Il senso civico con il metro del falegname. – Oggi c’è bisogno non di zucche vuote, ma di testa e animo pieno. – Novembre. – Ognissanti. – The Master Cat, il Gatto con gli stivali, la ricchezza dentro di noi!. – Dov’è la vittoria?..4 novembre 2016. – I meravigliosi generosi donatori di sangue…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Il senso civico con il metro del falegname. – Oggi c’è bisogno non di zucche vuote, ma di testa e animo pieno. – Novembre. – Ognissanti. – The Master Cat, il Gatto con gli stivali, la ricchezza dentro di noi!. – Dov’è la vittoria?..4 novembre 2016. – I meravigliosi generosi donatori di sangue…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Il senso civico con il metro del falegname.
Inizio questa mia riflessione con una battuta di Ennio Flaiano che così scriveva: “non chiedetevi dove andremo a finire, perché ci siamo già.” Con questo non voglio essere assolutamente né supponente né con un ottica di parte, ma entrare in una realtà dove ci siamo già come diceva lo straordinario scrittore e giornalista, sopra citato, creatore di motti fulminanti. Partendo da un luogo comune, molto amato da chi ha idee conservatrici in genere, e da chi usa questo termine come un perenne disco di lamento perpetuo, vorrei ricordare, senza retorica, che tutti siamo componenti di questa società e, non voglio sbeffeggiare nessuno, ne ergermi a integerrimo e supponente paladino di leggi e di regolamenti. No, assolutamente. Il mio scopo, è quello di ricordare che siamo tutti i primi a reclamare dei diritti ma sempre gli ultimi ad adempiere a dei doveri. Ritornando alla responsabilità di tutti noi di una cittadini che dobbiamo tutti rispettare le leggi, tutte le leggi e non solo quelle che fanno comodo a noi, altrimenti il senso civico è a livello del metro del falegname.Perché le leggi non sono di libera coscienza. Per concludere, mi permetto di ricordare quanto diceva il drammaturgo August Strindberg (1849-1912): “La morale, che dovrebbe essere lo studio e la pratica dei diritti e dei doveri, finisce per diventare lo studio dei doveri altrui verso di noi.” La frase, sferzante, ha un indubbio fondamento di verità. Noi siamo inflessibili giudici della moralità altrui, soprattutto quando i vizi del prossimo colpiscono i nostri diritti. Quando, invece, dobbiamo giudicare noi stessi, l’oggettività della morale lascia spazio a un metro molto allentato che può essere tirato come più ci aggrada. Vorrei porre l’accento sulla definizione che Strindberg dà della morale: essa è: “studio e pratica dei diritti e dei doveri”. Notate la duplicità, non basta la definizione e il riconoscimento di ciò che è bene e di ciò che è male, del giusto e dell’ingiusto, del vero e del falso. La morale è esercizio vitale e personale. Inoltre i contenuti dell’etica riguardano sia i diritti sia i doveri. Facile è premere il pedale sui primi; essi, però, hanno necessariamente un’altra faccia che è quella appunto dei doveri ed è solo nell’equilibrio di entrambi i volti che la morale ha senso ed è autentica. Ritorniamo così al punto di partenza ironico di Strindberg: non si può scaricare tutti i doveri sugli altri per tutelare i nostri diritti. Sarcasticamente lo scrittore Oscar Wilde notava che “la moralità è l’atteggiamento che adottiamo verso le persone che ci sono antipatiche”
Favria, 30.10.2016 Giorgio Cortese

Non devo mai lasciarmi abbattere dalle difficoltà perché l’arcobaleno più bello si vede solo dopo una giornata di pioggia.

Oggi c’è bisogno non di zucche vuote, ma di testa e animo pieno
L’etimologia del nome “zucca” è incerta. Pare che provenga dal latino “cucutia”, testa, poi trasformato in cocuzza, in piemontese cossa ed infine zucca. Poi nel linguaggio corrente questo benevole ortaggio è usato come sinonimo dei peggiori “improperi” quali: zuccone, zucca vuota, sei scemo come una zucca, ma che hai nella zucca? Ma perché tutto questo? Certo la forma aiuta, la zucca, grande e tonda con la buccia bitorzoluta, si presta bene a simboleggiare un capoccione vuoto o pieno d’acqua. Un po’ il contrario di quel che si pensava sino a un po’ di tempo fa, quando le dimensioni del cervello, più grande era e più, erroneamente, si supponeva materia grigia doveva contenere, erano prese come indice del suo buon funzionamento. I Celti, che prima della conquista romana erano stanziati nell’Europa centrale e settentrionale, credevano che durante “All Hallows’ Eve”, la vigilia di tutti i santi, che coincideva con la fine dell’anno vecchio, i defunti tornassero sulla terra. Durante la notte del 31 ottobre si riunivano nei boschi per la cerimonia dell’accensione del Fuoco Sacro, sacrificavano animali e portavano lumi in processione per tenere lontani gli spiriti. La credenza è sopravvissuta soprattutto in Irlanda a cui appartiene anche la leggenda di Jack o’ Lantern, un vecchio ubriacone sfrontato al punto di sfidare il Diavolo. Destinato a vagare in una sorta di limbo oscuro, implorò il demonio di concedergli almeno un tizzone, così da farsi luce lungo il cammino. Per non farlo spegnere, Jack lo mise dentro una rapa scavata a mo’ di lanterna, e da allora divenne per tutti Jack o’ Lantern, simbolo delle anime senza pace. La sua leggenda a partire dal ‘700 cominciò a essere collegata alla discesa in terra delle anime dei defunti nella notte di Halloween e all’accensione scaramantica dei lumi. Nacque allora l’usanza d’intagliare dei volti nelle rape che, svuotate della polpa e provviste di una candela, servivano a tenere alla larga gli spiriti malvagi. Gli irlandesi emigrati negli Stati Uniti iniziarono a sostituire le rape, poco diffuse, con le zucche, più grandi e facili da lavorare, facendone l’icona di Halloween. Anche in altre culture europee la commemorazione dei defunti è associata alla zucca, il suo ciclo vitale si conclude tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, in coincidenza con il giorno dei morti. Una tradizione diffusa nella Pianura Padana fino a pochi decenni fa era, per esempio, la notte delle lümere, zucche svuotate, incise a forma di teschio e trasformate in lanterne, che venivano esposte alla finestra, appese agli alberi, oppure portate in corteo dai bambini. In alcune zone del Friuli si collocava una zucca con, all’interno, una lettera indirizzata al defunto; la mattina, appena svegli, si cercavano le tracce del passaggio degli spiriti. Certo le varietà di zucche sono moltissime e diverse da paese a paese. L’origine della famiglia delle zucche è sconosciuta. Gli Egiziani, i Romani, gli Indiani d’Oriente, gli Arabi, gli africani del Niger danno testimonianza della loro conoscenza e coltivazione, seppure di varietà diverse. Così come diverse furono quelle portate da Colombo. Ma allora la zucca da dove arriva? Grande o piccola, oblunga, bislunga o tonda, liscia o rugosa, bitorzoluta, verde, gialla o striata, la zucca non è nata in Italia, pare che le prime siano arrivate dall’India. Poi, con la scoperta dell’America, giunsero una dopo l’altra zucche grandi che colpirono la fantasia, ma piacquero anche al palato, tanto che ne sono derivate le specie oggi più diffuse e consumate in Lombardia, Veneto ed Emilia, le regioni dove l’ortaggio si è meglio acclimatato. La zucca appartiene alla grande famiglia delle Cucurbitacee della quale fanno parte, per esempio, anche i cetrioli e i cocomeri. Ai tempi dei romani, svuotata della polpa ed essiccata, la zucca diventava un contenitore leggero ed impermeabile, usato, per esempio, per trasportare il sale o il vino, il latte o i cereali. Ma in queste settimane, uscendo dal lavoro per andare a fare degli acquisti, il trema dominante delle vetrine è Halloween. Sembra, che ci si stia preparando con un conto alla rovescia alla ‘grande festa’ della notte del 31 ottobre, mi pare che sia quella la notte. Mi viene da dire, ma è uno scherzetto? Sono nato e cresciuto che il 1 novembre è, ancora formalmente intitolata al ricordo di Tutti i Santi. Detto questo, mi permettetemi due osservazioni. Non voglio entrare nel merito di logiche commerciali: so bene che si vendono meglio vestiti da strega piuttosto che santini. Non vorrei nemmeno invocare quella che pare esser al giorno d’oggi l’unica coppia di santi venerabili: il laicismo e la libertà di far quel che si vuole, tutto quel che si vuole. Una libertà che rigetta ogni richiesta di valore assoluto, anche se buono, anche se naturale, e che così facendo finisce per imporsi essa stessa, paradossalmente, come imperativo assoluto. E allora, parlando di libertà, mi chiedo se sia libertà per tutti. Mi chiedo, se non si fa il Presepe in tante scuole per non offendere chi non crede, perché nessuno si pone il dubbio se sia il caso o meno di urtare la sensibilità di un cristiano imponendogli una festa come quella di Halloween? La risposta ovvia è che purtroppo i cristiani credenti ed osservanti, oggi, par esser lo sport di moda. E non mi ditrmi che così facendo non si impone nulla a nessuno, perché allora nemmeno facendo un Presepe si impone nulla a nessuno. Ma non solo: mi chiedo soprattutto quale messaggio si passa ai giovani, ai bambini, con quella che ormai è l’assodata sostituzione della festa di importazione americana a quella dei Santi. Non è forse meglio dire ai bambini chiaramente che si sta a casa da scuola il primo di novembre per onorare persone che, si creda o meno, si sia cristiani o meno, vanno ricordate per aver speso la loro vita all’insegna dell’Amore, del dono di se stessi verso il prossimo? Non sarebbe un bell’insegnamento? Questi sono i Santi, questo è l’esempio che sostituiamo con zucche e fantasmi. E ai bambini, così facendo, togliamo animi pieni e lasciamo zucche vuote.
Favria 31.10.2016 Giorgio Cortese

Fine ottobre nel parco, appena è tutto spazzato, si copre nuovamente di foglie secche. E si l’autunno è il momento ideale per tenere conto di ciò che ho fatto, di ciò che non a ho fatto, e di ciò che vorrei fare il prossimo anno.

Novembre

Nella vita di ognuno di noi morire è tremendo, ma l’idea di morire senza aver vissuto è insopportabile

Novembre è l’undicesimo mese dell’anno secondo il nostro calendario, tuttavia nel nome ha il numero nove perché lo abbiamo ereditato dal calendario romano che iniziava con il mese di marzo e quindi novembre diventava il nono mese dell’anno. Novembre ha trenta giorni ed è solitamente un mese uggioso, reso ancora più triste perché inizia con la commemorazione dei fedeli defunti. Nel corso del mese c’è uno sprazzo di gioia con l’estate di san Martino. A Novembre le sue coltri umide sembra che seppelliscano il mio l’animo, I pomeriggi sono più corti e i tramonti più austeri. Nessuna ombra, nessun brillare, nessuna farfalla, niente api, niente frutta, niente fiori, niente foglie, nessun uccello. Una pianta del parco vicino mi sembra rannicchiata sotto il vecchio cielo che specchia i tempi che se ne vanno e filtrano dell’autunno commoventi fragranze. Mentre osservo il tempo mi si sfila tra le dita. Nel mese di novembre rimpiango l’estate, e mi domando dove sono le risa dei bambini. In questo mese il mondo è stanco, l’anno è vecchio, le foglie sbiadite e sono liete di morire. Benvenuto Novembre!
Favria 1.11.2016 Giorgio Cortese

Per poter osservare un paesaggio e godere della sua visione d’insieme sono obbligato a guardarlo ad una certa distanza. Allo stesso modo, il senso alle cose, non è racchiuso nell’istante che vivo ma nella sequenza di tempi già vissuti, giacché anche il tempo ha bisogno della giusta distanza per poter essere compreso nella sua interezza.

Ognissanti.
Il dolore è sordo, il dolore è muto. Il dolore è sordomuto. Sordo perché ascolta solo se stesso, muto perché non ci sono parole che possano parlarne. Ma il 2 Novembre è il giorno della memoria, il giorno in cui ricordo tutti quelli che hanno sfiorato la mia breve vita e che la vita me l’ha donata. Il 2 Novembre è solo un giorno della memoria, la memoria delle persone che ho amato e che non ci sono più, ma che vivono nei miei ricordi. Ed allora il dolore viene lenito perché nel mio animo non lascio che la morte o i dolori mi rubino i ricordi gioiosi, e mi tengo stretta la felicità di aver conosciuto persone meravigliose. Come ha scritto S. Agostino” Una lacrima per i defunti evapora. Un fiore sulla loro tomba appassisce. Una preghiera per la loro anima la raccoglie Iddio.
Favria 2.11.2016 Giorgio Cortese

Nella vita chi opera manualmente è un garzone, chi opera manualmente e con la mente è un maestro, chi opera manualmente, con la mente e con il cuore è un creatore!

Se voglio avere una buona spiegazione basta spesso porre la stessa domanda in modo più semplice

The Master Cat, il Gatto con gli stivali, la ricchezza dentro di noi!
Mi è sempre piaciuta da bambino la fiaba “Il Gatto con gli stivali”. Pensate che la più antica attestazione scritta della storia risale a Giovanni Francesco Straparola, che la incluse nelle sue Piacevoli notti, pubblicate a partire dal 1550, con il titolo di Costantino Fortunato. Non si sa bene se Straparola abbia inventato la fiaba o abbia semplicemente trascritto un racconto della tradizione orale. Nel 1600 si trova la la versione di Giambattista Basile. Poi nel Romaticismo tedesco fu Tieck a scrivere questa fiaba con linguaggio tipicamente romantico, prendendosi gioco della letteratura del tempo. Apparve in “Fiabe popolari” dello stesso Tieck, insieme ad altre celebri fiabe come Barbablù, con la caratteristica di nascondere l’orrore attraverso la comicità, o l’ironia. Celebri divennero anche le versioni create da Perreault e dei Fratelli Grimm. Tornando alla fiaba “Il Gatto con gli stivali”, questa narra la storia di un’ eredità lasciata da un mugnaio ai suoi tre figli: il vecchio mulino al primogenito, al secondo un asino e al più giovane un gatto, dando a ciascuno la possibilità di vivere con questi mezzi. Il più giovane è dispiaciuto per la sua parte di eredità, ma il gatto della fiaba è un animale astuto e, ovviamente, dato che siamo in una fiaba, dotato di parola. Con astuzie ed inganni il gatto capovolgerà la vita del suo nuovo proprietario, fino a fargli sposare la figlia del re. Il gatto è la personificazione del senso di realizzazione, la vittoria. Il gatto realizzerà la vita del suo padrone e sarà l’artefice della sua fortuna senza che il proprietario debba fare niente ma solo ubbidire al gatto. La fiaba non mi dice quanto giovane fosse il ragazzo, ma sembra quasi che da parte del gatto con gli stivali ci sia una forma di adozione nei confronti del giovane, come se prendesse il posto del padre deceduto. Il padre ha lasciato il gatto al figlio o il figlio al gatto? Il gatto con gli stivali, nuovo padre, ribattezza il suo padrone, nominandolo Marchese di Carabà; gli dà quindi non soltanto un nome ma anche un titolo, elevandolo di grado e avvicinandolo così a ciò che diventerà: marito della figlia del Re. Il gatto con gli stivali è insomma un fiabesco dio Mercurio, perché il gatto ha i piedi “alati” muniti di stivali che lo fanno viaggiare velocemente e annunciare l’arrivo del suo padrone come Mercurio, il messaggero degli dei, munito di calzari alati. La velocità dei piedi è uguale alla velocità della mente astuta che entrambi hanno, ricordo che Mercurio/Hermes era nell’antichità il dio protettore di chiunque mostri abilità e astuzia. Il gatto con gli stivali, persuade, gioca d’astuzia, incanta con la parola, forse chissà fa anche le fusa, fino a riuscire a raggirare l’orco simbolo di chi si limita a soddisfare i bisogni istintivi, e materiali e non vince con la mente. Il bagno in acqua, che il gatto ordina al suo padrone, chiedendogli di simulare un annegamento. oltre a ricordare il battesimo con cui il gatto cambia identità al ragazzo, come detto prima, ricorre anche nella mitologia romana legata a Mercurio. La festa legata al dio Mercurio, il 15 maggio, prevedeva che i mercanti, a lui devoti, purificassero se stessi e le loro merci con l’acqua della fonte che scaturiva nei pressi dellaporta Capena. Anche il padrone del gatto con gli stivali esce dall’acqua pulito e purificato: non ha più i suoi vecchi abiti di povero figlio di mugnaio tanto che il Re ordinerà di fornirgli gli abiti più adatti al suo rango di marchese; e indossati gli abiti diventa a tutti gli effetti un marchese. Bellissima soddisfazione quella di arricchirsi grazie ai propri meriti; tuttavia, dal momento che al giorno d’oggi, per una serie di motivi sui quali qui non mi soffermo, diventare milionari onestamente e solo grazie ai propri talenti appare un’impresa titanica, se non proprio una vera utopia, molti di noi sarebbero assai lieti di ricevere “una pingue eredità”, senza dover esercitare alcun talento. Insomma l’’intelligenza e la furbizia a volte si rivelano più preziose di qualsiasi eredità! La favola ci insegna che se si sfruttano le doti intellettive si riesce sicuramente ad ottenere quanto si desidera, basta prefiggersi uno scopo e perseguirlo con zelo, con perseveranza e con intelligenza!! Il figlio più piccolo del mugnaio, quello che sembrava avesse ricevuto la parte di eredità meno importante, con l’intelligenza di un intrepido Gatto è riuscito a trasformare il poco avuto in un’immensa ricchezza. La morale della favola è che la ricchezza sta in noi e risiede nella nostra mente, nella capacità di inventare e inventarsi senza mai gettare la spugna! Per tanto Vi into a venire a Favria per lo sperttacolo “The Master Cat” Il gatto con gli stivali, nel salone polivalente il giorno 5 novembre alle ore 21.00 – Info e prenotazioni al numero 345 7248477 – Ingresso euro 5 – Gratuito fino a 12 anni.
Favria 3.11.2016 Giorgio Cortese

Ogni giorno certe scoperte appaiono semplicissime dopo che sono state fatte.

Dov’è la vittoria?..4 novembre 2016
Per ricordare il 4 novembre, Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate istituita nel lontano 1919 per commemorare la vittoria italiana nella prima guerra mondiale e festeggiata in questa data dall’entrata in vigore dell’armistizio di Villa Giusti, ho preso in prestito un verso del nostro Inno Nazionale. Dov’è la vittoria?.. Quella a vittoria fu un grande bagno di sangue con il sacrificio costato seicentomila morti, e un milione di feriti, moltissimi dei quali rimasero mutilati. Oggi finalmente quella pagina di storia viene vista con occhio imparziale, senza più alcuna retorica, o illusione, o mitizzazione. Quel tremendo conflitto, che ha visto gli alpini partecipare in prima fila, è stata una guerra, con i soldati costretti a stare nelle trincee pantanose, affamati, impauriti, sempre in attesa che arrivasse l’ordine di uscire all’assalto per conquistare qualche centinaio di metri, una trincea nemica, o una collina insignificante sul versante strategico. Ma conquistarla significava lasciare sul terreno migliaia di morti; pochi giorni dopo, non di rado, veniva di nuovo perduta. I soldati erano spesso giovani ventenni, strappati ai loro campi, agli affetti, al lavoro quotidiano, ai loro veri interessi, per andare a morire in luoghi sconosciuti, per combattere altri soldati che non avevano alcuna ragione di odiare. Nelle trincee popolani di tutte le regioni, i quali spesso conoscevano soltanto il loro dialetto, non riuscivano quasi a capirsi, se non sul piano dei sentimenti e dei fatti. Nel 1916 tra il 31 ottobre ed il 4 novembre avvenne la nona battaglia dell’Isonzo con la conquista italiana di alcune alture dominanti sul Carso seppur al prezzo di pesanti perdite di 145 mila morti italiani e di 80 mila perdite austro-ungariche. Dov’è la vittoria? Ormai conosciamo infiniti particolari di quella guerra, vittoriosa alla fine, ma dolorosissima sul piano umano. Cento anni sono passati sa allora e già dopo la fine della Grande Guerra i nostri predecessori, il 10 ottobre del 1924, fondarono qui in Favria, una sede ANA, che non è più solo un’associazione, ma un corpo vitale indispensabile per la nostra Comunità. Dov’è la vittoria?…Voi alpini avete un innato senso di solidarietà e di altruismo che Vi contraddistingue, siete un patrimonio di esperienza da conservare e promuovere, una miniera di conoscenze indispensabile per le nuove generazioni, un bagliore di luce nel volontariato da trasmettere ai nostri figli: Voi rappresentante l’albero e i giovani ne sono i germogli. Dov’è la vittoria?…Oggi per commemorare degnamente i fratelli morti sotto tutte le bandiere in quella immensa strage dobbiamo tutti rimboccarci le maniche perché nella vita di ogni giorno dobbiamo praticare la solidarietà senza pretendere mai nulla in cambio e sempre consapevoli che ci appartiene ci appartiene soltanto quel che si guadagna e che si sa portare a spalla, con fatica, nella vita.
Favria 4.11.2016 Giorgio Cortese

Sulle pagine della nostra esistenza c’è un sogno che firma ogni pagina. Quel sogno si chiama felicità. Quella felicità che respira dall’amore, e si arma di coraggio per sconfiggere l’indifferenza. Sulle pagine della nostra esistenza, semplicemente, trascriviamo le nostre emozioni, stenografando con il nostro cuore la firma del nostro domani

Buona giornata! Nella vita di ogni giorno bisogna sempre costruire ponti di comprensione e non muri di incomprensione !
I meravigliosi generosi donatori di sangue.
Donare il sangue è un atto di generosità nei confronti dell’altro e di noi stessi oltre che un atto di salvaguardia della salute. Ma chi sono i generosi? La parola generoso significa largo nel donare, magnanimo, nobile. Deriva dal latino generosus nobile per nascita, da genus razza, stirpe. Per lunghi secoli le più alte virtù umane sono state associate alla nobiltà del sangue. Così chi discendesse da una stirpe antica, si credeva, possedeva naturalmente doti di grandezza d’animo, spirito di sacrificio, altruismo e via dicendo, col senno di poi possiamo ben vedere che si trattava di una colossale sciocchezza. Il significato di generoso che è oggi in uso è molto specifico, rispetto a quello generico della nobiltà: oggi il generoso è chi non si risparmia, il pronto a donare come i donatori di sangue, che sono nobili di cuore i poiché generosi, e non generosi poiché nobili. Infatti la generosità riesce ai volontari donatori di sangue come una disposizione, un atteggiamento di vera grandezza d’animo che è proprio di chi si profonde nell’altruismo, di chi non conta ciò che dà. I donatori di sangue che conosco e che vengono a donare o che hanno donato negli anni passati sono l’essenza dell’ elevazione dell’ umanità meravigliosa. A Favria –To-doniamo venerdì 11 novembre cortile interno dalle 8 alle 11,20. Ricordo ai donatori che donare il sangue è un atto di generosità nei confronti dell’altro e di noi stessi oltre che un atto di salvaguardia della salute. Non manchiamo, doniamolo. Personalmente quando dono il sangue mi sento nell’animo una gioia infinita di poter fare del bene ad altri esseri umani un modo gratuito ed anonimo, un grande Dono di… vita. Perché non sono solo la vita che vivo, ma anche quella che dono! Arrivederci a venerdì 11 novembre a Favria
Favria 5.11.2016 Giorgio Cortese

Le persone ignoranti hanno sempre la bocca piena