Gestae Favriesi. Suono della campane parrocchiali 1731-1732-1733-1734 – 24 maggio 1915 il Piave mormorava! – Anche la sabbia rilucente si crede oro.- Da un vecchio astuccio…- Il violino nel Barocco -Cariatidi o palloni gonfiati!…le pagine di Giorgio Cortese

Res Gestae Favriesi. Suono della campane parrocchiali 1731-1732-1733-1734
“Primo il Sonatore a Cui sarà deliberato il suono della Campane esistenti sopra li due Campanili delle suddette Parochie sarà tenuto, et obligato durante il termine di quattro anni sonare le dette campane in tutte le feste tanto di precetto che votive mel corso di detti quatro anni nelle Messe grandi, Parochiali, Vespri in tutte le processioni che si fano cioè nella prima, e seconda Domenica di cadaun mese le Campane del S.Pietrro e Paiolo con tutte le feste in esso appartenenti, et la Terza, Quarta e Quinta parimenti di cadun mese le Campane di detta Parochiale di San Michele et le feste in esso appartenenti, et nelle feste Principali di cadun anno sonar tutte le Campane all’Ave Maria, la mattina, mezzogiorno et la sera, et nelle altre feste conforme al solito”.
Favria 23.05.2015 Giorgio Cortese

Affermare che la guerra il concime del coraggio e della virtù è come dichiarare che la corruzione il concime dell’amore.

24 maggio 1915 il Piave mormorava!
Cento anni fa l’Italia entrava in guerra. Il conflitto fece 700mila morti e lo lasciò una profonda crisi politica, sociale ed economica. “ IL Piave mormorava/, calmo e placido, al passaggio/ dei primi fanti il 24 maggio”. Il 24 maggio 1915, l’Italia entrava in guerra contro gli Imperi centrali, gettandosi nella Prima Guerra Mondiale dieci mesi dopo l’inizio delle ostilità in Europa. Era un lunedì. Alle 3:30, precedute dai tiri degli obici, le truppe italiane oltrepassarono il confine italo-austriaco, puntando verso le «terre irredente» del Trentino, del Friuli, della Venezia Giulia. Nel 1918, a guerra finita, un poeta e musicista napoletano, Giovanni Gaeta, più noto con lo pseudonimo di E. A. Mario, trasformò quel momento nella “Leggenda del Piave”, una canzone destinata a entrare nella memoria collettiva di noi italiani. Ma facciamo un passo indietro, il 28 luglio 1914, in Europa prese avvio ufficialmente uno scontro armato destinato a cambiare per sempre il futuro del mondo, nonché il concetto stesso di guerra. Iniziata in modo circoscritto, in pochi giorni la guerra si estese rapidamente fino a coinvolgere 28 Paesi ed ampliare il proprio raggio d’azione a quasi tutto il mondo. Alla fine delle ostilità, l’11 novembre 1918, il conflitto si sarebbe mostrato agli storici in tutte le sue dimensioni di “grande guerra”, lasciando sul campo circa 8 milioni di vittime e 20 milioni di feriti tra i militari, nonché circa 7 milioni di civili morti per azioni militari o per le conseguenze. L’Italia entrò in guerra divisa tra interventisti e neutralisti, dopo un disinvolto cambio di alleanze, dalla Triplice all’Intesa. Sulle sponde del Piave e dell’Isonzo, nelle trincee del Carso e della Bainsizza, di Asiago e di Passo Buole, di Caporetto e di Vittorio Veneto combatté la “meglio gioventù, guidata, secondo alcuni storici, da generali incapaci, incompetenti e inetti che li mandarono allo sbaraglio. Dalla guerra, l’Italia ottenne Trento e Trieste, ma ne uscì prostrata, lacerata da una profonda crisi politica, sociale ed economica, che la portò in breve al Fascismo. Eppure la “Grande Guerra”, come fu chiamata, è forse l’unica guerra della quale gli italiani abbiano, come si suole dire, una memoria condivisa, l’ultimo atto dell’epopea Risorgimentale. La Prima Guerra Mondiale fu un enorme massacro, fu la prima guerra moderna. Gli eserciti si trovarono impantanati nelle trincee. Nuove armi furono impiegate su larga scala: aerei, sottomarini, carri armati, mitragliatrici, gas tossici, La guerra provocò la dissoluzione dell’Impero austroungarico, di quello tedesco, di quello ottomano e mise fine a quello degli Zar, travolto dalla rivoluzione bolscevica del 1917. Fu l’inizio del declino della vecchia Europa e sancì l’ingresso sulla scena mondiale, come grande potenza militare ed economica, degli Stati Uniti, intervenuti nel 1917 a salvare le sorti dell’Intesa. Si portò dietro un’epidemia, la “spagnola”, che tra 1918 e il 1919 provocò più morti della guerra; un’inflazione e una recessione che culminarono nella Grande Crisi del 1929; un’eredità di odi, di frustrazioni e di rivalità nazionali che nell’arco di due decenni sfociarono fatalmente nel secondo conflitto mondiale. Una delle poche voci che si levarono contro la guerra fu quella di Benedetto XV, il “Papa della pace”. Egli il 1 agosto 1917, poco prima della rotta italiana a Caporetto del 24 ottobre 1917, chiese invano alle potenze belligeranti il disarmo e il ricorso all’arbitrato per la “cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno, più apparisce inutile strage”. Ma troppi erano i motivi che spingevano l’Europa al massacro: la rivalità economica e gli interessi in Medio Oriente di Regno Unito e Reich tedesco; il revanscismo francese per Alsazia e Lorena; lo scontro tra pangermanesimo tedesco e panslavismo sul Baltico; gli appetiti delle maggiori potenze per le spoglie del fatiscente impero ottomano; l’irredentismo in Italia e nei Balcani, dove il serbo Gavrilo Princip fece scoccare la scintilla, assassinando l’erede al trono austriaco a Sarajevo. Nel 1919 la Conferenza di pace di Parigi, dominata dal presidente americano Woodrow Wilson, deluse le aspettative degli interventisti. L’Italia ottenne Trento, Trieste e l’Istria, più l’Alto Adige etnicamente tedesco; ma non Fiume e la Dalmazia. Il presidente del consiglio Orlando e il ministro degli esteri Sonnino, per protesta, abbandonarono temporaneamente la conferenza, restando fuori anche dalla spartizione delle colonie tedesche. Ne nacque il mito della “vittoria tradita”, che mosse D’Annunzio e i suoi legionari a occupare Fiume e a dar vita all’effimera “Reggenza del Carnaro”, e fu utilizzato a proprio vantaggio dal nascente partito fascista, avviato alla conquista del potere. Anche la “Leggenda del Piave” di E.A. Mario finì per servire allo scopo. La crisi economica, la svalutazione della lira, la debolezza della classe dirigente liberale, le ripetute crisi di governo, le agitazioni di piazza e l’occupazione delle fabbriche nel “biennio rosso”, i timori della Corona e della borghesia fecero il resto. Dal 4 novembre 1918, data della firma dell’armistizio con l’Austria, al 22 ottobre 1922, data della Marcia su Roma, non passarono che quattro anni. Una tragedia i cui effetti hanno coinvolto nell’immediato singole persone, famiglie e l’intera società, ma una tragedia che molto probabilmente ha segnato in modo indelebile il nostro modo di vivere e di pensare. La guerra è la peggiore condizione in cui può venirsi a trovare un essere umano e, peggio ancora, per causa altrui. Le guerre coinvolgono anche chi non ha nessuna colpa e chi non le vuole. Mai nel corso della storia un conflitto armato aveva provocato tanta morte e distruzione in così poco tempo. Che evoluzione distruttiva aveva fatto la guerra in 60/70 anni, quando il nostro favriese Cav.Francesco Antonio Costantino, che in Crime nel 1953, 13 giugno aveva ricevuto il battesimo del fuoco, voglio citare, le toccanti parole sulla guerra tratte dal suo diario: “Ma poco tempo dopo, venne l’ordine dal Comandante de’ Bersaglieri Sig Colonnello di Saint-Pierre di stenderci per occupare le sponde della Cernaja -Alla prima carica alla baionetta fummo costretti a saltar nel torrente, e traversarlo onde meglio difendereli dalle palle nemiche, il detto Battaglione si slanciò tre volte alla carica, e si difese disperatamente sino alle ore dieci e 1/2. che cessò la battaglia, vinta dagli Alleati. Francesi, Inglesi, Turchi, e Sardi. Si contarono circa 6000. morti sul terreno, e quasi altrettanti feriti in tale fatto d’arme. Presso il ponte di Trakir, ancora tre ore dopo la battaglia, e per una distesa di 400 o 500 metri., la terra era del tutto coperta di cadaveri nemici non che di armi ed effetti militari”. Infine dobbiamo ricordare il ruolo delle donne, mentre gli uomini erano al fronte. Dobbiamo ricordare che le donne durante la Grande Guerra, presero il loro posto nella società, come autiste di bus, tram, nelle fabbriche e nelle campagne. Dobbiamo ricordare oltre agli alpini, i fanti, gli arditi, gli artiglieri, i marinai, gli aviatori, ma dobbiamo ricordare anche gli animali: i muli, fedeli amici degli alpini che vennero uccisi dal fuoco nemico, mentre portavano viveri e munizioni sulle ripide montagne. Un pensiero ai caduti senza croce, ai dispersi. Esiste, nel gergo degli Alpini, un’espressione toccante per definire coloro che ci hanno preceduto nella pace eterna: “Sono andati avanti!” Questo lessico, profondo nella sua semplicità, definisce i caduti come coloro che ci hanno preceduto, restando pertanto invisibili a noi viventi, ma non assenti perché la loro presenza rivive nel nostro essere quotidiano, nella nostra realtà umana, nella nostra comune conoscenza e con questo spirito e con questi sentimenti vogliamo ricordarli. Per molti di loro neanche una tomba su cui le mani pietose di una mamma potessero posare un fiore. Dopo la Prima Guerra Mondiale sono nati i gruppi alpini, queste atroci esperienze hanno indotto i Reduci ad essere promotori, nell’arco di tutta una vita, di quei valori ed ideali che ripudiano la violenza e che si ispirano alla ricerca, al mantenimento ed alla difesa della Pace tramite il reciproco dialogo dei Popoli, ma soprattutto dei loro Governanti. Noi alpini non siamo dei nostalgici militaristi al servizio del potente di turno, nè tanto meno siamo stati dei violenti sopraffattori nei conflitti che ci hanno visti coinvolti. Nel dna alpino c’è il ripudio della violenza. Oggi, nel nostro Paese, si è radicata questa convinzione per cui sono più bravi, i più furbi, coloro che non stanno alle regole, che con il loro comportamento si sentono legittimati a fare qualunque cosa, impunemente. In realtà, così facendo, non fanno altro che offendere coloro che invece sanno che le regole vanno rispettate, perché capiscono che sono necessarie e che vanno nella direzione di una convivenza civile e pacifica. Farsi beffe delle leggi equivale a commettere una scorrettezza nei confronti di tutti gli altri, significa andare contro a quella pace che la Costituzione ci indica come la strada maestra per il benessere di tutti. Per cui il nostro comportamento deve sempre andare nella direzione di difendere la dignità delle altre persone, aiutare chi è in difficoltà, aumentare le nostre conoscenze , per costruire una società migliore di quella che ci hanno lasciato i nostri Padri. L’alpino, giovane o vecchio che sia, è uno che ha imparato a mettere, al primo posto, gli altri. Per gli altri, noi alpini ci sacrifichiamo con lealtà, generosità e coraggio, valori che contraddistinguono, da sempre, il corpo degli Alpini. Molti dei nostri “Giovani” avrebbero bisogno di scoprire questi valori, perché la società in cui vivono ne palesa la totale mancanza. Ecco perché, oggi, parliamo di guerra, di memoria storica nel ricordo dei Caduti e dei Dispersi, di valori, di ideali, di Pace. Dobbiamo essere sempre aperti al confronto costruttivo e al dialogo nel rispetto dei diritti e doveri, non dobbiamo mai dimenticare che le parole DIRITTI E DOVERI sono collegate strettamente. Questo è il modo migliore per commemorare degnamente i nostri caduti, ricordando a tutti, il sacrificio di chi ci ha preceduto, per evitare di fare gli stessi errori, all’ insegna del motto di onorare i morti, aiutando i vivi!
Il 24 maggio 1915 il Piave mormorava!
Viva gli Alpini, W l’Italia! Grazie.
Favria, 24.5.2015 Giorgio Cortese

Quando viene dichiarata una guerra, la prima vittima è la Verità! Tutte le guerre sono sempre colpa di noi uomini, le donne, anziani e bambini partecipano sempre solo nel ruolo di vittime innocenti!
Se nella vita non miro a qualcosa, non colpirò mai a nulla.
Anche la sabbia rilucente si crede oro.
Ritengo che difendere le mie idee sia nel mio diritto, ma volere la ragione a tutti i costi è da presuntuoso. Mi devo sempre ricordare che la presunzione è figlia dell’ignoranza ed è la madre della mala creanza, se mi ammalo di presunzione poi penso di essere una persona d’importanza. Mi immagino il presuntuoso colui il quale pensa c he chi non la pensa come lui sbaglia e non accetta i consigli e pensa che sia tutto facile da realizzare. E allora non ho mai pietà dei presuntuosi, perché penso che portano con sé il loro conforto, sono simili alla sabbia rilucente che si crede oro splendente
Favria 25.05.2015 Giorgio Cortese

Con ovattate speranze, sottovoce si annuncia il nuovo giorno.

Da un vecchio astuccio…
Un concittadino ha trovato abbattendo un antico muro di un fienile un astuccio di cuoio a forma cilindrica logorato dal tempo ma che all’interno conservava una preziosa ed antica pergamena. In questa pergamena vengono evocati fatti avvenuti qualche anno dopo l’anno Mille. L’inizio è molto mal conservato ed il racconto incomincia ad essere leggibile dopo le prime righe ed è stato tradotto da una dotta persona dal tardo latino di allora in un italiano attuale comprensibile “il mio nome è chierico Petrus Taritius e ho scritto questi avvenimenti perché vengano tramandati ai posteri, se ci saranno posteri dopo l’arrivo del millesimo anno della storia della Cristianità. In un giorno a ridosso dell’anno Mille, era da poco suonata la campana dell’ora terza (che corrisponde alle 9 del mattino), quando attraverso la densa cappa di foglie del querceto nel bosco della Favriasca che sorgeva sul limitare del villaggio, posto lungo l’antica strada romana(denominata inseguito via Levata ndt) vidi arrivare un folto gruppo di cavalieri, seguiti a breve distanza, da carri trainati da buoi su cui c’erano uomini armati di asce barbute tra le masserizie. Ebbi, da subito, grande terrore nell’animo, pensai subito a dei razziatori ungari! Il ricordo delle loro razzie era ancora vivo nella mia memoria, quando nel 954 d.C. mi trovavo ad Augusta Taurinorum e da loro era stata razziata. Mi soggiunse allora in mente che cosa mi aveva detto, Arnulfo, il capo degli armigeri preposto a guardia del castellum. Al mattino aveva da poco suonato l’ora del primo albore( la prima ora del giorno che corrisponde attualmente alle ore 7del mattino, nd.t) dello strano sogno che aveva fatto. Un leone era inseguito dai dei grandi cani, ma poi il leone si era rifugiato su dii uno sperone di roccia e aveva sbranato tutti i molossi che lo inseguivano. Pallidi quadrelli di luce colpivano a raffica le sagome di quella colonna di uomini, cavalli e carri e carrozze che avanzavano lentamente fuori dal bosco e il sordo rumore degli zoccoli, il cigolare delle ruote, sul sottobosco umido fece girare la teste ai contadini che stavano lavorando, quella mattina, fuori dal castellum, tagliando la legna e disboscando del terreno per renderlo coltivabile e nello stesso tempo facendo delle provviste per il prossimo inverno. Ero corso su un punto alto del ricetto, posto quasi a ridosso del castrum. La colonna si era fermata di fronte al quel gruppo di capanne con il tetto di paglia, sorte vicino alle rovine di una antica villa romana, ora ricostruita come un rudimentale castello a pertica. L’avanguardia degli armigeri chiese in lingua volgare con forte accento tedesco il nome del luogo e dei contadini timorosi riposero “Fabrice,”, concludendo l’affermazione con il deferente Domine. Dalla testa della colonna spuntò, allora un cavaliere con una bella armatura barbuta armato di un possente spadone. Ebbi un tremito nella schiena, riconobbi prima nelle sue insegne e poi in lui Arduino colui che aveva saccheggiato città e ucciso pure un vescovo e la successiva distruzione del cadavere mediante il fuoco! Questa atroce notizia aveva fatto il giro per il contado, ed ora Arduino con le milizie e a lui fedeli proveniente dall’antica strada romana che partiva da Augusta Taurinorum era arrivato fino nello sperduto villaggio di capanne chiamato Fabrica, sorto accanto ai ruderi di una vecchia costruzione romana. Ormai la colonna al completo aveva raggiunto il villaggio per razziare viveri e uomini. Arduino in persona chiese se c’era qualcuno capace di scrivere e venni portato con mio gran timore al suo cospetto. Mi domandò con voce autorevole di scrivere un messaggio ad un suo feudatario e lui fedele Sigifriedo. Nel messaggio gli chiedeva di raggiungerlo nell’ oppidum Sparrones, (nota del traduttore, trattasi dell’odierna Sparone con la sua Rocca, il toponimo deriva dalla voce longobarda sparrone, ossia pertica che veniva innalzata sulle alture per indicare la proprietà del luogo). Poi mi fece compilare altra lettera per il fratello Viberto che lo aspettava nei pressi di Corgnate (Cuorgnè, nota del traduttore) di aspettarlo colà per passare lì la notte, prima di dirigersi con le forze unite verso l’oppidum. Il messaggero partì subito con un cavallo preso dal villaggio e mai più lo vidi. Arduino aveva un viso regolare, una barba castana et ispidi capelli chiari. La colonna era armata di balestre a leva, a martinello e su alcuni carri erano montate delle balestre a molinello. Quest’ultima era così chiamata per le sue grandi dimensioni, molto potente, ma per farla funzionare, come avevo visto ad Augusta Taurinorum occorrevano vari uomini e per tendere l’arco c’era nell’altro carro un grosso e forte congegno, un argano. Armi così le avevo viste appunto sulle mura di Agusta Taurinorum. I fanti al suo seguito erano anche armati con asce barbute e con dei Bec de Corbin, così chiamati in lingua franca (becco di corvo, in italiano mazzapicchio nota del traduttore). Dopo essersi rifocillati ed aver preso a piene mani quasi tutti viveri ammassati nei granai e tutti gli animali da cortile la colonna si rimise in marcia verso Corgnate accompagnata da alcuni abitanti del villaggio che a forza furono obbligati a seguirli. Il villaggio quel giorno perse il fabbro che venne arruolato con tutta la sua attrezzatura al seguito di Arduino. Narro su questa pergamena i fatti che sono successi a memoria di quanto avvenne…. Il testo di qui in avanti è illeggibile come l’inizio e purtroppo non abbiamo nessuna datazione
Favria, 26.05.2015 Giorgio Cortese

Evitiamo di dire che una cosa è impossibile perchè rischiamo di disturbare chi la sta facendo

Il violino nel Barocco
Geminiani fu molto sensibile alle varie influenze nazionali, come dimostrano i suoi adattamenti di melodie irlandesi, scozzesi e d inglesi e, soprattutto, “la foresta incantata”. Quest’ultimo lavoro è grandemente influenzato dallo stile francese, sia per la forma sia per l’impianto ammonico e per l’ornamentazione. Si trovano qui gli schemi modulatori del tutto inaspettati e molto più avanzati che nelle altre composizioni orchestrali e da camera. Nonostante non si stacchi mai dalla tecnica del concerto grosso, la sua struttura formale, dettata com’è da esigenze teatrali, si articola in una concatenazione di movimenti brevi e variati, di ritmi e tempi diversi. Geminiani fu molto attento al colore orchestrale, come dimostra l’abitudine di raddoppiare gli archi e i fiati, a cui sono anche concessi passaggi solistici complementari a quelli degli archi. Fu molto sensibile all’importanza dell’ornamentazione e volle sottolineare ogni volta nei suoi trattati quello che egli intendeva significare con ogni simbolo grafico. Tuttavia, nell’indicare sia i crescendo sia i diminuendo, egli supera la dinamica lineare del barocco, a cui rimane invece legato nella scrittura contrappuntistica, restando stranamente insensibile a quella forte tendenza ritmica che, a partire dal 1740, avrebbe caratterizzato la musica italiana. Geminiani è uno dei grandi fautori dello sviluppo della tecnica violinistica. Ciò è dovuto in parte al fatto che in Inghilterra il livello delle esecuzioni era allora piuttosto basso, le sonate di Corelli ad esempio che erano considerate ineseguibili, mentre Geminiani, che con Corelli aveva studiato, non solo le suonava, ma aveva anche in trodotto parecchie innovazioni nella tecnica di esecuzione. Hanno scritto che le sonate di Geminiani erano così difficile da non poter essere eseguita. La fama di Geminiani è affidata oggi più al suo ruolo di padre del violinismo moderno che alla sua attività di compositore
Favria, 27.05.2015 Giorgio Cortese

Se è vero che esistono cammini senza viaggiatori ma purtroppo sono sempre di più di più viaggiatori che non hanno smarrito i loro quotidiani sentieri.

Cariatidi o palloni gonfiati!
Ho recentemente lo sfogo di un amico che paragonava certe persone di sua conoscenza a “cariatidi e palloni gonfiati”. Ma perché definiamo certe persone come cariatidi. Le cariatidi, ragazze di pietra significato del lemma greco, erano statue in origine di belle ragazze, dette anche canèfora che sorreggevano sull’acropoli di Atene i propilei specie di terrazze insomma invece di mettere delle colonne avevano messo colonne in forma di ragazze, mi pare scolpite da Fidia in persona. Le figure maschili con la stessa funzione prendono invece il nome di telamone o atlante. Secondo l’architetto romano Vitruvio, il nome karyàtis, significherebbe “donna di Karya”: le donne di quella città del Peloponneso, sarebbero infatti state rese schiave, pur mantenendo le loro vesti e attributi matronali, dopo la sconfitta e la distruzione della loro patria, come punizione per l’appoggio fornito ai Persiani. Altri dicono che il loro nome deriva forse invece da quello delle fanciulle danzanti della città di Karya, famosa per i suoi cori annuali. Con il tempo le loro statuarie forme si sono deturpate ed adesso dare della vecchia cariatide sia in senso maschile che femminile significa di una persona ferma e fredda come una statua, anche, sostenitori di idee e istituzioni antiquate e sorpassate. Da cariatide a pallone gonfiato il passo è breve. Il pallone gonfiato è quel classico personaggio che si gonfia la bocca di Si gonfia la bocca di parole d’ aria con un minuscolo monosillabo…”Io” un essere complesso, dall’ego smisurato che si riflette sempre nello specchio delle vanità. Accentra su di sé l’altrui attenzione, emulando gesta di gloria con ostentata boria da offendere l’ umiltà e la modestia di chi tace ed in silenzio compie atti di vera bontà. Questi palloni sgonfiati, e per fortuna si sgonfiano, perché la natura li ha dotati di un foro sia per poter prendere fiato e anche per evitare con nel loro continuo gonfiare non possano scoppiare. Una volta sgonfi di loro non resta che l’involucro vuoto dei principi di onestà e moralità e di loro rimane il loro reale aspetto, di persone piccole di cervello.
Favria, 28.05.2015 Giorgio Cortese

Molto lentamente mi affretto a salir i gradini della mia vita, e alla fine spero che con passo fermo varcherò l’uscio, ed il sole riscalderà il mio cuore.