Enheduanna – Perché pagare le tasse? – Nuova Zelanda. – Un Tributo alla Dedizione Educativa. – Anche l’occhio vuole la sua parte! – I crepundia.- Da saumalier a sommelier. – Evviva la posta ed i postini, Giornata mondiale della posta…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Enheduanna La prima scrittrice della storia  di cui conosciamo il nome è stato

trovato su di un inno per la dea sumera Inanna. Enheduanna era figlia del primo imperatore accadico, Sargon, che 4.200 anni fa aveva unificato varie città-Stato della Mesopotamia, fra cui la sumera Ur di cui Inanna era la divinità patrona; per cementare i rapporti coi Sumeri, Sargon aveva nominato la figlia sacerdotessa della dea.  Come sempre quando il tempo traccia la distanza tra noi e ciò che vogliamo scoprire, la storia di questa stirpe reale è mescolata al mito: si narra infatti che Sargon fu partorito in gran segreto e che poi la madre lo abbia messo in una cesta affidata al fiume Eufrate, che ricorda vagamente la storia biblica di Mosè. Nonostante queste origini quasi mitologiche, Sargon esistette realmente. Ebbe quattro figli maschi e una femmina, Enheduanna, il cui nome significa “ornamento della dea”, nata intorno al 2285 a.C. Quando raggiunse l’età adulta, Enheduanna fu consacrata al dio Nanna, il dio della Luna, e divenne somma sacerdotessa del tempio di Ur. Questo matrimonio divino faceva parte dei disegni politici di Sargon, essendo necessaria una legittimazione celeste del suo potere politico. In questo modo Enheduanna si trovò a ricoprire non solo il ruolo di sacerdotessa, ma anche quello di mediatrice politica del regno accadico, diventando un forte appoggio per il padre come anello di congiunzione tra uomo e divinità. Enheduanna era votata al culto di Nanna, ma lei sentì molto vicina anche la dea Inanna, figlia del dio Nanna. Questa dea fu celebrata da Enheduanna nella sua duplice veste di dea e donna, di divino e umano, fino al punto che nell’immaginario comune non c’era più differenza tra Enheduanna e Inanna. A questa dea è dedicata l’opera più famosa di Enheduanna, “Signora di tutti i Me”, un componimento poetico di 153 versi scritti in sumerico che ci racconta la fuga della poetessa dalla città di Ur e il suo esilio in seguito all’usurpazione del regno del padre da parte di Lugalzaggesi.  Si  tratta di un evento realmente accaduto, durante il quale si suppone che Enheduanna sia stata violentata; l’ordine fu poi ristabilito da un nipote di Sargon. Nel componimento sopra citato,  Enheduanna parla di sé aprendoci a tutte le emozioni che gli eventi in cui si è trovata coinvolta le hanno provocato. È una donna, con le sue debolezze e le sue fragilità, che cerca nel suo contatto con la dea Inanna una speranza di riscatto per la sua famiglia e la sua terra. Purtroppo la vita della principessa non fu facile neanche dopo questo tragico evento. Finalmente al sicuro tra le mura del suo santuario, Enheduanna sperava di poter tornare alla sua vita dedicata agli dei, ma alla morte del padre la sua tranquillità fu sconvolta ancora una volta. Dovette assistere impotente alla morte di due dei suoi fratelli, e poi la terra fu scossa da un terremoto che fece tremare anche i cuori dell’antico regno di Sargon. La vita da principessa era più complicata di quanto noi possiamo immaginare, e questi dolori si ritrovano nelle sue poesie. La giovane donna che in origine parlava di amore, ora si trovava a confrontarsi con sentimenti più duri e forti: il dolore dell’esilio, il lutto, la perdita. Tutto questo troviamo nella sua poesia. Per lei la poesia è  un punto di contatto tra uomo e dio, ma con una fede che la porta sempre a esaltare la sua Inanna. Da qui nasce Signora di tutti i Me. I Me erano dei sigilli che contenevano incantesimi necessari a far fiorire una civiltà. Nella leggenda, la dea Inanna aveva con l’astuzia sottratto i Me, e per questo motivo era diventata la dea per eccellenza. L’incipit dell’opera ci fa capire subito il potere di questa grande dea:  “Signora di tutti i Me/ Risplendente di luce,/ Donna virtuosa, vestita dello splendore divino/ Amata dal Cielo e dalla Terra/ Prediletta di Anu (dio del Cielo),/ Tu sei grande su tutti i sigilli./ Tu che ami la corona perfetta/ Per la somma sacerdotessa/ Resa potente da tutti i sette Me./ O mia Signora, tu sei la custode di tutti i grandi Me!/ Tu che hai preso i Me,/ Tu che hai tenuto i Me nelle tue mani./ Tu hai riunito i Me,/ Tu li hai tenuti stretti al tuo petto./ Come un drago tu scagli veleno sulla terra dei nemici./ Quando tu ruggisci come il dio della Tempesta,/ La vegetazione non può resisterti./ Come un diluvio discendi dalla montagna/. Tu sei la Suprema in Cielo e in Terra,/ Tu sei Inanna!”  Di Enheduanna conosciamo il nome e l’aspetto perché nel tempio dove visse è stato trovato un disco di alabastro con la sua immagine e il suo nome incisi.. Pare perfino che con lei la letteratura per la prima volta abbia ispirato l’arte, perché proprio da allora iniziò la produzione di immagini e artefatti . Una donna di ieri che si fa modello ancora oggi.
Favria, 3.10.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata, Nella vita l’audacia senza prudenza si muta in pazzia. Felice martedì.

Perché pagare le tasse?

Avvertenza questo breve pensiero non è indicato a chi si nutre di bufale in rete, ascolta video farneticanti che promette la Luna o chi ama i discorsi faziosi. Per favore non proseguite nella lettura, grazie. Ebbene sì le tasse noi cittadini le odiamo e ogni volta i  politici fanno a gara nel promettere di tagliarle. Ma cosa sono davvero le tasse e a che cosa servono? Ed eliminarle è, sempre e comunque, una buona idea? Se riflettiamo dal momento in cui veniamo al mondo, godiamo di servizi pubblici che consentono la nostra stessa esistenza. Sono le tasse a sostenere tali servizi, garantirci la sicurezza e permettere la nostra libertà nel dire quello che vogliamo. Senza le tasse ritengo non ci sarebbe la democrazia ma sprofonderemmo in un oscuro medioevo dove regnerebbe la legge del baratto. Oggi il problema non sono le tasse, ma la loro iniqua ripartizione del loro carico che costringe il ceto medio a pagare troppo a vantaggio di una ristretta cerchia di ricchi e ricchissimi. L’emergenza sanitaria del covid ha reso quanto mai evidente che i servizi pubblici sono a beneficio di tutti: occorre rivalutare le tasse e riscoprire l’importanza che il loro peso sia sostenuto da ciascuno in rapporto alle sue capacità, e dirò di più investire molto di più nella sanità e nella cultura.

Smettiamola di metter gli italiani gli uni contro gli altri tra lavoratori dipendenti e pensionati contro chi lavora in proprio, questo gioco perverso del dividere comandare è a vantaggio di chi non le paga proprio, è ora di finirla di dividerci tra guelfi e ghibellini. Oggi quando parliamo di  Stato, non dobbiamo intendere quello che spesso dipinto a tinte fosche come un vorace cormorano, un pozzo senza fondo che spreca i soldi delle nostre tasse in lavori inutili,  questa visione è il piatto forte di alcuni populismi e dei loro rappresentati che dicono addirittura che le tasse sono un pizzo legalizzato e promettono, dico promettono solo, di tagliarle se non addirittura eliminarle e poi quando sono al potere dimenticano le facili promesse elettorali.

Credetemi, non fa sicuramente piacere a nessuno, ma pagare  le tasse è l’unico modo per assicurarsi uno Stato sano, democratico e che non lasci indietro nessuno, non esistono tagli miracolosi ne flat tax taumaturgiche. Senza le tasse ricordiamocelo bene lo Stato che conosciamo, quello che ci ha accompagnato sino dalla nascita non potrebbe esistere e non garantirebbe i diritti e l’assistenza sanitaria a chi mi legge. I nostri diritti implicano delle risorse per mantenerli, senza un’adeguata raccolta di risorse lo Stato semplicemente non potrebbe esistere. Vi ringrazio di avermi letti fino alla fine e poi  le tasse sono sempre esistite, fin dai tempi di Adamo ed IVA.

Buona giornata. Ogni giorno la nostra storia è simile ad uno specchietto retrovisore che ci permette di guardare avanti, scrutando il passato. Felice mercoledì.

Nuova  Zelanda

Forse non tutti sanno che la Nuova Zelanda fu, per breve tempo, nota agli europei con il nome di “Staten Landt”. A chiamarla cosi fu nel 1642 il suo “scopritore”, il navigatore olandese Abel Tasman, perche aveva creduto che fosse parte dell’omonima isola, attuale Isola degli Stati, avvistata nel 1615 da Jacob Le Maire e Willem Schouten nell’Atlantico del Sud, a est dell’Isola Grande della Terra del Fuoco, oggi tutti territori oggi appartenenti all’Argentina. Quando, un anno dopo, fu chiaro che si trattava di un errore, i cartografi olandesi “ribattezzarono” la terra con il nome latino Nova Zeelandia dalla regione olandese della Zelanda e in riferimento alle caratteristiche fisiche della terra australe appena scoperta, costituita da isole e penisole, Zeeland in olandese significa terra di mare.. Il nome fu poi anglicizzato in New Zealand dall’esploratore inglese James Cook quando visito l’arcipelago nel 1769. In lingua locale Maori, la Nuova Zelanda si chiama invece Aotearoa, che secondo l’interpretazione piu diffusa significherebbe “terra della lunga nuvola bianca”. Il nome però in origine definiva soltanto l’isola piu settentrionale: non sappiamo se i Maori avessero ideato una denominazione comune per l’intero arcipelago oppure preferissero chiamare ogni isola con un nome diverso. In questi anni vari gruppi di attivisti stanno promuovendo una petizione per restituire al Paese il nome maori,  benchè di più difficile pronuncia, nel rispetto delle sue più antiche radici

Favria, 4.10.2023   Giorgio Cortese

Buona giornata. La saggezza è sempre femminile e la forza è maschile, ma la forza senza saggezza è debole. Felice mercoledì.

5 ottobre: Giornata mondiale dell’insegnante

Un Tributo alla Dedizione Educativa.

La Giornata Mondiale dell’Insegnante è stata istituita nel 1993 dall’UNESCO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. La scelta di celebrare questa giornata il 5 ottobre è dovuta all’importante evento che si è tenuto proprio in quella data nel 1966. In quell’occasione, si svolse un Congresso speciale organizzato congiuntamente dall’UNESCO e dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Durante il congresso, insegnanti provenienti da tutto il mondo si riunirono per elaborare e adottare una “Raccomandazione” sulla condizione degli insegnanti. Tale raccomandazione rappresentò un appello rivolto ai governi e alle famiglie affinché migliorassero le condizioni lavorative degli insegnanti e dimostrassero loro apprezzamento e riconoscimento. Se consideriamo attentamente il lavoro svolto dagli insegnanti, ci rendiamo conto della sua importanza fondamentale. Gli insegnanti hanno il delicato compito di formare, educare e guidare le nuove generazioni in un mondo in costante e rapido cambiamento. Sono loro che contribuiscono all’adattamento efficace dei giovani a questa realtà in continua evoluzione. Oggi, più che mai, è essenziale avere insegnanti competenti ed educatori di qualità. Senza di loro, sarebbe difficile comprendere, ispirare, orientare e promuovere lo sviluppo intellettuale, sociale ed emotivo dei giovani. Sono loro che aprono le porte verso un mondo migliore e più giusto per le future generazioni. nvestire nell’educazione di qualità e nell’aggiornamento professionale degli insegnanti è fondamentale per garantire un futuro prospero. Gli insegnanti devono avere accesso a programmi di formazione continua e opportunità di sviluppo professionale, in modo da rimanere al passo con gli sviluppi pedagogici e le nuove metodologie didattiche. Inoltre, è necessario che i governi e le istituzioni sostengano gli insegnanti offrendo loro condizioni di lavoro adeguate e una retribuzione dignitosa. Gli insegnanti meritano un riconoscimento sociale e un sostegno tangibile per il ruolo cruciale che svolgono nella società. La Giornata Mondiale dell’Insegnante è un evento speciale che offre l’opportunità di celebrare il contributo inestimabile degli insegnanti nella formazione e nell’educazione delle nuove generazioni.

Favria, 5.10.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Siamo sempre riconoscenti agli insegnanti e apprezziamo il loro ruolo di educatori di qualità. Grazie insegnanti.  Felice giovedì.

Anche l’occhio vuole la sua parte!

Anche l’occhio vuole la sua parte. Che ovviamente non si esaurisce in questa breve mail, dove spero di offrirvi, a colpo d’occhio, la meraviglia di quest’organo. Per Leonardo sono «la finestra de l’human corpo, per la quale la sua via specula e fruisce la bellezza del mondo», restituendoci così il doppio movimento del mondo che ci guarda mentre lo guardiamo. Occhi, inevitabili organi dell’amore: “Trovommi Amor del tutto disarmato,/ et aperta la via per gli occhi al core,/ che di lagrime son fatti uscio et varco», dice Petrarca. Quell’amore che secondo Ficino e i neoplatonici è un’infezione fantastica che si trasmette con lo sguardo. Ma anche organi di conoscenza, tanto che per i Greci è l’aoristo, io vedo, insomma ho visto, dunque so. A chi gli chiedeva il perché, nei ritratti, di quegli occhi bianchi, disiridati, Modigliani rispondeva: “Quando conoscerò la tua anima dipingerò i tuoi occhi”. Non molti anni dopo, Buñuel, in una delle scene più impressionanti della storia del cinema, il film è Un cane andaluso, affila un rasoio, apre l’occhio di una donna e ne taglia il bulbo: rivoluzione visiva surrealista, occhio squarciato dello spettatore così che veda ciò che non ha mai visto. Organi di senso gemelli, ma in Alessandro Magno di colore diverso, si chiama eterocromia, mentre David Bowie, per un pugno ricevuto a 15 anni, aveva una pupilla più grande dell’altra e così sembravano eterocromiche, gli occhi sono due bulbi investiti dalla luce, quando vedono fuori, e immersi nel buio, quando vedono dentro. Tiresia, il più famoso veggente del mito, era cieco. Nella tradizione induista la visione interiore si ottiene tramite un terzo occhio che non vede e sorge al centro della fronte, un punto chiamato ajna, chakra del discernimento, occhio spirituale ma anche ornamentale, il bindi. Itinerari oculari che mi spingono a pensare alla mia professione che tanto deve allo sguardo: quello intersoggettivo dell’accudimento e del riconoscimento reciproco, quello psicoanalitico dell’insight, sight, vista, come comprensione analitica. La tesi di una mia studentessa ipovedente di vent’anni fa si intitolava: “Vedere con la mente: l’ascolto come strumento di osservazione”. Mentre oggi va per la maggiore un approccio allo stress post-traumatico che si chiama EMDR: Eye Movement Desensitization and Reprocessing. È un movimento oculare ritmico indotto dal terapeuta, che per libera associazione mi fa pensare al metronomo sulla cui cima oscillante Man Ray aveva incollato la fotografia di un occhio. Nell’occhio c’è un diaframma per regolare l’intensità della luce, l’iride, che ci riporta all’omonima divinità greca, messaggera degli dei e personificazione dell’arcobaleno. Sul fondo c’è una membrana delicata, la retina, che trasforma l’immagine in segnali elettrici i quali, lungo il nervo ottico, raggiungono il cervello dove vengono elaborati, legati alla memoria e dotati di vita emotiva. La retina, le cui cellule sono miracoli di precisione e hanno i nomi simpatici di coni e bastoncelli, termina con una porzione cieca che si chiama ora serrata. Limite tra la parte ottica e quella ciliare, ha dato il titolo al primo libro di poesie di Valerio Magrelli, Ora serrata retina e. Potete comprarlo a occhi chiusi. Oltre alla cornea, la lente più potente dell’apparato visivo, l’occhio contiene il cristallino, e insieme formano il diottro oculare. Quando il cristallino perde di trasparenza, ecco a cataratta. Molte delle 250 tele di Claude Monet che compongono il ciclo delle ninfee sono state eseguite nelle nebbie della cataratta. Una poesia di Lisel Mueller, Monet rifiuta l’operazione, inizia così: “Dottore, lei dice che non ci sono aloni/ attorno ai lampioni di Parigi/ e quel che vedo è un’aberrazione/ causata dall’età, una malattia./ Io le dico che ci ho messo tutta la vita/ per vedere gli angeli nelle lampade a gas,/ per sfuocare, dissolvere e infine eliminare/ bandire quei confini che a lei dispiace io non veda”. Maculopatia, cheratocono, astigmatismo, le patologie degli occhi hanno nomi evocativi. Alcune diagnosi scivolano nel linguaggio in chiave metaforica: miopia, strabismo e daltonismo possono essere anche atteggiamenti o attitudini personali. C’è anche l’ambliopia o sindrome dell’occhio pigro, problema oculistico, recuperabile, che affligge il dolce Samuele, protagonista dodicenne del film di Gianfranco Rosi Fuocoammare. Tra gli inganni dell’occhio annoveriamo anche le miodesopsie, corpi mobili vitreali detti “mosche volanti”, in francese, con eleganza clinica, mouches volant, dovuti alla contrazione dell’umor vitreo. Sono fantasmagorie mobili fastidiose, talvolta affascinanti, corpuscoli trasparenti che appaiono e  scompaiono in uno spazio visivo che non è dentro né fuori, un limbo della visione. Sembrano vetrini cellulari al microscopio, io ci convivo da anni. A proposito di limbo, proprio così si chiama la zona di transizione tra la cornea e la sclera. Tutte le lingue del mondo ospitano espressioni e proverbi che ruotano attorno alla vista: hasta la vista, apple of my eye, loin des yeux lo in du coeure, da noi, l’ipnotico a me gli occhi, il cruento occhio per occhio, il rustico l’occhio del padrone ingrassa il cavallo. E quanti occhi nelle canzoni, quelli blu di Lisa, nella pittura, quello di Magritte con l’iride di cielo, e nel cinema quelli di Laura Mars. Sul cinema andrei avanti per ore: la fioraia cieca di Lucidella città, gli occhi dipinti da Dalí nel l’incubo hitchcockiano di Gregory Peck in Io ti salverò, gli Eyes Wide Shut di Kubrick e gli Eyes Wide Open dell’israeliano HaimTabakman. Ho scelto questi quattro perché coerenti con il tema, ma soprattutto perché mi piacciono. Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?, così Gesù nel Discorso della Montagna. E qui, dal figlio umano, il pensiero va all’occhio del padre, quello misterioso, triangolare, onnivedente e dunque onnisciente di Dio. «Chi ha plasmato l’occhio, forse non guarda?», recita il Salmo. Pensando allo sguardo divino, adesso vorrei ripartire dall’occhio di Horus, figlio di Iside e Osiride, uno dei simboli più antichi del mondo. Ma lo spazio è finito, eppure gli occhi meriterebbero una seconda puntata, e non solo perché sono due. Magari la scriveremo per la Giornata mondiale della vista, promossa dall’OMS e celebrata ogni anno il secondo giovedì di ottobre.

Favria, 6.10.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita non dobbiamo mutare il nostro modo di essere per piacere agli altri,  le persone giuste  ci apprezzeranno  per quello che siamo. Felice venerdì.

I crepundia.

Nell’antica Roma i bambini portavano appesi al collo o sul petto speciali amuleti chiamati crepundia, sorta di pendagli che si riteneva proteggessero dagli influssi negativi. Il nome deriva dal verbo latino crepare, tintinnare, fare rumore, in quanto muovendosi producevano suoni che si pensava fossero in grado di allontanare il malocchio. Documentati sin dal IV secolo a.C. e citati nelle commedie e nelle fonti narrative antiche, erano realizzati di solito in metallo con inserti di pietre preziose e riproducevano in miniatura una gran varieta di soggetti: lune, fiori, armi come spade o asce a due tagli, oggetti impiegati nella vita quotidiana, animali e persino falli, questi ultimi aventi particolare valore magico e apotropaico. I crepundiavenivano donati al neonato in occasione della lustratio, il rito di purificazione che si compiva poco dopo la nascita. Gli amuleti erano di solito inseriti in numero dispari. Le composizioni venivano personalizzate dai genitori ed erano sempre diverse; inoltre a volte i piccoli oggetti contenevano anche lettere e nomi, cosi da facilitare l’identificazione del bambino nel caso in cui si fosse perso. A questa pratica ricorrevano soprattutto le madri indigenti o le prostitute, costrette ad abbandonare o dare in adozione i propri figlioletti, nella speranza che un giorno i crepundia potessero aiutarle a ritrovarli: e il caso, ad esempio, della trovatella di oscuri natali protagonista della “Cistellaria” di Plauto, che viene riconosciuta grazie ai ninnoli che la madre aveva collocato nella sua cesta quando l’aveva affidata ad una cortigiana. Importante era anche il materiale, in particolare le eventuali pietre preziose, con cui questi oggetti erano realizzati: a ciascuna erano infatti attribuite virtù  specifiche e tra le più diffuse c’era l’agata, che si riteneva proteggesse in maniera particolare dagli influssi negativi. Dei crepundiafacevano parte anche, più in generale, diversi tipi di sonagli e giocattoli e forse anche le bullae, piccoli contenitori tondeggianti consegnati ai neonati maschi nove giorni dopo la nascita. Realizzate in piombo rivestito in oro, o in cuoio e stoffa per i meno abbienti, le bullaeera poste al collo come medaglioni e custodivano amuleti protettivi solitamente di forma fallica. La consuetudine prescriveva di portarli fino al termine dell’infanzia: il giorno in cui il ragazzo indossava per la prima volta la toga virile, momento che segnava il suo ingresso tra i maschi adulti, la bullaveniva rimossa e consegnata virtualmente alla protezione dei Lari, gli spiriti protettori degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sulla fortuna della famiglia, della proprietà e degli affari. Un analogo tipo di amuleto, la lunula, spettava alle bambine: a forma di luna crescente, era indossato dalle fanciulle fino alla vigilia del giorno delle nozze e quindi rimosso e riposto insieme ai giocattoli dell’infanzia. In tale occasione la ragazza indossava gli abiti delle donne adulte e si avviava a ricoprire il ruolo di moglie, madre e matrona secondo le consuetudini romane.

Favria, 7.10.2023   Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno ci sforziamo di affrontare tutte le difficoltà e lasciamo perdere quelle che sono inutili. Felice sabato

Da  saumalier a sommelier

Il termine “sommelier” è evidentemente di origine francese. Deriva dal provenzale “saumalier”, ovvero “conduttore di bestie da soma”. In realtà questa parola fu introdotta in Francia nel corso del Settecento a partire dal termine italiano “somigliere”, una figura, un tempo, molto diffusa nel nostro Paese. “Somigliere” proviene dal latino “sagmarium” cioè colui che si occupava degli approvvigionamenti, del cibo, del vino e dell’acqua e del loro trasporto con animali da soma “sagma” in latino significa “soma”. I cugini d’Oltralpe adattarono questo termine alle caratteristiche della loro lingua: da “somigliere” si giunse a “sommelier” per indicare la figura che si occupa della presentazione e del servizio del vino. Quello del sommelier è un ruolo piuttosto antico di cui si ha traccia fin dall’epoca dell’Antica Grecia. Qui esisteva la figura del “Simposiarca”, ovvero il responsabile del “simposio”, la seconda parte di un tipico banchetto greco, quella dedicata alla degustazione dei vini e ai dibattiti politici. Nello specifico, il “simposiarca” si occupava della mescita del vino che, a causa del suo carattere piuttosto sciropposo, non si beveva mai solo ma mischiato con l’acqua. Aggiungere la giusta quantità di acqua al vino per permettere agli invitati al banchetto di poter gustare al meglio la bevanda era il compito principale del “simposiarca”. Una figura simile è presente anche nell’Antica Roma. Si tratta dell’“Arbiter Bibendi” o del “Magister Cenae” che si occupavano di preparare la miscela di acqua, vino e spezie da servire nel corso del convivio.  Il “Simposiarca” e l’”Arbiter bibendi” erano ruoli di grande responsabilità, riconosciuti solo a persone fidate, ma poco qualificati: l’abitudine e l’esperienza nella mescita del vino e non tanto la conoscenza delle sue caratteristiche erano i requisiti essenziali per ricoprire questo ruolo.  Nel Rinascimento comparvero altre figure: il “cantiniere”, responsabile dell’acquisto del vino, il “bottigliere”, che si occupava di preparare il bicchiere di vino per il signore, solo dopo aver assaggiato la bevanda per verificare che non contenesse del veleno, infine la figura del “coppiere” che portava il vino a tavola.  Presto la figura del “bottigliere” arrivò ad inglobare le altre due assumendo la denominazione di “somigliere di bocca”, con funzioni molto simili a quelle del moderno sommelier. Del resto, il bottigliere assaggiava e selezionava i vini per la tavola dei signori, ne descriveva e presentava le caratteristiche e consigliava i commensali circa le modalità migliori per degustare la bevanda. Per molti, il primo sommelier della storia fu Sante Lancerio, il “bottigliere” o “somigliere di bocca” di papa Paolo III, la prima figura specializzata nell’arte di conoscere e di proporre vini. Si cominciò così a diffondere l’idea che proporre e servire vino fosse una vera e propria arte, frutto di studi approfonditi e di un’accurata preparazione professionale.  Fu così che, soprattutto in Italia e in Francia, due dei principali produttori di vino al mondo, si diffusero figure di questo tipo: “somiglieri” o “bottiglieri” in Italia, “sommelier in Francia”. Sotto il comando di Napoleone Bonaparte, 1769-1821, alcuni soldati avevano il compito di legare le botti di vino sulle bestie per trasportarle durante le spedizioni militari, deriva dal francese saumalier: colui che conduce bestie da soma.  Il sommelier, quindi, in origine era la figura che seguiva il vino sui campi di battaglia, diventandone poi anche assaggiatore. Oggi il termine francese “sommelier” ha completamento sostituito i corrispettivi italiani “somigliere” o “bottigliere” ed è utilizzato per indicare una figura professionale altamente qualificata, frutto di un lungo percorso di formazione. Un professionista capace di realizzare un’approfondita analisi organolettica del vino per riconoscerne la tipologia e le caratteristiche al fine di selezionare le bottiglie migliori o adatte alle cantine delle aziende per cui lavora. In molti ristoranti si occupa anche della gestione stessa della cantina, della lista dei vini da proporre e da acquistare, oltre a consigliare la clientela circa il vino più adatto ad accompagnare il menù. Infine si occupa anche del servizio vino da tavola secondo rigide e precise tecniche.

Favria, 8.10.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. A volte l’apparenza inganna, nulla è come sembra, tutto potrebbe essere come mai lo avremmo immaginato. Felice  domenica

Evviva la posta ed i postini, Giornata mondiale della posta

Dai papiri scambiati tra i faraoni fino ad arrivare alle PEC per comunicare con la Pubblica Amministrazione sono cambiate le esigenze, le tecnologie e il formato dei contenuti per la corrispondenza  ma non gli scopi: mettere in contatto in maniera sempre più tempestiva un mittente ed un destinatario separati nello spazio. La Gionata mondiale della posta, conosciuta anche come World post day, è proclamata per la prima volta nel 1969 durante il Congresso UPU tenuto a Tokyo. Da quel giorno la ricorrenza si celebra ogni anno, con lo scopo di sottolineare l’importanza di questo servizio. Indubbiamente prima del 1874 esistevano primitivi sistemi di consegna. Già in passato le persone si scambiavano lettere, che venivano poi consegnate a piedi o a cavallo da messaggeri fidati. Indubbiamente prima del 1874 esistevano primitivi sistemi di consegna E la Giornata internazionale della posta è un’occasione per ricordane alcuni. A inventare la prima forma di “posta” furono gli Egizi. In Egitto sono stati rinvenuti involucri di argilla contenenti corrispondenza tra i faraoni e i principi di Babilonia e Mesopotamia. 3.200 anni fa, dunque, i faraoni intrattenevano già una corrispondenza attraverso papiri che viaggiavano sul Nilo.  Storicamente gli antichi Romani furono i primi grandi costruttori di strade. Ciò permise loro di dare inizio ad un servizio postale molto efficiente per l’epoca. L’attività assumeva nomi diversi in base ai corrieri, i quali, supervisionati da funzionari di fiducia, garantivano un servizio regolare. Con l’imperatore Costantino il servizio si perfezionò, grazie al ruolo dei praefectus vehiculorum. Fu introdotto l’uso di cavalli, molto più forti e veloci. Tuttavia si trattava di sistemi vincolati ai goveEni di appartenenza, e ciò valse per molti secoli.  In epoca medioevale la posta era un servizio riservato esclusivamente ai re, ai principi, ai grandi feudatari e alla Chiesa, la corrispondenza tra privati era occasionale. Le università ed i monasteri, centri del sapere del tempo, avevano proprie reti di messaggeri. Nello specifico, la posta monastica era la più efficiente ed aveva una particolarità propria anche delle moderne e-mail: le risposte ad ogni missiva venivano cucite in calce a quella originale.  Alla fine del Trecento prese il via la prima “rivoluzione postale” che iniziò a dare delle regole al servizio postale: contribuì ad istituire dei “corrieri ordinari”, che partivano cioè in giorni prefissati, e portò all’introduzione delle stazioni di posta per il cambio dei cavalli. Dei veri e propri “uffici postali”, dunque, che divennero efficientissimi grazie alla capillarità con cui erano diffusi. Nel Quattrocento la Posta si diffuse in tutta Europa, a vantaggio sia dei signori che dei privati. Il nuovo sistema “postale” si dimostrò strategico, tanto che dal Cinquecento anche imperatori, re, papi e duchi ne colsero il valore, inventandosi il cosiddetto jus postale, il diritto di trasportare la posta. A quei tempi infatti anche le strade e i fiumi erano proprietà reale; di conseguenza solo al re spettava il diritto di utilizzarli anche per il trasporto di lettere e merci. Poi dal 1600 le Nazioni iniziano a consentire lo scambio di missive con Paesi stranieri. La posta moderna è molto più recente e risale circa al 1800, quando, nelle maggiori città del mondo,  venne coniato un sistema di posta rapida, la cosiddetta posta pneumatica, grazie all’aria compressa, attraverso una fitta rete di tubi sotterranei, il messaggio veniva letteralmente sbalzato dalla cassetta postale di immissione agli uffici di smistamento.  Nel 1837 ecco la la riforma postale inglese, grazie alla quale il vecchio sistema costoso e inefficiente veniva sostituito da un sistema rivoluzionario, che prevedeva pagamento anticipato di una tariffa e un costo uguale per tutto il regno. Non solo, consentiva inoltre di  spedire le lettere senza passare per l’ufficio postale. A tale scopo vennero ideate la busta postale e il francobollo, che certificava il pagamento anticipato della corrispondenza.  In Italia, nel 1917 venne inaugurato il servizio di posta aerea e negli anni venti iniziò il trasporto su mezzi gommati che potevano eseguire lunghi percorsi anche non serviti dalle ferrovie. Gli eventi bellici della seconda guerra mondiale, però, costrinsero ad un’ampia ricostruzione delle infrastrutture e fu necessario attendere il 1967 per un’altra rivoluzione, la nascita del codice di avviamento postale. Nell’ottobre del 1971 Ray Tomlinson inviò il primo messaggio di posta elettronica utilizzando un programma che aveva lui stesso sviluppato. Per vedere i primi servizi di posta elettronica come li conosciamo adesso si dovrà, però, aspettare il 1992 con il debutto di Microsoft Outlook. Nel 1996 toccherà ad Hotmail, mentre l’anno successivo a Yahoo Mail.  È nel 2005 che la Posta Elettronica Certificata prende forma, diventando ciò che è oggi, un’e mail con lo stesso valore di una raccomandata con avviso di ricevimento.  Uno strumento che fornisce la prova di data ed orario di invio, ricezione del messaggio ed integrità del contenuto, perché lo rende immodificabile. Strumenti come la PEC stanno portando un grosso contributo alla Digital Transformation.

Favria, 9.10.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Quando infilo una lettera nella buca delle posta, cambia completamente. Finisce di essere mia, diventa tua. Quello che volevo dire io è sparito. Resta solo quello che capisci tu. Felice lunedì.