciva – Fanzine & samizad! – Scripta manent La soluzione finale – Res Gestae favriesi, le truppe provinciali e l’ora di Francia di Giorgio Cortese

Ogni giorno penso che la migliore parte di vita è quella che ancora devo vivere.Da bukon a lisciva
La lisciva o liscivia, popolarmente denominata lisciva, anticamente lìscia, è una soluzione liquida, ottenuta dalla semplice bollitura di cenere di buona qualità setacciata. In italiano classico liscivia, lisciva in quello popolare, è un vocabolo che deriva dal latino tardo lixivia, con il significato di acqua mista a cenere. Questa, in parole povere l’etimologia di lixivia che in latino era detta anche lixivium. Pare che i primi saponi siano stati ottenuti facendo interagire la liscivia su grassi come l’olio d’oliva oppure il sego, cioè il grasso animale ricavato soprattutto da bovini e ovini. Tale processo prende il nome di saponificazione. Con la lisciva, in passato, si utilizzava, soprattutto per lavare e sbiancare i tessuti, ma anche per tutte le altre pulizie casalinghe e, estremamente diluita, anche per la pulizia di tutto il corpo, grazie al suo potere detergente, sgrassante e disinfettante e al delicato e piacevole odore che rilascia. Come accade per una qualunque ricetta, anche nel caso della lisciva esistevano ed esistono varie ricette e procedimenti differenti a seconda del ‘cuoco’ e dell’utilizzo a cui era destinata. La lisciva è un detersivo naturale, ottenibile con un procedimento ‘casalingo’ semplice, che non richiede impianti imponenti e lavorazioni complesse e che per questo rappresenta per l’ambiente un carico di entità bassissima…che potrebbe ulteriormente diminuire se per la cottura si utilizzasse un forno solare, in estate, o una cucina economica, un camino che nei mesi invernali sarebbero comunque accesi ed il cui calore andrebbe altrimenti disperso. Certo una volta c’erano meno lavaggi della biancheria di oggi, il bucato del bianco, lenzuola, strofinacci, tovaglie, asciugamani, veniva fatto una volta al mese. Direte che era poco, ma la fatica era tanta. La donna di casa ci impiegava tutta la giornata e doveva esserci un bel sole. Se non si lavava al lavatoio ma in casa con la tinozza si iniziava portando a casa l’acqua , si faceva una prima passata alla biancheria con spazzola, sapone e molto olio di gomito. Poi questa a biancheria appena strofinata veniva messa in un mastello e la si ricopriva con un vecchio lenzuolo che doveva proteggere i panni .Sopra il lenzuolo veniva messa la cenere che ha un potere sbiancante e sgrassante. Poi sopra si buttava dell’acqua molto calda per riempire il mastello. Il bucato rimaneva nel mastello tutta la notte nella “lisciva”. Tolto dal mastello ,il bucato veniva risciacquato e strizzato. Le donne sbattevano energicamente i panni. I detersivi erano sapone, saponina, sapone in scaglie,,cenere, soda, varechina, aceto. L’abitudine ad adoperare la liscivia è molto antica L’uso della cenere è documentato fino dai tempi dei Romani, e si conserva per tutto il medioevo ed il Rinascimento con note presenti a titolo esemplificativo anche in testi poetici. Dai paesi del nord Europa viene poi l’uso di aggiungere materiale grasso animale o vegetale per ottenere così un rudimentale sapone. Per quanto riguarda il lemma bucato, la la prima attestazione di bucato “lavaggio e imbiancatura dei panni con acqua molto calda”, originariamente con l’aiuto della lisciva di cenere, poi con altri tipi di detersivi, nella variante bocato nel medioevo. Il lemma deriva dal germanico bukon, che significa lavare con la lisciva. Pare che questa parola sia figlia del contatto tra i legionari romani posti sui confini ed i popolo germanici, considerati dei barbari dai latini. Anche i soldati dovevano in qualche modo lavarsi i panni e probabilmente appresero il sistema basato su acqua calda più lisciva dai “barbari” germanici.
Favria, 18.1.2015 Giorgio Cortese

Ritengo che siamo stati creati per vivere ogni istante della vita con entusiasmo, generosità e gratitudine

Fanzine & samizad!
Fino agli anni ottanta del ventesimo secolo, la stampa a ciclostile si legava in modo indissolubile alla pratica delle fanzine o dei samizdat, prima di venire rapidamente sostituita dalla fotocopie. Il termine inglese fanzine nasce dalla contrazione delle parole fan, da fanatic, appassionato e magazine, rivista,, e può essere tradotto in italiano come rivista amatoriale. Indica le riviste non professionale e/o non ufficiali, realizzate da appassionati di qualche particolare genere o fenomeno culturale (quali possono essere letteratura, musica, fumettistica, ecc.) e rivolte a un pubblico specifico. Il termine venne coniato nell’ottobre 1940 per una fanzine di fantascienza da Russ Chauvenet. Normalmente gli editori, direttori e redattori degli articoli o gli autori delle illustrazioni delle fanzine, non ricevono alcun compenso finanziario. Le fanzine circolano infatti gratuitamente o per un prezzo nominale, al fine di ammortizzare le spese di spedizione o di produzione. Vengono spesso scambiate con pubblicazioni similari o date in cambio di contributi, articoli o commenti, pubblicati sulle stesse. Alcune fanzine si sono in seguito evolute in pubblicazioni professionali, talvolta chiamate prozine, contrazione di professional fanzine, e molti scrittori professionisti hanno iniziato scrivendo sulle fanzine. Alcuni di essi anzi, hanno continuato a scrivere e produrre fanzine anche in seguito alla loro affermazione come professionisti. Dalla fine degli anni novanta le fanzine tradizionali stampate su carta hanno cominciato a cedere il passo alla cosiddette webzine o e-zine, che sono più facili da produrre, non richiedendo alcun impegno economico nella stampa, e la diffusione attraverso internet ne consentono una ampia diffusione, a livello praticamente globale. Nonostante ciò alcune fanzine stampate vengono ancora prodotte, sia per una più agevole lettura, sia per raggiungere persone che non hanno accesso alla rete. Samizdat è una parola russa che significa, “edito in proprio”, e indica un fenomeno spontaneo che esplose in Unione Sovietica e nei paesi sptto la sua influenza tra la fine degli anni cinquanta e o promo anni sessanta. In pratica consisteva nella diffusione clandestina di scritti illegali perché censurati dalle autorità o in qualche modo ostili al regime sovietico. In tale periodo, quello che era un fenomeno spontaneo e irregolare fece un salto qualitativo e divenne una sorta di canale di distribuzione alternativo. Fu il principale “strumento”, e quasi l’unico, che il nascente dissenso si diede per poter vivere e comunicare, al punto che talvolta è identificato con esso. Il samizdat sovietico è stato un fenomeno unico nel suo genere. Riprodurre in proprio, a mano o con la macchina per scrivere, raramente col ciclostile, dei testi che la censura di stato non avrebbe mai fatto passare non era un’attività che riguardasse solo la letteratura, anzi, in esso confluirono all’inizio documenti di ogni genere, materiali segreti, proteste e appelli, versi, romanzi, saggi filosofici. Ma alla fine degli anni cinquanta l’uso di riprodurre in proprio i testi e di diffonderli assunse una consapevolezza precisa e si diffuse a macchia d’olio. Il meccanismo era semplice: l’autore scriveva il testo facendo alcune copie con la carta carbone, poi le distribuiva agli amici; se questi lo trovavano interessante lo distribuivano a loro volta raggiungendo così gli angoli più remoti del paese. Nonostante la mancanza assoluta di guadagni e gli evidenti rischi, al samizdat non mancarono mai autori interessanti e diffusori pieni di abnegazione. Grazie al fatto di richiedere strumenti tecnici semplicissimi era l’unico mezzo praticabile in Unione Sovietica per aggirare il monopolio statale sulla circolazione delle idee e delle informazioni. I fascicoli del samizdat passavano rapidamente di mano in mano, e capitava di avere in lettura un testo per una sola notte, perché la lista d’attesa era lunghissima. Allora il fortunato passava la notte in bianco, immerso nella lettura, e magari invitava gli amici a partecipare. Per dirla con le frasi del poeta Bukovsky: “.. non aspettavamo una vittoria, non ci poteva essere la minima speranza di vittoria. Ma ognuno voleva avere il diritto di dire ai propri figli: “Io ho fatto tutto quello che ho potuto!”
Favria, 19.01.2015 Giorgio Cortese

Gli eventi, le circostanze e le persone che incontro durante il mio quotidiano cammino sono degli utili ingredienti per fare maturare il mio animo.

Scripta manent La soluzione finale
Il 20 gennaio a Berlino, si svolse un incontro in una villa sita lungo la riva del fiume Wannsee, da cui il nome di Conferenza di Wannsee, cui parteciparono quindici alti ufficiali nazisti, per decidere come attuare la “soluzione finale” della questione ebraica, ossia come eliminare del tutto gli Ebrei ancora in vita dopo la persecuzione iniziata già da qualche anno all’interno del Reich, l’Impero tedesco. Il ricorso a fucilazioni di massa fu scartato, soprattutto perché l’operazione doveva restare segreta. Pertanto si optò per l’uso dei gas tossici in campi di concentramento chiusi, e quindi al riparo da possibili, scomodi, testimoni. Da quel momento, treni carichi di Ebrei e non solo cominciarono a viaggiare dalle varie zone dell’Europa occupata dai Nazisti verso campi di sterminio costruiti appositamente. Per la prima volta nella storia, degli uomini distrussero altri uomini come parassiti, solo perché, secondo l’assurda ideologia nazista, essi erano considerati appartenenti a una razza “inferiore”, di cui ci si doveva liberare per la formazione della “razza pura” voluta da Hitler. Nei lager, ufficiali delle SS e medici tedeschi dividevano i nuovi arrivati in prigionieri abili e inabili al lavoro, i secondi venivano immediatamente condotti nelle camere a gas, camuffate da sale da doccia, mentre gli altri erano avviati ai lavori forzati. Il 1° novembre 1944 fu deciso invece la “gasatura” per la totalità degli Ebrei. Oltre agli Ebrei, nei campi di sterminio nazisti furono uccise con i gas anche altre categorie di persone considerate “inferiori”: testimoni di Geova, zingari, omosessuali, portatori di handicap, malati di mente, immigrati, nonché prigionieri di guerra e dissidenti politici. In totale, secondo le più recenti stime, vi furono massacrate da uno a due milioni di persone. Il campo di sterminio principale fu quello di Aushswitz, che dal 1979 è Patrimonio dell’umanità.. Ho scritto questo per non dimenticare mai la barbarie e la follia di noi esseri umani
Favria, 20.1.2015 Giorgio Cortese

La forza che mi aiuta a colmare il vuoto interiore del mio animo creato dalla paura è generata dall’amore fraterno verso le persone che mi circondano.

Res Gestae favriesi, le truppe provinciali e l’ora di Francia
Si chiamavano in Piemonte con questo nome truppe reclutate nelle provincie, che facevano un servizio prevalentemente territoriale, ma che potevano anche essere chiamate a prender parte a campagne di guerra. Con queste truppe si costituirono interi reggimenti. Si ebbero i reggimenti provinciali dello Chablais, di Tarantasia, di Nizza, di Aosta, di Torino, di Vercelli, di Mondovì, d’Asti, di Pinerolo, di Casale, istituiti tutti con decreto 24 settembre 1713. Nel 1752 furono istituiti i reggimenti provinciali di Novara e di Tortona; nel 1786 quelli di Susa e di Acqui, che presero parte alle campagne contro la Francia. Tutti questi reggimenti furono sciolti nel 1798; alcuni battaglioni furono in servizio della Repubblica piemontese, poi della Francia; ripristinati di nuovo col nome di reggimenti provinciali, nel 1814, furono sciolti l’anno seguente, essendosi incorporate le truppe nell’esercito attivo. In seguito, e fino alla campagna del 1818, fu dato in Piemonte il nome di “provinciali” agli uomini di terra destinati a ferma ridotta, mentre quelli destinati a lunghe ferme, e a costituire, perciò, il vero nucleo dell’esercito permanente, furono chiamati “d’ordinanza”. Questo premabolo serve per parlare del Reggimento di Susa dove venivano mandati i favriesi di allora. In un manifesto del 20.05. 1796 c’è la chiamata alle armi della Comunità di Favria da parte di D. FILIPPO VALENTINO ASINAR, MARCHESE DI S. MARSANO, E DI CARAGLIO, CONTE DI COSTIGLIOLE, CARTOS, E CASTELLETTO VAL D’ERRO, CAVALIERE DEL SUPREMO ORDINE DELLA S.S. ANNUNZIATA, GRAN CROCE, E COMMENDATORE DELLA SAGRA RELIGIONE DE’ SANTI MAURIZIO, E LAZZARO, GENERALE DI CAVALLERIA, E GOVERNATORE DELLA CITTA’. E PROVINCIA DI TORINO. Ecco il testo: “Le Terre, e Luoghi al piè del presente descritti in persona de’ loro Sindaci, ed Amministratori divendo provvedere al Reggimento provinciale di Susa a norma del nuovo sistema stabilito per i Reggimenti provinciali, ed in rimpiazzamento de’ mancanti alle rispettive loro quote il numero de’ soldati pure infra a caduna d’esse annotati, dovranno immediatamente alla ricevuta della presente divenire alla nomina d’altrettanti soggetti abili, e capaci, e nelle famiglie più numerose di soggetti al Regio servizio militare, con presentargli quindi avanti questo nostro Governo di Torino nel giorno, ed ora caduna infra prefissi, per venir successivamente mandati all’assento, accompagnati però da uno degli Amministratori deputati dal Consiglio per risponderne dell’identità; portando esso deputato copia autentica dell’atto di nomina, lettere di precetto, e relazione d’intimazione per valersene nel caso di renitenza; il tutto a norma del Regio Editto 4 marzo 1737, e sotto le pene di esso prescritte. Notifichiamo intanto alle suddette Comunità, che essendosi separate di quota vari d’esse, le quali per lo addietro somministravano unitamente un dato numero di soldati, non avranno più d’or in avvenire a contemplare le precedenti unioni; bensì dovranno far le elezioni, e nomine sovra tutto il rispettivo loro territorio, e sovra quello de’ feudi, o tenimenti non formanti corpo di Comunità, che si son loro aggregatiti. Che le Comunità, alle quali si son aggregati feudi, o tenimenti, dovranno ripartire la totale loro quota con tutta giustizia, ed equità in proporzione del rispettivo numero de’ maschi; ben inteso però, che se un feudo, o tenimento non avesse al tempo de’ rimpiazzamenti alcun soggetto abile, debbano nominre ove vi saranno soggetti abili. Occorrendo, che i Particolari di qualche tenimento, o feudo, i quali prima avevano una quota separata, oppure i Vassalli medesimi temessero di essere pregiudicati nella loro indipendenza per le nomine, che si avrannoi a fare tanto dalle Città, quanto dalle Comunità, cui si sono aggregati, siccome a tenore del tit. I. S. 3. del regolamento de’ Pubblici non perdono la loro indipendenza per essere aggregati alle vicine Comunità per l’economica amministrazione, non la perderanno neppure per la nomina de’ soldati. Ricordiamo per ultimo a tutti, ed a caduno de’ Pubblici nella circostanza delle nomine, di doverle fare con tutta l’integrità, e giustizia, e senza la menoma parzialità., ed usare tutta la maggior loro sollecitudine, e zelo, così esigendo il premuroso Regio Servizio, e per non rendersi presso di Noi contabili delle pene prescritte dal citato Editto 4 marzo 1737.2 In riferimento a questo Manifesto di chiamata per le truppe Provinciali la Comunità di Favria doveva nominare in rimpiazzamento de’ mancanti alla sua quota soggetti n. Tre e presentarli alla mattina de’ 12 prossimo luglio a ore nove di Francia. Nella vita civile e fino al XVII secolo ed oltre si utilizzò quasi sempre il tempo solare, detto vero,, determinato da due passaggi consecutivi del sole al meridiano, mezzodì , il quale si divide in 24 ore solari, suddivise il 60 minuti di 60 secondi cia-scuno, poi sostituito dal tempo solare medio giorno civile o tempo civile, computato da mezzanotte a mezzanotte. Le ore così computate da mezzanotte a mezzogiorno e poi di nuovo da mezzogiorno a mezzanotte furono dette ore galliche, ossia francesi, o equinoziali. La Germania, la Spagna e quasi tutte le nazioni europee vi si adeguarono. L’antico uso di contare le ventiquattro ore del giorno alla francese, cioè separatamente dalla mezzanotte al mezzodì, in altri termini la divisione del quadrante dell’orologio in dodici ore, si diffuse in Italia nel XVIIII sec.E in questo aiutò molto la tecnologia. Nel passato si misuravano le ore mediante le ombre proiettate dal sole nel nel suo moto apparente (meridiane) o tramite il lento scorrimento dell’acqua o della sabbia in appositi recipienti, clessidre, o anche dal tempo necessario per bruciare un pezzo di corda, per consumare una candela o l’olio di una lucerna. L’esigenza della società di una maggiore precisione nel determinare il tempo dette origine all’orologio meccanico, caratterizzato da ore necessariamente equinoziali, ossia ventiquattro ore della stessa lunghezza, sicché tutto il mondo civile pose l’origine del giorno solare medio alla mezzanotte del tempo medio. Ci fu però un periodo di sovrapposizione in cui i due sistemi – ore d’Italia e ore di Francia (o di Spagna, di Spagna come si diceva nel regno borbonico) – convissero se-condo le esigenze. E per poter interpretare i documenti è d’uopo determinare le ore d’Italia innanzi indicate, rapportandole al sistema delle ore di Francia, avvertendo che al momento della scomparsa del sole all’orizzonte marino sarebbero mancati 30 minuti circa all’ora zero. Secondo la tabella riportata dal regolamento postale in vigore nel 1838 le ore 9, 11, 16, 20 e 24 d’Italia corrispondevano rispettivamente alle ore, 3.30, 5.30, 10.30, 14.30 e 18.30 di Francia. Questo orario puó ritenersi valido considerando il tramonto del sole, cioè la fine del giorno e l’inizio del nuovo, alle ore 18 – 18.30 di Francia. Le ore 18 sono la media di tutto l’anno, poiché sappiamo che le ore d’Italia variavano secondo le esigenze a causa della diversa durata della luce solare, onde in estate l’avemaria cadeva, e cade, alle ore 20 massimo e il vespero alle ore 17, mentre in inverno l’avemaria cadeva alle ore 17 minimo e il vespero alle ore 143. Cosicché in estate le ore 24 di Francia (la nostra attuale mezzanotte) corrispondevano alle ore 6 d’Italia e le ore 12 (l’attuale mezzodì) alle ore 16 d’Italia, in inverno invece le ore 24 di Francia (o di Spagna) corrispondevano alle ore 7 d’Italia e le ore 12 alle ore 17 d’Italia. Per maggior chiarezza si riproduce il simulacro di un quadrante di orologio del se-colo XVIII in cui, nei due cerchi concentrici, sul più piccolo sono segnate in cifre le ore d’Italia e sul più grande in numeri romani le ore di Francia (o di Spagna). Ma sempre con mezz’ora di variabile, poiché in estate l’avemaria suonava alle ore 19.30-20, la nostra mezzanotte cadeva alle ore 5.30-6 d’Italia e il nostro mezzodì alle ore 18 d’Italia. In inverno l’avemaria suonava alle ore 17.30-18 e di conseguenza la nostra mezzanotte cadeva alle ore 7.30-8 d’Italia e il Mezzodì alle ore 19.30-20 d’Italia. Volendo completare l’assunto riproponiamo anche la tavola orario del Banco di Pietà per l’anno 1696 tradotta in ore di Francia, avvertendo che le stesse sono riportate in corsivo e sono state calcolate secondo il “Calendario della Corte”. Lo stesso orario osservava il Monte di Pietà ad eccezione di una mezz’ora in più osservata per la chiusura nella mattinata della prima quindicina di Marzo e aprile e della seconda quindicina di maggio. Nei mesi di giugno/dicembre la chiusura era prevista mezz’ora dopo sia la mattina che il pomeriggio.
Favria 21.1.2015 Giorgio Cortese