Il Principe del Carnevale-Il cappello a tre punte…-Passaparola per la donazione del 12 febbraio. Grazie!-9 febbraio, Martedì grasso, Mardi gras, Shrove Tuesday, Pancake Day.-Foibe, per ricordare sempre-Tenace, pervicace o pertinace!… Le pagine di Giorgio Cortese

Il Principe del Carnevale
Vi siete mai chiesti da cosa nasce la tradizione di mascherarsi a Carnevale. Secondo alcuni studi questa usanza è da ricercarsi nell’antica tradizione pagana. Durante il periodo dei saturnali che hanno poi dato origine al carnevale, la gente comune amava travestirsi da ricco e viceversa. Quindi chi lo voleva poteva nascondere la propria identità con travestimenti per dedicarsi ai piaceri del corpo e del cibo. Esistono tracce del Carnevale già presso la civiltà babilonese e quella egiziana, come rito propiziatorio in favore della fertilità. I Romani e i Greci in questo periodo celebravano Bacco, il dio del vino, con abbondanti libagioni. Durante l’Impero romano, all’inizio di gennaio, veniva eletto il “Principe del Carnevale”, un uomo che conduceva una processione su un carro: su questo carro vi erano le immagini delle divinità, delle statue nude e delle ragazze seminude che cantavano delle canzoni volgari e che invitavano al piacere sessuale. Molto difficilmente un cristiano dell’epoca avrebbe potuto partecipare al Carnevale. Con la conversione di Costantino che dichiarò il cristianesimo religione di stato, il Carnevale fu abolito. Ma riapparve più tardi, legato ad una festività religiosa, in seno alla Chiesa cattolica. Inizialmente la Chiesa si oppose con fermezza a questo costume pagano, ma alla fine accettò il compromesso: solo chi avesse compiuto tutte le prescrizioni e le privazioni della Quaresima, poteva partecipare al Carnevale. Oggi 9 febbraio 2016, il martedì si chiama “grasso” perché si mangia di più. L’origine di questo nome è della nostra religione Cattolica, questo giorno precede il Mercoledì delle Ceneri che segna il periodo della Quaresima, ed è anche per questo che molti credenti si recano in chiesa per confessarsi proprio in questa giornata. La tradizione religiosa vuole che il Martedì grasso vengano consumati tutti i cibi più succulenti che durante la Quaresima sono vietati. Martedì grasso è perciò tradizionalmente l’ultimo giorno in Italia in cui si possono gustare i tipici dolci di carnevale o anche la carne, il pesce, le uova e i latticini. Fa eccezione la città di Milano, che segue il rito ambrosiano, secondo il quale la Quaresima inizia la domenica seguente. Perciò i festeggiamenti sono posticipati di quattro giorni, al sabato grasso o carnevale ambrosiano
Favria 7.02.2016 Giorgio Cortese

Per essere preparato per il domani, devo sempre fare il mio meglio oggi senza mai rimandare

Il cappello a tre punte…
“Il mio cappello ha tre punte/ ha tre punte il mio cappel/e se non avesse tre punte/non sarebbe il mio cappel…”.Chi da ragazzo non ha mai cantato in campeggio, durante una gita o all’oratorio la celebre canzone del “cappello a tre punte”? La parola cappello deriva da cappa che secondo alcuni deriva dal tardo latino capa dal verbo capere, prendere o contendere, perché avvolge e prende tutta la persona. Secondo altri deriva dall’arabo koeba, specie di mantello o dal turco Kapak, tutto ciò che copre. Insomma la cappa, qualsiasi sia la sua origine, era una volta una sopravveste lunga senza maniche con cappuccio da porre sul capo, cappa è anche un termine marinaresco, ed è la situazione di quando una nave, la quale per un vento forte e burrascoso e contrario è obbligata ad ammainare tutte le sue vele fuorché due delle più piccole quasi a mettersi al coperto dai colpi di vento. Esiste anche il lemma cappa del camino, ma qui il lemma deriva dal greco kapne, vapore, legato a kapnos, fumo. Come sopra detto la parola cappello deriva da cappa, copricapo che asseconda la forma della testa, circondato quasi sempre da un breve lembo sollevato o abbassato, detto tesa. Se ne trovano tracce fin dalla più remota antichità e presso tutti i popoli. In Cina gli imperatori e i nobili portavano una specie di cappello a calotta quadrata con cordoni di seta, il mien. In Giappone usavano anticamente larghi copricapi di paglia o di fibra di bambù. Tra gli Egizi si usavano cappelli con acconciature complicate, nell’antica Grecia e poi in Roma si portarono varie fogge di copricapi, chiamati cucullo, cuffia, petaso, pilfo e tutulo. Nel Medioevo si portò dapprima in Italia una sorta di cappuccio, che ricadeva dal capo a coprire anche le spalle, detto almuzio, poi, quando esso andò in disuso, fu sostituito con berretti di varia foggia, soprattutto fra il popolino di città e nel contado, mentre patrizi e nobili rimasero fedeli al cappuccio, costituito dal mazzocchio, che era il vero copricapo, da cui scendeva fino alla spalla sinistra una falda chiamata foggia e, dietro, una punta di panno detta becchetto, lunga spesso fino ai piedi. Questo cappuccio durò sin verso il termine del sec. XIII e fu soppiantato poi completamente dai berretti e dai cappelli. Da cappello servirono dapprima per le donne cerchi di metallo o intrecci di nastri, penne e fiori, ornati talvolta di gemme, o anche rozzi copricapi di paglia sostituiti spesso dal bicorno da cui si partivano veli ondeggianti o dal cappuccio . Nei conti della corte di Ferrara del 1367 si trova menzionato “un chapelo d’oro et perle”. Ma solo al tempo di Luigi XI di Francia il cappello diventa d’uso comune in Europa. Il cappello di feltro o castoro cominciò a fabbricarsi assai probabilmente all’inizio del Quattrocento, ma il primo che si ricordi è quello che portava nel 1494 Carlo VIII entrando a Roma, foderato di velluto rosso e adorno di un fiocco d’oro. Nel Cinquecento anche in Italia, come dappertutto in Europa, si usavano splendidi copricapi. Venezia, accanto al corno dogale, ebbe il copricapo di panno rosso fasciato di pelliccia e ricadente sugli omeri in nappe, a Napoli i gentiluomini portavano berretti di velluto o con cappelli piumati. A Milano si usava velluto turchino con penne bianche. Torino i nobili portavano berrette varie e cappelli di castoro, lana o paglia, foderati di seta. Cappelli e berretti vengono però portati generalmente dai nobili, mentre il popolo continua a usare il cappuccio. Solo più tardi il cappello si estese a tutte le classi, dapprima a forma rotonda, con l’orlo in basso, cappello a ruota, poi variamente foggiato e colorato. Col sopravvenire della dominazione spagnola si diffondono ovunque i pesanti cappelli ornati di trine, di fiocchi, di medaglie, di piume, così per i gentiluomini come per le dame. Alla corte di Luigi XIII, con l’introduzione dell’uso della parrucca, il cappello acquista falde amplissime, con uno o due lati rialzati. I popolani e i nobili che non adottarono la moda di corte diedero ai ripristinati berretti larghe tese di seta, di velluto o di feltro. Sotto il Re Sole il cappello diventò più basso e più stretto d’ali, sin che ai primi del secolo XVIII si adotta il tricorno, con l’orlo arrotolato e piegato in modo da formare tre punte, il cappello a tre punte menzionato nella canzone all’inizio. Questa forma di cappello domina in tutto il Settecento e l’uso della maschera lo rende ancor più diffuso. Il tricorno, in francese tricorne in spagnolo sombrero de tres picos, deriva dal cappello a due risvolti in uso presso il clero spagnolo, francese ed italiano, detto nicchio, successivamente adottato anche dai civili, pensate che si porta durante periodi storici diversi con la rovescia alzata davanti, con la punta in avanti, inclinato da un lato, più tardi si portò in mano o sotto il braccio, per non sciupare la pettinatura e solo dai mascherati veniva portato in capo. I cappelli con tese amplissime si portano durante la Rivoluzione; mentre l’Impero rende popolare di nuovo il petit chapeau di Napoleone. Nel 1796 fu inventato il cappello a staio che, nato durante la Rivoluzione francese, dilagò poi in tutta l’Europa, diversamente accolto, ma riuscendo a vivere con notevole fortuna sino ai giorni nostri. Dal cappello a staio deriva quello più propriamente detto cilindro, creato intorno al 1805 dal cappellaio londinese Herrigton che fu anzi, per tale sua creazione, solennemente ammonito come perturbatore della pubblica quiete dal lord Mavor. Nel 1812, poi, nacque il gibus, quel caratteristico copricapo di seta inventato da un cappellaio parigino appunto di tal nome, tipico e originale al quale un sistema di molle d’acciaio sottilissime, rientranti, permette di essere ripiegato su sé stesso. Sebbene molti seguitassero, nel primo Ottocento, a preferire il tricorno al cilindro, questo si affermò sempre più come cappello da cerimonia e tale rimane anche ai nostri giorni. ll cappello maschile d’uso ha invece mutato di continuo le sue forme, dal cilindro bassissimo e chiaro, a larghe falde, dei tempi della bohème, all’ampio feltro scuro usato in Romagna e inviso all’Austria come foggia rivoluzionaria, al piccolo cappello duro e basso, all’infinito numero dei cosiddetti cappelli a cencio, fatti di feltro molle, divisi talvolta in mezzo da una piega. Quanto ai cappelli femminili, al principio dell’Ottocento si inizia lo sviluppo di quella che diverrà poi una grande industria italiana: quella dei cappelli di paglia di Firenze. Anche per gli uomini all’uso del cappello di feltro si alterna da molti decennî quello del cappello di paglia estivo, rotondo, la cosiddetta paglietta o magiostrina. Tornando alla canzone “il mio cappello ha tre punte…” in Piemonte, la maschera di Carnevale, Gianduja, che ha il tricorno, nato sul finire del 1700 dalla fantasia di due burattinai, Bellone di Oja, frazione di Racconigi, nel cuneese, e del torinese Sales cosi diceva con amara ironia:” Liberté egalité fraternité, ij fransèis a van an caròssa e noi a pe! Viva la Fransa viva Napoleon, chiel a l’é rich, e noi ëstrasson”. Libertà eguaglianza fraternità, i francesi vanno in carrozza e noi a piedi. Viva la Francia, viva Napoleone, lui è ricco e noi straccioni……” di acqua sotto i molti ne è passata ma queste frasi sono sempre attuali, basta adattarle alla realtà
Favria, 8.02.2016 Cortese Giorgio

Molti cercano la felicità nello stesso modo in cui cercano il cappello ma non sanno di averlo sempre in testa.

Passaparola per la donazione del 12 febbraio. Grazie!
Per un essere umano la donazione del sangue è come donare la vita al prossimo, è un gesto che non costa sacrificio ma che può dare un’altra speranza di vita a chi lo riceve. Ritengo che sia molto importante donare non solo per il semplice gesto ma anche per il fatto che nel momento in cui stai male è confortante sapere che puoi essere aiutato in ogni momento .Conosco molte persone che donano il sangue, e per loro è un gesto di condivisione con gli altri. E allora vieni anche Tu che mi leggi, donare per fare del bene e stare bene venerdì 12 febbraio ore 8,00 -11,20 cortile interno del Comune a Favria. Passaparola per la donazione. Grazie

Rimandare al giorno dopo è una trappola. Troverò sempre delle scuse per indugiare, ma so bene che nella vita esistono solo due cose, le scuse ed i risultati, e con le scuse non si vado mai da nessuna parte

9 febbraio, Martedì grasso, Mardi gras, Shrove Tuesday, Pancake Day.
Questa festa rappresenta la fine della settimana dei giorni grassi, di Carnevale, e che precede il Mercoledì delle Ceneri, il primo giorno di Quaresima. La tradizione voleva che in questa giornata venissero consumati tutti i cibi più prelibati rimasti in casa, che durante la quaresima non potevano essere mangiati, come la carne. E proprio per il fatto che si consumavano cibi grassi che l’ultimo giorno di carnevale è detto in Italia Martedì grasso e in Francia Mardi gras. Fa eccezione gran parte della diocesi di Milano, che segue il rito ambrosiano, secondo il quale la Quaresima inizia la domenica seguente. Perciò i festeggiamenti sono posticipati di quattro giorni, al sabato grasso o carnevale ambrosiano. Il Martedì grasso, ovviamente, non è un’esclusiva festa Italiana, nel l Regno Unito, il giorno precedente al Mercoledì delle Ceneri è conosciuto come Shrove Tuesday. Il termine shrove deriva dal verbo to shrive, confessarsi, ottenere l’assoluzione, questo perché era usanza prima dell’inizio della Quaresima andare a confessare i propri peccati. Negli Stati Uniti, invece, il Martedì grasso, conosciuto con il termine francese Mardi gras, è una festa molto importante e sentita soprattutto nella città di New Orleans. Inoltre negli Stati Uniti si celebra anche il Pancake Day, Giornata della frittella Pancake, in cui vi sono vere e proprie competizione nelle scuole e nei villaggi tra famiglie in cui, uno dei componenti, deve correre con una padella al cui interno si trova una frittella fredda. Per vincere, mentre si corre, bisogna riuscire a far girare il pancake almeno tre volte durante il tragitto compreso tra la partenza e l’arrivo. Sembra che questa tradizione risalga al XV secolo quando una donna, che stava preparando i pancakes per la festa del martedì grasso, si accorse troppo tardi che le campane della chiesa stavano già suonando per la confessione. Per non perdere tempo s’armò di buona volontà e finì di preparare le sue pancakes lungo la strada, in corsa con il grembiule ancora indossato. Non per tutti però, il Martedì grasso è il giorno più importante del Carnevale, in Polonia si festeggia Tłusty czwartek, letteralmente il giovedì grasso, il giovedì che precede il martedì grasso. Secondo la tradizione, questo giorno si mangia i bomboloni alla marmellata di rosa, Pączki, mentre in Germania si celebra il Lunedì Grasso, conosciuto come Rosenmontag, lunedì delle rose e Bolludagur o Semladag in Svezia dal nome del dolce tipico di questo giorno, il Semla.
Favria 9.02.2016 Giorgio Cortese

Certe volte sono io a rendere la vita complicata, in realtà le cose sono molto più semplici di quanto potrei immaginare. Qualsiasi sia la situazione in cui mi trovo ho sempre due possibilità: imparare ad accettare questa situazione, oppure trovare la determinazione per cambiare questa situazione

Foibe, per ricordare sempre
L’istituzione della Giornata del Ricordo, in memoria delle vittime delle Foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, è qualcosa di più profondo dell’impegno politico nel recuperare una tragica pagina di storia del nostro Paese, troppo a lungo sottaciuta e, con ogni probabilità, poco nota alle giovani generazioni. Ciò che questa ricorrenza rappresenta, innanzitutto, è l’umana partecipazione al dolore di una comunità sopraffatta dall’atrocità di una violenza inasprita, figlia della ritorsione che lacerò famiglie e interi paesi nel nome di ideologie nazionalistiche e razziste di cui, tutti i popoli europei pagarono il prezzo. E nell’appello alla condivisione di questo lutto, giunto proprio dal Capo dello Stato, ritroviamo davvero l’urgenza e la necessità di accantonare il rancore e la polemica, la parzialità e i revisionismi. Ricordare significa infatti recuperare il passato per trarne un insegnamento morale e una nuova consapevolezza civile riguardo al valore universale della pace e all’importanza della coesione, in una Nazione capace di stringersi intorno alle proprie ferite senza aver paura di rivelarne i segni. Al cospetto degli uomini, delle donne, dei bambini e ragazzi che nel territorio carsico, tra il 1943 e il 1945, trovarono la morte o provarono la sofferenza dell’abbandono e dell’acerrimo scontro tra identità, non può esservi silenzio né rimozione, così come fine a se stesso e inaccettabile è qualsiasi tentativo di strumentalizzazione. Per molto tempo, la questione dell’Istria e della Dalmazia fu interpretata in maniera riduttiva, unicamente alla luce della sua connessione con l’avvento del fascismo, nonché come conseguenza dell’aggressione nei confronti della Jugoslavia: a distanza di sessant’anni, tuttavia, nel dramma delle Foibe non possiamo che leggere l’orrore di una pulizia etnica che indiscriminatamente mirava a colpire tutto ciò che era emblema di italianità, tutti coloro che rifiutavano l’annessione titina, senza distinguere tra fascisti e antifascisti. Oggi si commemora una sconfitta che ci accomuna tutti, in quanto italiani e in quanto persone, di fronte all’annullamento estremo dell’individuo e del suo fondamentale diritto alla vita, alla libertà, alla democrazia e all’appartenenza alla sua terra, alla sua Patria. Nessuno oggi può dire di non sapere e oggi ciascuno di noi ha il dovere morale, prima ancora che politico, di superare qualsiasi forma di reticenza su questa tragedia che è un capitolo buio, ma ineludibile, della storia d’Italia. E’ nelle sofferenze di ieri, infatti, che la nuova società italiana, libera e aperta, trova la propria ragione d’essere, perché le identità culturali e nazionali che sessant’anni fa furono motivo di scontro, oggi vengono riconosciute quale diritto inalienabile di tutte le genti, con la consapevolezza che il dramma delle Foibe non può né deve essere dimenticato, ma resta un monito importante per costruire il nostro cammino futuro di italiani ed europei
Favria 10.2.2016 Giorgio Cortese

Personalmente ritengo la mitezza la forza più travolgente della storia, che non paga mai il male con il male, ma vince con il bene e mi fare stare bene.

Tenace, pervicace o pertinace!
Tre parole simili ma non uguali, la prima, tenace, deriva dal lemma latino tenacia, esprime molto bene una caratteristica nell’affrontare la vita. Innanzitutto, bisogna dire che la parola tenacia compare in italiano durante l’Ottocento; prima, era decisamente più usata la forma “tenacità”, oggi quasi dimenticata, che derivava dal latino tenacitas. Il tenace, propriamente, sarebbe ciò che ha una grande forza nel tenere. La tenacia è la fermezza nella volontà, la costanza quotidiana nell’azione e la resistenza alle sollecitazioni una volta presa una decisone. Insomma risoluti reggendo alle avversità. Pervicace deriva dal latino pervincere vincere completamente, composto di vincere preceduto dal rafforzativo per. Certe persone che incontro sono proprio così, si muovono ed agiscono con irremovibile fermezza dei loro propositi. Nei loro limitati pensieri, agiscono con testardaggine, cocciuti ed irriducibili, le loro azioni sono degne di cervelli nani e venate da una rigidità orgogliosa. E così arrivo alla terza parola, pertinace, dalla parola latina pertinax, composta da “per” e tenax, tenace. Personalmente intendo la tenacia, intensa e irriducibile, usando anche una parola elegante. Senza dubbio risulta una parola piuttosto ricercata, che capita di rado di ascoltare in discorsi quotidiani, essendo privilegiati l’ostinato o il testardo. Forse, proprio per quel “per”, diventa somma di un uso pensato delle parole, o meglio, dei concetti, proprio di chi doma la lingua, capace di calcare l’espressione là dove serve. E’ una parola da tenere viva e presente nei nostri pensieri e nei nostri discorsi, perché spesso è dalla pertinacia che dipende ogni successo, grande o piccolo che sia, iniziando sempre dalla pertinacia nella cortesia che migliora da subito l’ambiente sociale circostante. Ritengo invitti quelle persone che uniscono alla pertinacia nell’onestà la speranza per non rimanere travolti dal vento delle parole quotidiane, fatte di opportunismo o rabbia, che si spezzano e si frantumano impotenti e non riescono ad installare il virus dei disvalori che degradano la vita della nostre Comunità, che ci fanno dimenticare in fretta i fatti che ce li fanno ricordare.
Favria 11.02.2016 Giorgio Cortese