Elogio al carpione, scapece. – Le signature – San Lorens, l’uva a tens! – Viaggio in treno. – Nicaea fidelis – Dove sei? – Pomona… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Elogio al carpione, scapece Carne, verdure, uova: non c’è alimento che non

possa essere preparato in carpione. E i contadini piemontesi lo sapevano molto bene. Si parla di cucina piemontese e subito l’immaginazione evoca brasati, agnolotti, bolliti, la bagna càuda e i fritti, tutti piatti che sembrano fatti apposta per affrontare con rinnovata e calorica energia i rigori dell’inverno ai piedi delle Alpi. Il Piemonte però è anche la patria di una ricetta estiva nata apposta per non rinunciare alle gioie del palato anche nei giorni più caldi: il carpione. Si tratta di una marinatura composta da aglio, aceto, cipolle, salvia, il tutto annegato nell’olio extravergine e con cui vengono lasciate riposare e poi servite fredde zucchine e cotolette di vitello o di pollo, rigorosamente fritte, oppure uova sode o in camicia. La domanda però nasce spontanea: ma perché chiamare questo condimento “carpione”? Non è chiarissima l’etimologia della parola. Secondo alcuni esperti deriva dal termine popolaresco “carpiò” con cui veniva anticamente chiamato un particolare tipo di trota caratteristica del Lago di Garda. Questo pesce veniva fritto e poi conservato con una marinatura a base di aceto. Un’altra ipotesi punta sull’assonanza tra le parole carpione e carpa. La nostra marinatura, con la presenza dei sapori forti dell’aceto, dell’aglio e della cipolla, sarebbe stata quindi usata da tempo immemorabile per togliere il caratteristico retrogusto di fango che spesso accompagna le carpe. Dai pesci il condimento sarebbe arrivato ad accompagnare tutt’altri cibi. Con molta probabilità il carpione deriva da antiche marinature a base soprattutto di aceto e sale, che venivano usate fin dall’epoca romana e poi ancora nel Medioevo per conservare più a lungo gli alimenti in epoche in cui non esistevano frigoriferi e freezer. Non a caso la parola “marinare” deriva, secondo alcuni linguisti, dal termine latino muria, che indicava la salamoia, o l’acqua salata. Per altri esperti invece “marinare” rimanda direttamente al mare. Già nel Trecento, per esempio, i marinai di Venezia usavano conservare pesci cotti ai ferri e alla brace (come le sarde) con la salsa in saor, cioè con un condimento di aceto e cipolla a cui venivano aggiunti ingredienti che rimandavano ai traffici commerciali con l’Oriente dei veneziani: miele, mandorle, chiodi di garofano, cannella e coriandolo. Altre fonti affermano che sarebbero stati gli Arabi a diffondere nel Mediterraneo la marinatura per conservare gli alimenti, prima di tutto nei porti liguri. E dalla Liguria al Piemonte il passo è veramente breve. Oggi il carpione si trova nei menù di molti ristoranti stellati come accompagnamento persino del baccalà, che con il Piemonte c’entra poco, anzi nulla. Per tradizione era però un piatto popolare, rustico, diffuso fino alla metà del Novecento soprattutto nei paesi del Canavese. Chi aveva lavorato nei campi per tutto il pomeriggio estivo e sapeva di dovere continuare a farlo fino al tramonto del sole solitamente si rifocillava attorno alle 17 con la marenda sinoira, dove sinoira è termine dialettale per dire “prima di cena”. Erano merende sostanziose a base di salumi, carni, barbera e in cui i cibi in carpione, che conservavano intatto il loro sapore anche quando il sole batteva a picco, la facevano da protagonisti. Anzi, per i contadini più poveri era già una festa andare nei campi con solamente un piatto di carne, uova o verdure in carpione, il tutto avvolto in un grande canovaccio, ragion per cui si parlava di marenda ant el fassolet, cioè “merenda nel fazzoletto”. Il carpione si è diffuso a macchia d’olio prima nelle città del Piemonte e poi in molte zone dell’Italia Settentrionale, con i cambiamenti del Novecento che hanno portato molte famiglie contadine a spostarsi nei centri urbani. Gli uomini andavano in fabbrica mentre le donne trovavano spesso impiego come domestiche e cuoche nelle famiglie della buona borghesia cittadina, facendo così scoprire le delizie del carpionare. Ben presto il carpione divenne tipico dei pranzi, delle merende e delle cene consumate d’estate sotto i pergolati delle osterie e delle bocciofile, accompagnato con tomini piccanti e barbere di quelle schiette. Il carpione era quindi una sorta di testimone che veniva passato dal mondo contadino e rustico delle campagne a quello industriale e caotico delle città. Già nel racconto Vittoria (1929) dello scrittore e regista, nonché celebre esperto di cucina, Mario Soldati l’odore di zucchine in carpione proveniente dalle cucine era presentato come emblema di quella piccola borghesia dell’Italia del Nord che faticava a dimenticare il passato agreste e annegava la propria nostalgia nell’ennesima frittura marinata all’aceto.  Scendendo lungo la Penisola il carpione lascia il posto alla scapece, una preparazione che prevede anch’essa alimenti fritti e poi conservati in una marinatura a base di aceto, vino, menta, zafferano, alloro e pepe in grani. Secondo gli esperti la scapece è una marinatura di discendenza araba, che è stata poi rielaborata nei secoli dalle tradizioni culinarie della Spagna, del Portogallo e dell’Italia. Non a caso “scapece” arriva al dialetto napoletano dallo spagnolo escabeche, che significa “salsa all’aceto” ed è un’alterazione di un termine arabo che originariamente indicava un sugo di carne con aceto. In Italia la scapece è imparentata con lo scabeccio della Liguria, pesce infarinato e fritto fatto marinare almeno un giorno in aceto, olio, sale, aglio, cipolle e rosmarino. Lo spagnolo escabeche è invece diffuso in tutti le nazioni che hanno conosciuto la dominazione della Spagna ed è la marinatura acida tipica per accompagnare carni, pesce, verdure, funghi.
Favria, 8.08.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Le persone sicure non sono arroganti, quelle dappoco  sono insicure e arroganti. Felice martedì.

Le signature.

Gli antichi osservavano gli elementi del creato alla ricerca di aspetti, “segni” precisi che ne indicavano la natura, convinti di trattare le malattie sulla base del principio che “il simile cura il simile”. Una teoria che fu convalidata da Paracelso. Sin dall’antichità i popoli della Mezzaluna fertile e del Mediterraneo erano convinti che ogni elemento del creato contenesse un “segno” preciso, signum che ne rivelava l’esatta natura. Tali credenze, di origine ancestrale, furono teorizzate in ambito filosofico da Platone e Aristotele e applicate in campo medico da Ippocrate e Galeno, sulla base del principio secondo cui il cosmo sarebbe un organismo vivente le cui diverse parti risultano connesse da fenomeni di “simpatia” dal greco “sentire insieme”, universale. A ciò si aggiungeva la convinzione che esistesse una precisa corrispondenza tra il macrocosmo, ossia l’intero universo, e il microcosmo, rappresentato dall’uomo. Questa impostazione assunse nel Medioevo una connotazione cristiana secondo la quale tutto, nel creato, reca l’impronta, “signatura” di Dio, oggi diremmo una sorta di “firma” da lui stesso incisa in ogni cosa creata. La visione che propugnava la corrispondenza tra l’universo e l’uomo conobbe particolare successo nel Rinascimento ottenendo una formulazione cruciale nell’opera dell’alchimista e astrologo svizzero Paracelso, 1493 – 1541. Egli introdusse accanto ai “classici” quattro elementi della materia di derivazione greca,  acqua, aria, terra e fuoco,  tre “nuovi” principi, ovvero il sale, lo zolfo e il mercurio, i “tria chimica”. Ma anziché utilizzare le sue conoscenze per cercare di produrre metalli preziosi partendo da quelli più vili, come facevano gli altri alchimisti, Paracelso concentrò studi e osservazioni in ambito medico. Convinto che lo stato di salute del corpo umano, paragonato a una fornace chimica, dipendesse essenzialmente dall’equilibrio, o dalla discrasia, tra i componenti dei fluidi corporei e le forze guaritrici presenti in natura, detti “archei” o arcana”, ideò un nuovo tipo di alchimia basata sulle piante e cercando in esse gli elementi naturali in grado di debellare le malattie. Queste ultime venivano individuate sulla base dei signapresenti nell’aspetto, nella forma, nella consistenza o nel colore, che ne rivelavano per analogia l’utilizzo terapeutico ideale sulle diverse parti del corpo: così la noce, ad esempio, agiva sul cervello in quanto aveva aspetto simile a quello dell’encefalo; il fagiolo poteva curare il rene perché ne ricordava la forma, l’euphrasia officinalisera efficace per le malattie agli occhi in quanto i suoi fiori li rassomigliavano, l’hepatica nobilis curava il fegato per la sagoma trilobata delle sue foglie, e così via. Concentrandosi sulla possibilità di estrarre i principi attivi dalle piante e dagli elementi a scopo medicinale, Paracelso è stato considerato di fatto un “pioniere” della chimica farmaceutica. A portare a compimento la “dottrina delle segnature” fu il campano Giovanni Battista Della Porta, 1535–1615, che dando alle stampe nel 1589 la sua Phytognomonicacodificò le corrispondenze occulte tra l’uomo e le piante, i minerali e gli animali (ma anche luoghi, stagioni e astri), legami resi ancor più evidenti da una serie di eloquenti tavole illustrate. La “dottrina delle segnature” rimase in uso in medicina fino alla nascita della scienza farmacologica moderna, ma anche dopo di allora non scomparve del tutto, restando appannaggio della fitoterapia e delle altre discipline naturali. Ancora oggi è praticata dai seguaci dell’omeopatia, un sistema di cura “non convenzionale” basato sull’antico principio che “il simile cura il simile”, formulato nell’Ottocento dal medico tedesco Samuel Hahnemann (1755–1843)

Favria, 9.08.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Oggi le persone che non hanno paura di morire, ma hanno paura di vivere. Felice mercoledì.

San Lorens, l’uva a tens!

Poesia di Pinin Pacòt, musica di Luigi Perrachio; 1930.  Nella musica e nelle parole di questa canzone, nata all’interno della Companìa dij Brandé e ambientata tra le colline delle vigne piemontesi, nella magica notte di San Lorenzo (10 agosto), pare di sentire il profumo degli “anvairèt”, gli acini d’uva che cominciano a nereggiare, mentre le stelle, in lontananza, sembrano cadere nei piccoli solchi attorno alle viti, ij sorghèt.  Ant la neuit ëd San Lorens as dësvijo, as dësvijo;/ ant la neuit ëd San Lorens as dësvijo j’anvairèt./ Giù le steile coma smens a robato, a robato,/ giù le stèile coma smens a robato ant ij sorghèt./ Ant le vigne l’uva a tens, s’peul già cheujne në s-cianchet,/ ant la neuit ëd San Lorens as dësvijo j’anvairèt./ S’ij tò laver l’uva a tens, pì gustosa, pì gustosa,/ s’ij tò laver l’uva a tens, pì gustosa dël dossèt;/ mi veuj cheujne bin sovens, mentre a canto, mentre a canto,/ mi veuj cheujne bin sovens, mentre a canto j’anvairèt,/ ant la neuit ëd San Lorens.

Favria,  10.08.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Il saggio crede in ciò che “sente”, lo stolto in ciò che sente dire. Felice giovedì.

Viaggio in treno.

In queste afose e caldissime giornate estive ho preso il treno per andare a Torino. Salgo sul treno e trovo uno spaccato della nostra Italia. Dopo alcune fermate salgono sullo scompartimento un gruppo di ragazzi e ragazze, con un abbigliamento minimale giustificato dal caldo.  Io indosso una maglietta leggera e canottiera, perché soffro l’aria condizionata, e pantaloni lunghi ed invido questi tre ragazzi e la ragazza che indossano alcuni di loro dei pantaloni sgambati, altri con pantaloni tagliati al ginocchio e per tutti la canotta d’ordinanza. Si siedono vicino a me, e quasi tutti hanno il corpo tatuato. Non posso fare a meno di osservare, gli occhi sono fatti per vedere, e sulla pelle vedo dei tatuaggi, nelle parti a me visibili, magari anche tatuato nelle parti nascoste. Volti, oggetti, parole, frasi, disegni stradi simili ad arabeschi. Il loro parlare può sembrare rumoroso, ma è il vociare allegro della gioventù. Alcuni di loro hanno le cuffie alle orecchie e pertanto cercano di parlare con toni più alte della musica, che erompe nelle loro orecchie. Uno di loro mi saluta con un salvo, rispondo con un ciao accompagnato da un sorriso. Il vicino vede che ho un libro in mano e mi chiede cosa stavo leggendo, ed io con imbarazzo affermo che rileggevo “l’Isola Misteriosa” di Jules Verne. La ragazza alla mia destra afferma: “Letto l’estate scorsa, parla del nascondiglio di Nemo e del Nautilus”, riprende un ragazzo con un tatuaggio che penso sia una frase in inglese: “Certo, quello di Ventimila leghe sotto i mari.”. Mi domando allora toh e poi chi dice che i ragazzi oggi non leggono i romanzi classici della mia adolescenza. Prendo coraggio e chiedo dei tatuaggi, e loro con un linguaggio colorito e con qualche violenza alla sintassi ed il povero congiuntivo maltrattato, mi parlano dei loro tatuaggi. Vengo così a sapere che queste mappe sulla pelle sono state incise pezzo per pezzo, ognuno dei quali rimandava a un’occasione, una storia o un avvenimento diverso. A un certo punto chiedo al più robusto, tipo palestrato, delle due croci che aveva sulle spalle? Lui di rimando con disarmante semplicità: “Non significano niente, mi piacciono e basta!” Alla ragazza chiedo dei fiori colorati incisi sull’epidermide dell’avambraccio e mi dice che ha fatto tatuare le rose in ricordo di sua nonna che le amava tanto, ed in sua memoria le ha fatti tatuare. Ecco che su questo scompartimento che stazione dopo stazione si avvicina a Porta Susa siamo uno spaccato dell’attuale società dell’Occidente, dove ormai sono sempre più numerosi i tatuati e i non tatuato, che sono numerosi   quasi tutti sopra i cinquanta. Ormai i corpi tatuati, complice la bella stagione, e parti più scoperte di epidermide e si incontrano un po’ dappertutto, non ha nulla a che vedere con i tatuaggi tradizionali di società lontane. Ad esempio, per gli aborigeni australiani il tatuaggio racconta una storia collettiva e il corpo individuale è la tavolozza su cui rendere viva e attuale una memoria che è di tutti.  Oggi, la mi impressione è che i tatuaggi per molte persone, non per questo li giustifico, non sono più simboli, come scriveva nell’Ottocento il Lombroso, che servivano a riconoscersi tra carcerati o oggi nelle grandi periferie delle degradate megalopoli gruppi appartenenti alla stessa gang. Oggi per le persone che si tatuano vogliono affermare, scrivendo sulla propria pelle quello che vogliono o pensano di essere. Questi geroglifici sulla pelle fosse sono la rappresentazione di come oggi dove abbiamo raggiunto un livello inimmaginato di diffusione di notizie, con la possibilità, che da ragazzo esisteva solo nel film di fantascienza, di dialogare in luoghi lontani con le video chiamate, ma dove la malattia attuale è la solitudine permeata di autoreferenzialità.  Oggi molti tatuaggi sono svuotati da quale simbolo significava all’origine e vengono incisi per la sola bellezza della forma.  Il treno è arrivato a Porta Susa, ho trovato piacevole viaggiare con persone che hanno una visione diversa dalla mia. Ognuno di noi ha un personale modello, che lo guida nelle sue scelte personali e nel dare un significato a ciò che accade. Il modello si basa su regole, valori, credenze, idee, attività e bisogni. Tutti questi sono del tutto personali e unici. Ognuno di noi ha i propri valori e parlare con chi ha valori diversi è  arricchimento per tutti, insomma “ De gustibus non est disputantum, ovvero “i gusti non sono discutibili”, e questo teniamolo sempre a mente. Viviamo tutti sullo stesso pianeta con pensieri diversi e relative azioni perché gli esseri umani sono quello in cui credono.

Favria, 11.08.2023 Giorgio Cortese


Buona giornata. Non possiamo fermare il tempo ma possiamo sempre cercare la luce nel buio più profondo. Felice  venerdì

Nicaea fidelis

Il  Reggimento Dragoni Jaunes nasce  il 4 luglio 1690 venne costituito da Bonifacio Antonio Solaro di Macello come Dragons Jaunes, dal colore dell’uniforme, per quanto mai tale denominazione risulti da alcun documento ufficiale, o Dragoni di Macello ordinato su 8 compagnie, che nel 1691 assunse il nome di Dragoni di Piemonte, partecipando alla guerra contro la Francia, distinguendosi il 4 ottobre 1693 nella battaglia della Marsaglia, una delle poche vittorie francesi, durante la  guerra della Grande Alleanza. Per ragioni finanziarie, nel 1699 il reggimento venne appiedato fino al 1701. Il reggimento prende parte nel 1690-97 alla guerra per la Lega di Augusta, nel 1701-13 alla Successione di Spagna, nel 1718-19 è impegnato in Sicilia, nel 1733-35 nella guerra di Successione di Polonia, nel 1742-48 nella guerra di Successione d’Austria, nel 1792-96 si oppone all’invasione Francese e nel 1799 come 3° reggimento Dragoni Piemontesi prende parte alla campagna Austro-Russo-Francese.  Il 24 maggio 1814 si forma il Reggimento Cavalleggeri di Piemonte che lasciata la specialità cavalleggeri il 3 gennaio 1832 diviene Reggimento Nizza Cavalleria. Nel 1815 combatte a Grenoble e nel 1850 è annoverato nella cavalleria di linea. Nel 1859 prende il nome di Reggimento Corazzieri di Nizza che modifica ancora in Reggimento Nizza Cavalleria nel 1860. Prende parte nel 1848-49 alla Prima Guerra d’Indipendenza, quindi nel 1859 alla Seconda Guerra Indipendenza e nel 1860-61 alla campagna nel Centro-Meridione, quindi combatte nel 1866 nella Terza Guerra d’Indipendenza e nel 1887-88 e 1895-96 invia uomini e cavalli in Eritrea.  Durante la Grande Guerra il reggimento incorpora, per il periodo dell’appiedamento, il 3° Squadrone “Cavalleggeri di Aquila” e dal 1920 diviene depositario delle tradizioni del disciolto “Montebello”.  Ancora in linea nel 1935 – 36 per la Guerra in Etiopia, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale il reggimento opera alla Fronte Alpina Occidentale, in Iugoslavia, in Francia, in Tunisia e si scioglie in Piemonte alla data dell’Armistizio. Oggi il Reggimento Nizza  Cavalleria è un’unità dell’arma di cavalleria dell’Esercito Italiano, appartiene alla specialità “cavalleria di linea”, attualmente è inquadrato nella Brigata Alpina Taurinense di cui costituisce la pedina esplorante. Ha sede nella caserma “Valentino Babini” di Bellinzago Novarese, già sede per molti anni delle unità carristi della Centauro.

Favria, 12.08.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Le lancette dell’orologio sono pungoli acuminati che ci ricordano l’inarrestabilità e la fugacità del tempo che corre. Felice sabato.

Dove sei?

Dove sei? Ti cerco e non Ti vedo. Non conosco questo luogo, le auto sfrecciano veloci sulla strada e il rumore dei clacson mi spaventa.  Dove sei andato? Ho paura di smarrirmi e che tu non mi trovi più! Ma dimmi è un gioco, sai che amo giocare con te, ma adesso metti subito per favore, ho paura. Tremo dalla paura, ho caldo e sete e le mie zampe sono paralizzate. L’asfalto della strada è bollente e ho tanta sete. Mi manca sentire il tuo odore e il suono della tua voce, ho paura. Ah eccoti Ti vedo, quella è la tua macchina, adesso Ti corro incontro. Che bello ti corro incontro come faccio tutti i giorni quando torni a casa… Ma la macchina non rallenta… non sei Tu. Sta arrivando la notte e ormai cammino da non so quante ore, annuso per terra ma non trovo la strada di casa. Mi accuccio un attimo qui. Riprendo fiato sul bordo di questa strada e poi ricomincio a cercarti. Anche se forse non arriverò a domani. Ma dove sei? Non riesco a capire come tu abbia potuto lasciarmi qui, sul bordo di questa strada, senza una parola senza un perché, buttato come un rifiuto. Mi ricordo ancora quando eri venuto a prendermi quando ero un cucciolo, un batufolo di peli confuso e spaesato, strappato dall’amore di mia mamma che dopo ogni volta che mi allattava con gli altri cuccioli  poi mi leccava teneramente. Ma poi con te ho capito subito che ero venuto al mondo per amarti, per riempirti le giornate, per giocare un po’ con te senza chiederti nulla in cambio se non la tua attenzione. E tante volte ho avuto la sensazione che tu mi volessi bene davvero, che davvero ti piacesse farti leccare la faccia. Mi ricordo come ridevi come un matto quando ti mordicchiavo le scarpe, e quanto correvamo veloci per i campi… Ma adesso, tutto questo sembra solo un ricordo lontano. Ma dove sei? Sono la stessa palla di pelo confusa di pochi anni fa. Vedo questa sera lo stesso sguardo indifferente di chi scorge per sbaglio il mio corpo dal finestrino. E proprio non capisco, umano, perché tu abbia deciso di farmi questo. La notte mi sta avvolgendo, ho fame e sete e sono spaventato, ricordo che questa mattina hai riempito la macchina di valigie, e forse non c’era più spazio per me nell’auto o forse dove vai in vacanza non vogliono i pelosetti come me. L’asfalto da bollente è divenuto freddo, vedo solo fari di auto nella notte che scorrono veloci e ogni tanto dei clacson suonano se mi avvicino troppo al ciglio della strada mi spaventano ancora di più. Addio umano, ricordati di me, del tuo devoto amico che continua a credere in te anche adesso che lo hai abbandonato e, che non ha mai smesso di volerti bene.

Bau!

Favria, 13.08.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. La vita è una bella canzone se la intoniamo nel modo giusto. Felice domenica.

Pomona.

Antichissima dea latina dei frutti, venerata con un proprio flamine, flamen Pomonalis e un luogo speciale di culto, il Pomonal, sulla Via Ostiense. Il poeta romano Ovidio, ci racconta su  Pomona un mito divertente e gradevole, che merita di essere raccontato: si tratta della storia della seduzione della dea ad opera del dio Vertumno. Nella vicenda, per chiara influenza ellenica,  Pomona è considerata non una dea ma una ninfa. Pomona  era appassionata delle piante da frutto, e da loro prendeva nome. Non amava le foreste o i fiumi, ma la campagna, e gli alberi ricolmi di frutti. Non portava un giavellotto, ma un falcetto, con cui spuntava la vegetazione, curava innesti, liberava il terreno dalle erbacce. La sua passione per i frutti la portava anche a essere totalmente indifferente agli amori: poiché era, però, piuttosto attraente, doveva sempre guardarsi dalle attenzioni dei maschi, e per questo motivo aveva accuratamente recintato il suo frutteto, e non permetteva agli uomini l’accesso. E non solo dagli uomini doveva guardarsi, ma anche dai satiri e dai fauni, e pure da qualche divinità. Ma chi piú di ogni altro la desiderava era il dio Vertumno, che presiede al cambiamento stagionale e che possiede la capacità di assumere la forma che piú gli aggrada. Quante volte dunque,  Vertumno, acceso di passione, passava di fronte al frutteto di Pomona, ora camuffato da vigoroso mietitore, ora da allevatore: passava con un cesto di spighe o con il fieno tra le tempie, ora con un pungolo ora con la falce in mano; passava con una scala, e sembrava un contadino che andasse a cogliere i frutti, o assumeva le sembianze di soldato di passaggio o di pescatore. Insomma, si mascherava in tutti i modi per godersi la vista di Pomona. Fattosi piú audace, un giorno vestí le sembianze di una vecchina, ed entrò nel frutteto della sua amata. Ammirò gli alberi carichi di frutti e ne approfittò subito per lodare Pomona e darle un bel po’ di baci: insomma, se la baciò piú di quanto una vecchina avrebbe mai fatto. E poi si sedette e additò alla bella un olmo a cui si era avvinghiata una vite carica di grappoli. “Ma se stesse da solo, senza i tralci”, disse, “non avrebbe niente di bello all’infuori delle proprie fronde; e lei, d’altronde, non fosse sposata all’olmo, giacerebbe per terra, senza appoggio”. Vertumno continuò poi invitando Pomona a prendere esempio dalla vite: disdegnava gli amori, neanche la celebre Elena era stata desiderata quanto lei, uomini, semidèi, dèi e numi la bramavano! “Se sei saggia”, disse ancora, “ascolta i consigli di questa vecchia che ti vuol bene: respingi le nozze di poco conto, e scegliti piuttosto come compagno Vertumno, serio e giovane, e ti sarà sempre devoto. E poi ha il dono della bellezza, e può assumere l’aspetto che piú gli piace: e ama i frutti quanto te: anzi, lui è il primo a cui i frutti si offrono. Il fatto è che ormai non li desidera piú: infatti desidera solo te”. Vertumno poi ammoní Pomona, attenta che i cuori duri vengono puniti. E prese spunto da questa considerazione per raccontarle la triste storia del giovane Ifi, infelicemente innamorato di Anassàrete, che lo respingeva. Dopo che infine Ifi si suicidò per disperazione, e avvenne che il suo corteo funebre passasse di fronte alla casa della giovane, ella vide il suo corpo e fu subito trasformata in pietra. Tale è la sorte di chi ha il cuore di pietra. Ancora le disse di non respingere chi la amava, e le augurò che venti e gelo non danneggiassero i suoi frutti. Ma nella sua forma di vecchina Vertumno parlava invano. Allora si ritrasformò, e riassunse il suo normale aspetto di bellissimo giovane, e fu come quando il sole disperde le nubi che lo offuscano e splende in tutta la sua luce. Ed esasperato dal desiderio sarebbe pure stato disposto a usare la forza per possedere Pomona; ma la violenza non fu necessaria: lei fu vinta dalla bellezza del dio, e sentí a sua volta l’amore trafiggerla.

Favria, 14.08.2023  Giorgio Cortese

La nostra vita può diventare un granello di sabbia, se permettiamo alle abitudini di occupare tutto il nostro spazio. Felice lunedì.