Fotografo a Cuorgnè vuole dire FOTOFERRO! – Chi è senza peccato scagli la prima auto diesel?- Soa pi bela gioventù!- La vita con i suoi quotidiani imprevisti mi insegna l’umiltà.- All’ora del tè!… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Nella vita il miglior risultato si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé e per il gruppo. Le persone che lavorano insieme vinceranno. Sia che si stia lottando contro una complessa difesa di calcio o contro i problemi della società moderna.

Fotografo a Cuorgnè vuole dire FOTOFERRO!
Oggigiorno, nella nostra esistenza, pur sepolta da una massa di immagini soprattutto autoprodotte e autoconsumate, ma allo stesso tempo esistenza svuotata da quelle immagini, è ancora possibile fare l’esperienza di osservare delle foto fisse, sottratte all’incedere del tempo. La fotografia mi mostra nella fissità un’immagine dove i dettagli della realtà fissata dall’immagine sono simili ha ciò che ha fatto l’avvento della luce elettrica al suo all’apparire delle vie, delle case, delle città di notte. L’apparenza si è staccata dalla vita, la figura si è dissociata dal suo senso, tanto da rendere gli edifici semplici facciate senza nulla dietro di esse. Ogni minimo dettaglio può essere percepito in una fotografia anche senza essere sottoposto a uno “sguardo”, a una interpretazione. Allo stesso modo un nostro ritratto mi presenta il suo essere come qualcosa di altro, di estraneo, di inavvicinabile e, alla fine, inesistente. Nelle prime fotografie, spettrali, sconvolgenti al massimo grado, si impose una demolizione del senso, dei significati attribuiti agli oggetti, alla realtà. Tutto divenne un fuori assoluto, duro, irriducibile. Una luminosa visibilità delle cose che mostra il dominio del caso e il conseguente fallimento di ogni pretesa sensatezza. D’altra parte, è proprio dai ritratti che è comunque possibile recuperare uno sguardo “umano”, ristabilire la possibilità di un segno umano, di uno sguardo che riconosca in un viso, in un gesto, in un’opera, la possibilità della compassione. Penso che se avete mai provato a fotografare una ragnatela. La messa a fuoco ardua per la sua esile consistenza, lo sfondo emerge, occorre illuminarla. Ecco che allora le nostre vite sono ragnatele, costruite tra un ramo e l’altro dei giorni che si perdono nel tempo, qua è là uno strappo oppure un filo che pende. Solo quando le colpisce la luce dell’amore si rendono visibili. La fotografia ha molto in comune con la poesia, alle origini di quella vera rivoluzione della prima metà dell’Ottocento, a quando cioè, con i primi dagherrotipi, mutò il modo in cui vedere le cose, e mutò anche il modo in cui si “usino” le immagini. La macchina fotografica può rivelare i segreti che l’occhio nudo o la mente non colgono, sparisce tutto tranne quello che viene messo a fuoco con l’obiettivo. La fotografia è un esercizio d’osservazione un esercizio dell’arte del fotografo che ha Cuorgnè come sinonimo Foto Ferro. Una famiglia, Ferro, che ha fatto da generazioni la fotografia come una missione nella vita. Tutto iniziò da Erminio Ferro che intraprese la propria attività a partire dal 1898. Erminio Ferro era nato a Casale nel 1879 da una famiglia di albergatori, aveva dimostrato da ragazzo una forte passione per la moderna arte fotografica. A sedici anni lavorava già nello studio Menzio a Casale. Nel 1898 Erminio Ferro giunse in Canavese per fare visita ad un cugino frate del Santuario di Belmonte. Resosi conto che non c’erano nel Canavese attività, per allora rivoluzionaria, della fotografia, e dopo quattro anni trascorsi alla ricerca di clienti apri il primo studio a Cuorgnè, il secondo a Rivarolo ed il terzo a Pont Canavese. Oggi l’attività viene portata avanti dal nipote Erminio, con lo stesso nome del nonno e la stessa passione per la fotografia. Dove continua la tradizione Ferro che una fotografia è una storia, non un indirizzo a cui recarsi con delle macchine sofisticate e filtri giusti. Una storia vuol dire leggere, studiare, prepararsi. Fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa. La grande foto è l’immagine di un’idea. Nelle foto che espone viene arrestato il movimento, che è vita, con mezzi artificiali, tenuto fermo ma in tal modo che dopo cent’anni, quando io estraneo lo guardo, torna a muoversi, perché è vita, è la nostra storia le nostre radici
Favria, 10.10.2015 Giorgio Cortese

Quando leggo un libro con la mente, ritengo che la sede del piacere artistico sia tra le scapole, per quel piccolo brivido che avverto lì dietro quando mi emoziono al racconto o alla poesia. Ritengo questa vibrazione sia dovuto al fatto che il cervello è solo cervello è solo una continuazione della spina dorsale; lo stoppino corre in realtà per tutta la lunghezza della candela. Se non sono capace di godere di questo brivido, il libro che leggo non merita di essere letto.

Personalmente mi piacciono le foto che raccontano. Ma non necessariamente racconti come romanzi, ma piuttosto racconti come poesie. La poesia è un’emozione in quattro righe. La fotografia dovrebbe essere come una poesia.

Chi è senza peccato scagli la prima auto diesel?
Leggendo sui media il recente scandalo automobilistico, mi sono documentato e questa è la mia riflessione. Oggi una nota marca di auto Europea è sul banco degli imputati. Reo confesso, il suo AD, si è cosparso il capo di cenere, reo confesso, e ha chiesto scusa al mondo e alla fine l’amministratore delegato ha annunciato le dimissioni dopo un confronto durato ore con i membri del board della compagnia automobilistica. Che strano? Secondo alcuni media il trucco fatto da questa costruttrice di auto europea avrebbe avuto lo scopo di ridurre il conteggio degli ossidi di azoto, un semplice irritante polmonare, per alcuni individui e non per tutti, non un vero inquinante! Ma questo irritante negli USA aveva la cattiva fama di potersi combinare con i vapori di benzina che uscivano dai pentoloni ribollenti dei grossi carburatori made in USA producendo smog fotochimico sotto l’effetto del sole di California. Oggi quell’atmosfera è limpida, lo smog fotochimico è sparito grazie all’adozione del catalizzatore, ma negli anni Sessanta e Settanta, quando il cielo di Los Angeles era saturo di nebbia rossastra, il colore dell’ossido di azoto è, appunto, rosso. Cosa è rimasto di allora? La fobia tutta yankee per gli NOx, gli ossidi di azoto, additati come nemici dell’umanità. Non fa nulla se un loro parente, l’N2O viene usato nel viagra come stimolante, non fa niente se gli NOx sono composti azotati che la natura si crea da sola con i fulmini per rendere fertile il terreno. Oggi altre nazioneeuropee con le relative case automobilistiche ipocritamente si stracciano i vestiti per questo scandalo ma siamo sicuri che anche loro non abbiano eluso i test sulle emissioni di gas nocivi, oppure avrebbero fatto lobby per mantenere tale escamotage in seno alla Ue? Ma la cosa che non mi spiego è l’astio statunitense verso l’emissione di ossidi di azoto che rappresenta oggi l’unico punto debole del motore diesel, ma forse il loro obbiettivo non è la salute delle persone conto l’inquinamento globale ma un attacco contro l’industria motoristica europea specializzata nel diesel. Solo cos’ mi riesco a spiegare la caccia all’untore contro la casa automobilistica europea.
Favria, 11.10.2015 Giorgio Cortese

Certi giorni dovrei avere la cattiveria di bambino abbinata alla saggezza di filosofo ed il tutto con una buona dose di umiltà di santo per superare certi quotidiani ostacoli.

Soa pi bela gioventù!
18° Raduno del 1° Raggruppamento Alpini
Ogni tanto mi capita di dire, con le persone più varie, che sono un Alpino. Appena pronunciata la parola Alpino, mi accorgo che sul viso di molte persone appare un sorriso. Un sorriso che è sempre di simpatia e di grande stupore. Eccomi qua, ritornato dall’adunata del 18° Raduno del 1° Raggruppamento Alpini ad Acqui. Ogni raduno è una festa, un divertimento con il Gruppo Alpini di Favria, bella compagnia, bei canti, buon il mangiare ed il bere del buon vino, e anche una bella giornata di sole. Quando arrivano gli Alpini tutto cambia in città, nessuno può fare a meno di notare la loro presenza, i loro cappelli, i loro canti, la loro gentilezza ed i loro sorrisi avvolgono tutto e tutti e trovarsi all’interno di tale contesto di festa fa venir voglia a chiunque di indossare il loro cappello con la penna, nera, marrone o bianca che sia, svettante verso il cielo. Questi raduni sono l’occasione per stare insieme e se ripenso all’adunata vedo ancora avanzare quel fiume di penne nere lungo le strade di Acqui. Mi chiedo ogni volta mi chiedo quale sia il magnifico collante umano che unisce migliaia di persone on vite diversissime tra loro. Non è un sogno ma è una realtà formata da tante vite vissute operosamente, con coraggio quotidiano nel compiere il proprio dovere nel ricordo grato di tutti gli Alpini andati avanti, magari nel compiere più del proprio dovere, per esempio nelle numerosissime Associazioni Nazionali Alpini che questo fanno nel silenzio discreto del fare senza voler apparire. E queste vite quel sogno se lo portano appiccicato sul viso di ciascuno, nello sguardo sereno, nel passo unico nell’avanzare vicini e compatti, senza alcuna incertezza, con il rumore di un unico scarpone. Poi si torna a casa, ma nessuno resta solo, sii torna a casa con quel sogno appiccicato sul viso, con lo sguardo sereno, continuando a sentire la presenza dei compagni vicini e compatti nel suono di un unico scarpone. A molti potrà sembrare strano: si torna a casa con tutti i partecipanti, non ciascuno a casa sua ma tutti a casa di ciascuno! Grazie Alpini siete la più bella gioventù come recita “la marcia dj coscrit piemonteis”, scritta nel 1899 dal poeta piemontese Giovanni Gastaldi e musicata dal maestro Raffaele Cuconato. Per gli Alpini essere giovani vuole dire tenere aperto la porta della speranza, anche quando la giornata è grigia ed il cielo si è stancato di essere azzurro, il segno della giovinezza nell’animo è forse una magnifica vocazione per arrivare alla felicità nelle piccole cose quotidiane. Grazie Alpini e simpatizzanti che oggi eravate ad Acqui, grazie di cuore.
Favria 12.10.2015 Giorgio Cortese

Nella lunga storia del genere umano, e anche del genere animale, hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

La vita con i suoi quotidiani imprevisti mi insegna l’umiltà.
Diverso tempo addietro ho trovato questa frase in un libro che ho trascritto:”Chi si mette in mostra da sé non verrà mai in luce, chi si approva da sé non verrà considerato, chi si vanta da sé non avrà valore, chi si gloria da sé non sarà glorificato”, frase attribuita al pensatore Lao-tsu con la sua Regola celeste, un personaggio un po’ reale, visse attorno al VI-V secolo a. C., e un po’ mitico,. La sua è una pacata ma severa critica sulla vanagloria, variante un po’ ridicola del vizio capitale della superbia. L’aspetto più patetico della vanità è proprio il rischio di cadere, senz’accorgersene, nel comico e nella macchietta. I vanitosi allargano la ruota del loro orgoglio come pavoni, per usare un’immagine presa dal poeta latino Ovidio il quale sferzava la persona presuntuosa come laudato pavone superbior, più superbo di un pavone lodato. Nella vita quotidiana ogni tanto incontro uomini e donne, anche intelligenti, che non sanno resistere a questo vizio, e si celebrano, ancora prima di iniziare un lavoro, con esiti imbarazzanti, ed anche comici, che essi però non avvertono e vanno avanti dando mano alla manovella dell’auto–elogio senza rossore. I verbi usati da Lao–tsu sono significativi: mettersi in mostra, approvarsi, vantarsi, gloriarsi. C’è in essi tutta la storia di politici, di cattedratici, di generali, di manager, dei potenti di turno. Ma a questo punto, attenzione: come ammoniva La Rochefoucauld, “ciò che rende la vanità degli altri insopportabile è che offende la nostra”.. Il vecchio rabbino stava morendo, racconta una storiella ebrea, e tutti ne tessevano i meriti. Alla fine la moglie vide che si agitava. Accostò l’orecchio alle sue labbra e sentì: “Nessuno ha lodato la mia grande umiltà!” Ecco il nocciolo del la questione, certe persone si proclamano a parole umili ma poi ammirano la presunzione di Peter Pan, che era questa una delle sue doti più affascinanti. Purtroppo la vita è una lunga lezione di umiltà. Per certe persone è duro essere umili, quando si sentono perfetti in ogni cosa. In una in una società come la nostra, l’umiltà rappresenta una virtù importante. Imparare ad essere umili è fondamentale per sviluppare relazioni migliori e più ricche con le altre persone. La parola ‘umiltà’ ha un profondo legame con la parola ‘libertà’. Questo legame non è così evidente, perché spesso noi parliamo di ‘umiltà’ in un senso diverso dal vero significato di questa parola. Ne parliamo troppo, ne parliamo a sproposito, e, a forza di parlarne, logoriamo questa parola delicata e la facciamo diventare inutile e consunta. Essere umili significa stare con i piedi per terra, sull’humus. Vivere umilmente non è affatto il mio solito modo di vivere, anche se forse potrei esserne convinto. Se perdo il treno posso sentirmi umiliato, se prendo il raffreddore e mi chiedo perché proprio a me debba toccare questa sfortuna, magari nei giorni in cui avevo bisogno di tutta la lucidità.. Qualsiasi evento negativo a volte mi umilia nell’animo e devo allora ammettere che non sono onnipotente. Fa cadere il mio io da un piedistallo. In una società in cui l’io prevale, anche un piccolo disagio, anche una minima contrarietà minacciano la presunta onnipotenza dell’io. L’io scopre di avere dei limiti, e questo è percepito come umiliante. Allora ho fatto mia la frase che nel 1688 Jean de La Bruyere scrisse: “ La modestia è per il merito quello che sono le ombre per le figure di un quadro: gli dà forza e rilievo”. Nella vita posso anche arrivare ad essere il ramo più alto, la cima, quello che non si raggiunge mai è l’umiltà. Perché nella vita siamo tutti apprendisti in un mestiere dove non si diventa mai maestri
Favria 13.10.2015 Giorgio Cortese

Non esiste una magia come quella delle parole.. le parole sono la più potente arma usata dagli esseri umani

All’ora del tè!
Una sera di ottobre mi sono trovato dopo il lavoro alle 17,30, all’ora del tè, a casa di Pasquale e Pansy. Il tè, una delle bevande più antiche e consumate al mondo, in Occidente, perdendo i suoi connotati mistici tipicamente Orientali, è sempre stato vissuto come bevanda di compagnia e di intrattenimento mondano. Per molti anni fu un piacere strettamente aristocratico, riservato alle classi privilegiate, divenendo in seguito, anche e soprattutto grazie al colonialismo, una bevanda alla portata di tutti. Ma cosa si cela dietro a questa famosa ed inebriante bevanda ambrata, per il cui aroma intenso e raffinato vennero combattute guerre sui mari e rivoluzioni, e si intrapresero colture tanto sterminate da cambiare l’economia di interi paesi? il tè non ha nulla dell’inebriante arroganza del vino e dell’individualismo del caffè o dell’affettata innocenza del cacao, ma un gusto sottile, particolarmente adatto ad essere idealizzato. Sarà per questo che il tè, da quando è venuto alla ribalta in Europa, importato dagli olandesi nel 1610, ma furono due italiani, il veneziano Giovanni Ramusio, e il gesuita Matteo Ricci, nel 1559, i primi a parlare e scrivere di tè in Europa, è sempre stato fonte di ispirazione per poeti ed artisti, che lo ritrassero e lo decantarono, oltre naturalmente a berne in quantità industriali? In Inghilterra, oggi considerata la vera patria del tè, la prima apparizione della tanto decantata bevanda avvenne nel 1645, attraverso l’Olanda. Nel 1658 un trafiletto del giornale brittanico Mercurius Politicus esibiva la prima pubblicità del tè, informando i lettori che le autorità competenti avevano approvato una nuova bevanda cinese, chiamata dai cinesi Teha, e che la si poteva trovare in un locale della City: la Coffe House ‘Sultaness Head’. Qualcuno disse: ‘Chi ha bevuto del caffè in Inghilterra capisce perchè gli inglesi siano accaniti bevitori di tè’. Tuttavia, è un dato di fatto che le caffetterie nel Settecento divennero sempre meno luoghi di distribuzione del caffè e sempre più templi dedicati alla degustazione del tè, per soli uomini, dove, tra una tazza e l’altra si discutevano idee e affari e si criticava il governo, al punto da spingere l’allora Re Carlo II ad emanare un decreto per chiudere le Coffe House, per paura di sedizioni. le proteste, tuttavia, furono talmente vibranti da annullare l’ordinanza in favore di una legge, meno restrittiva, che limitava il consumo di tè alle sole classi privilegiate: ‘Il piacere tratto da questa bevanda può sfavorevolmente influire sui lavoratori’ era l’avvertimento. Il tè, per quei pochi fortunati, dunque, che potevano permetterselo, si beveva quasi sempre con accompagnamento di latte, o addirittura con due tuorli sbattuti, usanza bizzarra, se si considera che in Oriente non se ne era mai fatto uso. Ma agli inglesi, del resto, poco importavano le antiche tradizioni che da sempre accompagnavano il rito del tè, considerato dai suoi padri orientali una bevanda medicamentosa e contemplativa. Oltre ai nobili, molti intellettuali erano bevitori di tè: era scoppiata una vera e propria moda, che portava i più a cercare nell’ambrato infuso sensazioni nuove e illuminanti. La svolta nel consumo di tè, tuttavia, si ebbe nel 1717: Thomas Twining (questo nome vi suona familiare?) decise di allargare la sua attività e comprò un locale al fianco di una Coffe House molto frequentata, aprendovi un negozio dove si vendevano tè e caffè sfusi. Il locale, ancora esistente, era aperto a tutti, donne comprese, e quella fu la sua fortuna. In poco tempo le donne divennero accanite bevitrici di tè, e, secondo la tradizione, fu proprio una donna, la Duchessa di Bedfort, a inventare la moda dell’afternoon tea: il tè pomeridiano delle signore. In epoca vittoriana il tè delle signore era diventato un’occasione unica per intrattenere relazioni sociali: le donne cominciarono a farsi visita per bere tè e mangiare panini, toast e pasticcini. Alla padrona di casa, e all’eventuale figlia, spettava il compito di servire il tè nel modo più raffinato possibile: era diventato un vero e proprio rito, certo, non paragonabile al significato che gli si continuava ad attribuire in Oriente, ma sicuramente di una certa importanza nell’ambito della borghesia dei tempi. Ritornando alla sera che sono stato a prendere il tè, sono mol.to contento dell’onore avuto nel poter ascoltare con gli altri commensali l’ascolto della fluida prosa di Pasquale che con la moglie Pansy trasforma la casa durante il soggiorno in Canavese in un Convivio letterario, dove alle prelibatezze della buonissima torta allo zenzero ed ai salatini si è abbinato un eccellente tè e dell’ottimo moscato. Ma tutto era di contorno a sprazzi di brani che hanno rapito il mio animo e descrivono il viaggio recente viaggio compiuto dai padroni di casa in Israele, ed io ho viaggiato con il mio animo con loro, rapito dalla descrizione dei luoghi che mi ha permesso di viaggiarte nelle mente per condividerne le Vostre esperienze. Ti dico grazie di cuore per questa belle esperienza che ho potuto condividere con Voi. Con stima ed affetto Giorgio
Favria, 14.10.2015 Giorgio Cortese

Il cibo, con le sue forme, le sue consistenze, i suoi profumi e le occasioni sociali che crea, nella storia della lettere ha ispirato le penne di molti poeti. Il suo forte valore evocativo lo ha reso un mezzo per parlare di emozioni, di situazioni, suggestioni e stati d’animo.