Insalata Oliviè, imperiale o castigliana, all’italiana, alla genovese -Il talento, il genio e la fortuna-Arduino tra mito e storia, chi era costui? Homus novus!-Caduceo! -Il furbo sul quotidiano cammino…. – ORA CANONICA MEDIOEVALE . – Pazienza non rassegnazione! – Chi ha paura del Babau! – Nella vita, con cortesia – Res Gestae Favriesi: “ Festa Patronale” – I compagni di una vita: i ricordi. …le pagine di Giorgio Cortese

Insalata Oliviè, imperiale o castigliana, all’italiana, alla genovese.
Insalata Oliviè, imperiale o castigliana, all’italiana, alla genovese, ma parlo dell’insalata Russa. L’insalata russa è un piatto ormai entrato di fatto nella cucina italiana; è un contorno gustoso e semplice, adatto per tutti i periodi dell’anno. Può essere usata anche come antipasto ed è composta principalmente da verdure e maionese. Ma quali sono le origini di questa ricetta? Si chiama insalata russa perchè è un piatto tipico della cucina russa? Dovete sapere che la prima ricetta venne creata intorno agli anni sessanta dell’Ottocento da Lucien Olivier nelle cucine del ristorante Hermitage di Mosca, riprendendo quello che nel settecento in Liguria veniva chiamata insalata alla genovese perchè molto spesso faceva la sua bella figura ai banchetti dell’aristocrazia ligure. Olivie si accorse che i suoi clienti mischiavano le carni con la salsa. Il cuoco era molto offeso per questo comportamento dei proprio clienti e come provocazione cominciò a mischiare le carni e mettere molta maionese. Con sua grande sorpresa questa ricetta ebbe un grandissimo successo. Il grande chef Olivier la creò usando ingredienti costosissimi e ricercati quali aragosta, caviale, tartufo, anatra. Essa divenne molto presto popolare tra i clienti abituali del locale e probabilmente si trasformò nel suo piatto simbolo. La sua sua ricetta precisa era talmente importante da essere tenuta addirittura segreta, e ancor più quella del condimento. La ricetta proprio perchè preziosa e ricercata venne poi tuttavia trafugata e rivenduta agli editori, diffondendosi così in tutta Europa. Ne nacquero dunque diverse varianti anche e soprattutto con ingredienti più economici. Anche la costosissima maionese di Olivier fatta esclusivamente con aceto, senape ed olio di oliva della Provenza venne sostituita da aceti e oli caserecci. Diffondendosi in Europa prese diversi nomi. Altri però sostengono che ad inventare per primo l’insalata russa fu un cuoco piemontese di Casa Savoia, vissuto anche lui nell’ottocento. Per omaggiare la visita dei rappresentanti russi in visita in Piemonte raccolse tutte le migliori verdure disponibili nell’orto e le unì con una salsa, originariamente diversa dalla maionese e questo spiegherebbe come mai in molti la chiamano “italiana”, infatti in Germania ad esempio è curiosamente conosciuta come insalata all’italiana. In Spagna è stata invece chiamata per molto tempo insalata imperiale o castigliana dal momento che durante il franchismo venne vietato di usare il nome insalata russa perchè richiamava il regime comunista nemico. Questa miscela di nomi e nazioni è forse il tratto più caratteristico dell’insalata russa che può contemplare vari tipi di verdure, anche se quelli tradizionali sono le patate, i piselli, i cetrioli e le carote. Io ad esempio non sopporto i cetrioli, ma ci aggiungo la cipolla! Le uova poi possono essere fatte anch’esse a cubetti o tagliate a fettine per decorare la superficie. Oggi la moderna Insalata Russa (Salad Olivie) è diversa da quella concepita dal suo inventore, ma in ogni caso è famosissima in Russia e non è possibile neanche solo immaginare una cena di capodanno senza una bella insalatiera di Oliviè.
Favria, 20.06.2015 Giorgio Cortese

Una cosa è avere talento. È un’altra cosa scoprire come usarlo.

Il talento, il genio e la fortuna
Di talento sento parlare in continuazione, e da sempre ammiro i grandi uomini e donne che, grazie a talenti eccezionali, hanno cambiato la vita dell’umanità, migliorando il modo di vivere, di muoversi, di vestire e di percepire l’arte in tutte le sue forme. Leggendo le biografie di alcuni di questi personaggi, mi è capitato di commuovermi ed esaltarmi, scoprendo il modo in cui hanno saputo mettere a frutto i loro talenti, superando la frustrazione di molti fallimenti, insistendo, lavorando, soffrendo, ed infine, cogliendo la soddisfazione del risultato. Ma quanto incide il solo talento nella creazione di imprese, oggetti, opere, scoperte, universalmente riconosciute? Sicuramente tantissimo ma, come diceva Seneca “La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione, “ Conoscenze, opportunità economiche, cogliere il posto giusto al momento giusto. Secondo il musicista Arnold Schönberg, 1874-1951: “Talento è la facoltà di imparare. Genio è la facoltà di svilupparsi.” La distinzione tra talento e genio ha, perciò, un fondamento fatto di esperienza personale ma verificabile, almeno all’esterno, da parte di tutti. Da un lato, infatti, c’è l’intelligenza che, sia pure in gradi differenti, ognuno di noi possiede. Essa è la capacità di apprendere e di capire ed è già un dono straordinario e prezioso. D’altro lato, però, c’è il genio che sboccia dal talento e che esplode nel cielo della creatività, rivelando una novità, una pienezza e una perfezione che sono un’immagine stessa di Dio. Il talento e la fortuna sono due fratelli che non si parlano. Ritengo che sia impossibile essere amico di entrambi, e allora, nella vita, mi tocca scegliere, o meglio farmi scegliere. La fortuna è più divertente, il talento mi riempie di soddisfazione, ma entrambi li incontro nel cammino della vita. L’attuale pensiero dominante è convinto che basti la buona sorte, la fortuna, lo dicono quelli che non ce l’hanno fatta e i mediocri, capaci di giustificare le sconfitte sempre con qualche evento esterno imprevisto e imprevedibile. Personalmente, non paragono il successo come un tiro in porta che resta per qualche attimo sul filo del palo e può scivolare in goal o sul fondo campo senza alcun motivo, farmi vincere o perdere. In questo caso non conta con quanta bravura ho tirato il calcio, e neanche la fatica nelle ore di allenamento, la tensione e la passione, no, basta solo un soffio di vento o lo sbadiglio di uno spettatore. Chi ragiona così, che se la prende con l’arbitro solo perché può decidere se è goal oppure no gioca tutte le sue fiches sulla fortuna. La sorte, che da amica diventa sorella e poi madre, infine tiranna. Sono convinto che il talento sono ore di allenamento o di studio, si duro lavoro, il desiderio di capire e la curiosità che non mi molla un attimo. Nella vita chi ha talento potrà anche perdere una partita ma non uscirà mai sconfitto dal campionato. C’è chi nasce con la camicia, ma poi non sa nemmeno come si fa ad abbottonarsi i polsini. Il talento, a differenza della fortuna, dipende solo dame e si costruisce giorno per giorno, mattone su mattone, e quando ce l’hai fatta, nessuno potrà portarmelo via. Il talento è qualcosa in più di un dono, è fatica, studio, sudore e determinazione. La vita è una partita che si gioca anche con la voglia di emergere ma senza sgomitare con le braccia, giocata con il cuore con il sudore che cola dalle guance, con la testa alta ma senza guardare in cagnesco l’avversario come fosse uno da annientare con lo sguardo, si cerca di batterlo, di essere più bravo di lui mettendocela tutta, ma rispettandolo come fratello e se mi va male senza serbare rancore. Una curiosità il talento era anche un’antica unità di misura della massa. I Sumeri ed i Babilonesi avevano un sistema in cui 60 shekel, peso variabile da 10 a 13 grammi, formavano una mina e 60 mine formavano un talento babilonese, che quindi corrispondeva almeno a 36 kg. Invece il talento romano era formato da 100 libbre, quindi circa 32,7 kg, che avevano una massa inferiore alla mina. Quando era usato come misura monetaria, si intendeva un talento di oro, e quindi il peso di una persona in oro. Altra unità usata era il talento attico corrispondente circa a 26,2 kg di argento. Durante la Guerra del Peloponneso, in Grecia antica il talento era la quantità di argento necessaria per pagare l’equipaggio di una trireme per un mese. Concludo che se ho dei talenti, questi sono stati fatti per essere usati, cosa è una meridiana nell’ombra? Le mie limitate risorse umane sono come le risorse naturali, giacciono in profondità del mio animo, ecco devo andarle a cercare e soprattutto bisogna creare le condizioni affinché queste si manifestino. A questo punto, vi lascio con una provocazione. Nietzsche, filosofo dalle grandi ombre, morbosamente misogino ma mente geniale, nostro malgrado profeta del novecento e, indirettamente, della nostra attuale società, scriveva nel 1886 a proposito del talento. “Non basta avere un talento; bisogna avere anche il vostro permesso. Nevvero, amici miei?”
Favria, 21.06.2015 Giorgio Cortese

Devo sempre sforzarmi per fare si che ogni giorno sia diverso, che la mia giornata sia serena, per affrontare la vita con un sorriso e affrontare con calma ciò che mi spaventa. Anche se non è facile imparo a cambiare, solo così la vita mi regala dei bei momenti.

Arduino tra mito e storia, chi era costui? Homus novus!
Prima di parlare di Arduino, permettetemi di parlare del Canavese di quel tempo, per capire i vari avvenimenti che si susseguiranno nel nostro territorio nel corso del medioevo fino al settecento per inquadrare il succedersi dei vari scontri tra i “domini loci” è importante spiegare il territorio e i Conti Canavesani. Come premessa è importante spiegare che il termine Canavese deriva da Canava. Per il Bertolotti che ha fatto un indagine linguistica approfondita sugli etimi dei dialetti celti che sono rimasti nella toponomastica territoriale dell’Italia nord occidentale, il termine scomposto Can – ava significa capoluogo presso l’acqua, avallando così la teoria del Duranti che aveva già per primo contestato la derivazione del termini Canavese da Canapa. Nei secoli X e XI Canava era un feudo poiché ci sono vari diplomi in cui viene citato il feudo di Canava a cui erano annesse le vallate dell’Orco e del Soana. Nel 882, Carlo il Grosso dona vari territori, tra cui il feudo alla chiesa di Vercelli, nel 901 Lodovico III conferma questa donazione. Non si sa con certezza dove sorgesse il centro del feudo, secondo il Duranti, è citato Canava con il castello di Rivarotta nel diploma di donazione fatta dal re Berengario II nel 951 alle monache pavesi di Santa Maria, la Curtem Canavese deve essere identificata con Rivarotta, sito ubicato tra Valperga e Salassa. Secondo il Bertolotti l’unione di Rivarotta a Canava fu fatta da Berengario, poiché Ludovico III aveva donato sola Canava. Il Bertolotti da un’indagine linguistica su Corgnaco o Coraco, l’attuale Cuorgnè, afferma che Coraco deriva dalla riduzione di Can-ava in Cor-aco, perché i suffissi ava e aco sono propri delle terre vicino alle acque, nello specifico Cornaco deriva dalla corruzione delle parole Cortem Canavam con elisione delle lettere tem e ca e il cambiamento dei termini equivalenti dell’ava in aco.(A.Bertolotti, Fasti Canavesani, Ivrea 1870, pagg.13-17; Pagliotti, Cuorgnè e l’Alto Canavese, Torino 1906 pag. 76-77). I Signori che dominarono il Canavese: i conti di Valperga, i conti di Masino e i Conti di San Martino erano originari di Pombia e discendevano dai tre figli d’Ardizzone, secondogenito di Guido II, conte di Pombia. La loro discendenza da re Arduino è discutibile e non confermata e già nel loro tempo i San Martino contestavano il legame di consanguineità con i Valperga, qualificando se stessi come i diretti discendenti di re Arduino e i secondi come usurpatori. Solo nel XII secolo abbiamo dati certi della comparsa di queste famiglie con il diploma d’investitura concesso la carica ai fratelli Guido ed Ottone, comites de Canavisio. (Bertotti, Appunti per una Storia di Cuorgnè, pag.53). Dalla cronaca dell’Abbazia della Fruttuaria nell’atto del 12 gennaio 1114 si rileva che i Seniores de Roca, Barbania et de Riparia danno il Monastero all’Abate di San Benigno, per farlo da lui difendere e concedono inoltre all’abate di ricorrere a qualsiasi potestà mondana e monarchica con esclusione dei Conti Canavesani, i Valperga, da ciò deduciamo che i Valperga erano ghibellini mentre i signori di Rocca, Barbania e Rivara guelfi.(Pola Falletti, la castellata di Rivara e il Canavese, pag. 124). Non abbiamo particolari su questa lotta ma il fine era che tale lotta veniva utilizzata dai vari signori per allargare i propri domini a scapito dei vicini. I Conti Canavesani si divisero in seguito in rami secondari, Valperga-Masino e San Martino, secondo il Bertolotti deve essere collocata intorno al 1120, in seguito da una stessa famiglia c’era il ramo primogenito e secondogenito, ulteriormente per differenziarsi presero il nome dalla località dove dimoravano, conti di Rivarolo, di Castellamonte; come dice il Bertolotti, questa suddivisione li impoverì e li rese “tenaci del proprio territorio ed avidi dell’altrui” dando origine a lotte intestine ed anche Favria fu testimone in quel periodo di questa suddivisione e delle varie guerre. Altro motivo di discordia è che Favria dipendeva dai Monferrato mentre i paesi limitrofi dai Savoia, pertanto i confini del feudo erano confini di stato, questo fatto rimane ancora oggi con il ramo di roggia denominato rio Monferrato verso Busano che era il limes di confine. Dopo questa doverosa premessa, iniziamo con la storia di Arduino. Le origini di Arduino sono incerte, come incerta è la data di nascita, a quanto pare il 955 d.C., figlio di Dadone, conte di Pombia e di una figlia di Arduino Glabrione. Nel 990 muore il Marchese di Ivrea e per disposizione imperiale, la marca d’Ivrea viene passata ad Arduino, ciò quasi sicuramente per merito dei buoni rapporti che legavano il padre Dadone con l’imperatore germanico Ottone I. Cosicché Arduino succede all’ultimo anscarico, Corrado Conone, ottenendo la suddetta marca, tra l’altro, già ridotta nella sua estensione originaria in quanto, da una parte di essa, era stata costituita la Contea di Auriate, guidata dalla famiglia degli Arduinici, che diventeranno a breve marchesi di Torino. Quando Arduino riceve la marca essa comprende le città episcopali di Ivrea, Vercelli, Novara e territori circostanti; in seguito egli riesce ad estendere i suoi possedimenti e la marca comprenderà, oltre alle città e zone già citate, compreso il Canavese, i territori di Burgaria, Pombia,, Ossola, Stazzona e Pomello, ovvero le attuali province di Biella, Vercelli, Novara, Verbania e parte della provincia di Pavia, nella Lomellina. Sono confini molto poco precisi, perché in quel tempo, epoca di passaggio, di transizione, visto che da poco era caduto il Sacro Romano Impero ideato da Carlo Magno, ripreso sì dagli imperatori germanici, ma non certo come nel periodo carolingio; ormai in Italia si sono mosse varie forze centrifughe e destabilizzanti per l’Impero, creando spaccature non indifferenti. Tra il 996/ 997 iniziano i contrasti di Arduino con i vescovi locali, in seguito alle immunità concesse dagli imperatori tedeschi a questi ultimi. Arduino capisce il disagio dei piccoli vassalli, i secondi milites, che perdevano terreni e ricchezza a favore dei vescovi nominati dall’imperatore e che ne erano al sua lunga mano. È in questo periodo che comincia la “guerra” di Arduino contro il potere temporale della Chiesa, ormai mal sopportato, anche perché i vescovi tendono ad ampliare sempre più i loro territori e la loro ingerenza a danno dei possedimenti del marchese d’Ivrea. È questa la lotta principale intrapresa da Arduino fra potere temporale e spirituale, quindi l’assunzione del futuro re come effige della guerra d’indipendenza italiana perde un po’ di valore, in quanto ben si comprende che egli non ce l’aveva tanto coi tedeschi, ma, appunto, con il potere vescovile. In particolare Arduino si accanisce inizialmente contro i vescovi di Vercelli ed Ivrea, riuscendo a conquistare alcuni territori da loro posseduti. Tra il 13 febbraio e il 17 maggio 997 Arduino, con i suoi vassalli minori (secundi milites), assedia e conquista Vercelli, bruciando la Cattedrale, dove periscono il vescovo Pietro di Vercelli, canonici e sacerdoti. Naturalmente questa violenta reazione di Arduino desta molto scalpore, anche perché il mondo dell’epoca è veramente impregnato di cristianità, la funzione della Chiesa è ancora di estrema, vitale importanza. Arduino, con quest’atto perde un po’ di popolarità, anche fra gli ambienti nobili; l’imperatore Ottone III si schiera col nuovo vescovo di Vercelli, confermando i suoi possedimenti. Ma Arduino continua la sua battaglia contro i vescovi, sicché questi ultimi, in particolare il solito Warmundo, vescovo di Ivrea, decidono di rivolgersi al papa, Gregorio V, inviandogli una lettera per sottoporgli la pesante situazione. Ritornando alla storia di Arduino, questi dopo aver sconfitto e ucciso Pietro vescovo di Vercelli, e pure bruciato il cadavere, viene dichiarato scomunicato e decaduto. Nel 1002 a gennaio abbiamo la svolta: infatti l’imperatore, Ottone I, che aveva in mente la Renovatio Imperii Romanorum, ovvero il ritorno all’antico splendore dell’impero romano, muore, tra l’altro non molto capito dal popolo romano del tempo. I cavalieri germanici si devono dare un gran da fare per difenderne la salma durante il trasporto al luogo di sepoltura. Arduino, come si userebbe dire oggi, coglie la palla al balzo, e, sostenuto dai secondi milites, si fa eleggere re d’Italia a Pavia, il 15 febbraio, nella basilica di San Michele, classica sede per un’elezione del genere, la città che era stata capitale del regno longobardo e che continuava ad assumere un ruolo decisamente preminente per l’incoronazione italiana. Viene appoggiato non solo dai piccoli vassalli ma anche dalle grandi famiglie feudatarie del tempo in Italia, come gli Obertenghi delle Liguria, sposa infatti Berta che proviene da questa famiglia. Gli Obertenghi diverranno poi la famiglia Este. Nel 1002 a giugno viene eletto come nuovo imperatore Enrico II di Baviera che manda contro Arduino, Ottone di Carinzia, Marchese di Verona. Ma Arduino sconfigge le milizie imperiali a campo di fabrica tra Verona e Vicenza. Nel 1004 Enrico II di Baviera, imperato, scende in Italia con un esercito e Arduino viene sconfitto anche per la defezione di diversi suoi alleati. Qui la datazione diviene confusa, secondo alcuni storici, nel 1004 Arduino viene attaccato nelle sue terre e riesce a resistere all’assedio delle milizie imperiali, rifugiandosi nella roccaforte di Sparone, nell’Alto Canavese: uno dei maggiori avvenimenti della vita del re è proprio l’assedio della rocca di Sparone in Canavese. Fino a non molto tempo fa il fatto era stato datato al 1004, ma esiste un’altra tesi che sostiene che il famoso assedio sia avvenuto nel 1007. La lapide commemorativa affissa sulle mura della rocca di Sparone riporta come data l’anno 1004. È quasi certo che l’assedio sia durato un anno, comunque è sicuro che Arduino abbia avuto la meglio contro i suoi nemici. Gli assedianti non erano le truppe imperiali, perché l’imperatore era ritornato in Germania per problemi nelle marche orientali dove sconfinavano dei razziatori polacchi. Gli assedianti erano le milizie del vescovo di Vercelli Leone, alleato dell’imperatore. Proseguiamo il racconto storico, nel 1005 re Arduino concede dei territori per la costruzione dell’abbazia di Fruttuaria, in San Benigno Canavese, l’abate è Guglielmo da Volpiano suo nipote. Egli cercò anche di contrastare il potere dell’arcivescovo Arnolfo, caldeggiando la nomine di vescovi uomini a lui fedeli. In seguito alla discesa in Italia nel 1014 di Enrico II, Arduino, forse ammalato, decide di ritirarsi nell’abbazia di Fruttuaria nel 1014, senza diventare monaco, è solo in cerca di pace, dove muore il 14 dicembre 1015. Le spoglie di re Arduino riposano nel bel castello di Masino, non lontano da Ivrea. Suo figlio Arduino II o Ardicino, conte d’Ivrea, dopo la caduta di suo padre, per conservare almeno in parte il potere, s’appoggiò ad Olderico Manfredi riconoscendolo marchese di Ivrea. Le varie famiglie nobili canavesane, i Valperega, San Martino, Castellamonte, Masino nei secoli successivi si attribuirono Arduino come loro progenitore. La cultura e la storiografia romantica hanno reso popolare la figura di Arduino di Ivrea, vedendo in lui un esponente precoce della lotta per la liberazione dell’Italia dalle catene della dominazione straniera, attribuendo un significato simbolico alla sua nomina a re d’Italia. Per contro, la Chiesa, memore delle sanguinarie scorribande di Arduino contro i vescovi di Ivrea e di Vercelli, aveva teso in passato a ridimensionarne la statura politica e militare, vedendo nelle sue gesta la mera brama di potere e la mancanza di rispetto per le prerogative ecclesiastiche. La figura di Arduino esce da tali opposte interpretazioni, quando la si inquadra nel contesto storico del X-XI secolo e delle acerrime lotte per il potere che coinvolgono l’intera struttura feudale ai tempi dell’impero romanico-germanico degli Ottoni. Per dieci anni, tra il 1004 ed il 1014, Arduino cerca di mantenere la corona d’Italia, ma la forte opposizione dei vescovi e di alcuni conti e marchesi fedeli all’imperatore non gli permette di portare a termine i propri piani permettetemi una riflessione ma “Arduino, chi era costui? Cercando notizie sulla storia di re Arduino, sembra quasi che questo personaggio storico realmente esistito in carne ed ossa sia avvolto da un alone leggendario per le sue imprese perlopiù guerresche e per i suoi ideali politici per i quali, nell’insieme, è addirittura citato spesse volte dalla letteratura romantica e dall’ideale risorgimentale come campione dell’indipendenza italiana, come primo esempio d’intendimento nel voler unificare la penisola italiana. Infine ecco alcuni avvenimenti che avvennero a Favria negli anni successivi, nel 1110, Enrico V, alle calende di dicembre (le calende erano il primo giorno di ciascun mese nel calendario romano, quello della nuova luna, quando il calendario era un ciclo lunare, calendari di Romolo e di Numa Pompilio), conferma ai fratelli Guido e Ottone, conti del Canavese, il possesso di Favria con il diploma e da qui in avanti si hanno notizie certe sul borgo. Nel 1120, vengono menzionati come feudatari di Favria i Valperga, conti del Canavese, questa data trova conferma dell’infeudamento dato loro da Federico II imperatore.(Bertolotti pag. 121, Pola Faletti-Villafalletto pag.128-129). Nel 1145, Guido di Arduino, conte del Canavese, acquista la superiorità su Favria e nel 1156, Federico Barbarossa conferma la dipendenza di Favria da Guido, conte del Canavese. Nel 1163 i conti del Canavese si divisero, in due rami: i San Martino ed i Valperga. Da questi ultimi si separò poi, nel 1193, la famiglia dei Masino. Da questo momento la situazione di autonomia e di endemico conflitto tra i feudi canavesani subordinata all’autorità imperiale caratterizza questa zona del Piemonte con il permanere di una struttura organizzativa carolingio-feudale, mentre altrove la mancanza di un potere centrale efficiente favorisce il sorgere dei comuni e delle repubbliche marinare. Questo non impedisce, in ogni modo, lo sviluppo di comunità locali che rimangono però sempre soggette al potere dei signori. Della vita quotidiana del XI secolo, conosciamo pochissimo dai documenti storici. Abbiamo di quel periodo fonti molto particolareggiate su grandi investiture e trattati di pace e dichiarazioni di guerra. Scritti sul modo di vivere dell’umile popolazione sono sommamente scarse. Queste notizie sono molto più abbondanti per i secoli successivi, specie dal XIV in avanti, dove vediamo i nobili riccamente vestiti negli affreschi. I documenti degli homines pervenutici del XI sono molto scarsi, pertanto fino al XIV abbiamo uno spazio vuoto sulla vita dell’umile gente, dei particolari come saranno poi chiamati gli abitanti della Comunità; per farci un’idea di come erano vestiti, che cosa facevano, non ci resta che le miniature sulle pergamene delle grandi abbazie, dove troviamo effigiati conta¬dini intenti alle varie occupazioni proprie della stagione, ma non si può essere sicuri che l’autore vi abbia rappresentata con esattezza la realtà e non siano, almeno in parte, frutto di fantasia. Si può ragionevolmente supporre che nei primi secoli del primo millennio il paesaggio è molto diverso rispetto a quello di solo pochi secoli dopo. Grandi estensioni di boschi e luoghi incolti, per la notevole diminuzione demografica e l’abbandono di ampi territori prima coltivati, si alterna a zone di pianura incolta ed a piccole radure con casolari sparsi e piccoli nuclei urbani che sorgono vicino alle villae dei primi signori. I boschi sono vere frontiere, difficili e pericolose da attraversare, anche se dai boschi la scarsa popolazione dell’epoca trae importanti risorse come il legname per la costruzione ed il riscaldamento. L’economia è fragile, basata sul baratto, un’economia curtense, economia delle curtis, la curtis è un territorio “chiuso”, costituito da un insieme di edifici, nel quale vive e regna un signore, il feudatario, che esercita un potere quasi assoluto sui sudditi che si mettono sotto la sua protezione. C’è da precisare che le terre possedute dai feudatari medioevali, non i feudi, sono una cosa diversa. Esse si dividono in pars dominica, la parte del signore con la villa e i servi della gleba, e la pars massaricia, divisa in mansi e coltivata da coloni, ovvero contadini che pagano l’affitto del manso per coltivarlo. Inoltre le piene dei fiumi provocano frequenti ed improvvise inondazioni, le piogge eccessive o i prolungati periodi di siccità causano periodiche carestie, distruggendo i raccolti per tutto un periodo compromettendo anche l’allevamento del bestiame. In Canavese ed a Favria ha una gran diffusione la coltura della vite. Il vino è molto ricercato, quasi un bene di lusso, perché non si può trasportare in grandi quantitativi, ed è soggetto a dei dazi gravosi, con il costante pericolo di venir derubato dalle soldataglie e dell’incertezza sulla qualità. Essendo indispensabile per la messa, i grandi monasteri si preoccupano costantemente di migliorare la qualità delle vigne e la genuinità del prodotto. Salvo nelle zone di maggior produzione, è una bevanda di lusso, riservata ai privilegiati; i contadini la bevono solo in rare occasioni. L’abbigliamento dei contadini del XI secolo è improntato ad una estrema semplicità: nelle miniature e negli affreschi dell’epoca appaiono portare le stesse “Brache” e lo stesso saio già indossato secoli prima. Le Brache sono strette da nastri incrociati ed il saio scende fino a metà gamba. La testa è coperta da un cappuccio. Alcuni hanno la barba, altri sono rasati; alcuni sono scalzi, altri portano scarpe a punta. Probabilmente già conosciute, gli zoccoli in cuoio con suola di legno, anche se assenti nell’iconografia dell’epoca. Le Brache nei mesi invernali sono di pelliccia. Per le contadine, un vestito semplicissimo, immutata dalle epoche precedenti, più corta rispetto a quella delle dame. I bambini indossano una tunica che arriva fino a metà gamba. Per i tessuti si usano la lana e la canapa grezza, ambedue prodotte a livello familiare; più raro il lino, considerato di lusso e riservato ai signori. Le pellicce sono piuttosto economiche, di pelle di pecora o di coniglio. Le case sono quasi tutte di legna, salvo nelle località con scarsità di legname, con tetto di paglia. Non c’è un camino fisso, ma si accende il fuoco direttamente sul pavimento in terra battuta a su pietre piat¬te. Di qui il continuo rischio d’incendi che, specie nei villaggi, possono coinvolgere anche le abitazioni vicine. All’interno delle capanne vi è anche posto per le bestie, che in inverno costituiscono un’importante fonte di riscaldamento. Le finestre sono piccole e prive di vetri. Scarsissime le notizie sul mobilio dell’epoca nelle abitazioni rurali, ridotto all’indispensabile e costruito artigianalmente in legno, materiale deperibile e di difficile dotazione. Poche ciotole e recipienti in terracotta rappresentano gli arredi da cucina; vi è anche qualche scodella in legna. Si mangia con le mani, non essendo conosciute le forchette. Occasione importante per i contadini è quello di recarsi al mercato o alle fiere che si svolgono nelle cittadine più importanti in periodi ben precisi, in genere in primavera ed in autunno; il diritto di organizzarle è un privilegio per le città, pagato ai signori con cifre spesso non indifferenti. Non sempre però è facile raggiungere questi luoghi di scambio commerciale, dati i frequenti disordini; è poi necessario possedere una certa sovrabbondanza di prodotti da scambiare, non sempre possibile. Le città inoltre, consumatrici dei prodotti agricoli, in quest’epoca sono molto decadute perdendo gran parte dei loro abitanti mentre il commercio è ancora poco praticato, limitato ai prodotti locali. Solo dopo il XI si assiste una ripresa demografica, edilizia, della mentalità e del modo di vivere, che porterà ad un progressivo miglioramento delle condizioni di vita.
Favria, 22.06.2015 Giorgio Cortese

Più invecchio e più ritengo giusto pensare che la pazienza è la virtù dei forti e soddisfa più della vendetta.

Caduceo!
Vi siete mai domandati da dove deriva il simbolo che appare nelle farmacie e dell’arte medica, si quella verga recante verso l’estremità due serpenti simmetricamente intrecciati, e al termine due ali spiegate, il caducèo o cadùceo, lemma di derivazione latina, caduceus, a sua volta dal greco antico, con il significato di insegna dell’araldo. Nell’antica Grecia nel V secolo a.C., era la verga che recava in alto due serpenti simmetricamente intrecciati e terminava con due ali spiegate, con questa forma è oggi assunto come simbolo dell’arte medica o farmaceutica. Il caduceo era, allora, il simbolo di prosperità e di pace, ed era attributo degli araldi e di Ermete, Mercurio dei romani, in quanto messaggero degli dèi, Mercurio veniva infatti denominato anche caducifero, dal latino caducifer, colui che porta il caduceo. Nell’antica Roma, prese la forma di un bastone d’olivo ornato di ghirlande. Ma la forma del caduceo non fu sempre quella ora descritta, che risale al quinto secolo d. C. Anticamente esso veniva raffigurato terminante in due cerchi giustapposti, il primo chiuso, il secondo aperto in alto; o anche si partiva in tre branche, le due esteriori riunendosi a cerchio intorno alla porzione terminale. La trasformazione non obbedì certo soltanto a esigenze ornamentali, ma fu determinata da influenze d’Oriente, forse fenicie, come orientale è verosimilmente l’origine del caduceo stesso. A Cartagine come presso i Fenici, i Hittiti, gli Ebrei, gli Egiziani, si trovano emblemi di forma analoga alla sua primitiva, e anche la raffigurazione del serpe o dei due serpenti intrecciati è notoriamente comune all’antico Oriente. Il caduceo veniva anche rappresentato con un ramo d’alloro con cui si celebrava la primaverile e l’alloro era la pianta di Asclepio, come il serpente ne era l’animale, e nel caduceo il mondo vegetale e quello animale venivano riuniti. Il caduceo era il simbolo della prosperità e della pace, e il caduceo ermetico denominato “aureo” negli Inni omerici, ed aveva la virtù di fascinare gli occhi dei mortali e di addormentarli, di attrarre i morti dagli inferi, e pensate, di cambiare in oro gli oggetti toccati, il potere della medievale pietra filosofale. A esso, peraltro, si conferirono moltissimi altri significati. Fondamentale quello, già menzionato, di attributo dei messaggeri. Presso i Romani non si ha traccia precisa di quest’uso, ma il vocabolo caduceator serve a designare il messaggero di pace, il caduceo è raffigurato in Roma come un bastone d’ulivo, ornato di ghirlande. Secondo la tradizione Mercurio, che aveva ricevuto da Apollo il bastone, mentre si trovava in Arcadia vide due serpenti che si battevano. Gettato il bastone tra loro, vide che vi si avvolgevano facendo pace. Da ciò il caduceo divenne simbolo di concordia e, per estensione, di commercio. Presso i greci fu distintivo degli ambasciatori e degli araldi. Nel medioevo era detto caduceo il bastone rivestito di velluto e fiorito che era portato dagli araldi e dai re d’armi. Il significato generale di pace del caduceo è rafforzato dalla simbologia dei singoli elementi che lo compongono: il potere per il bastone, la concordia per i serpenti e la sollecitudine per le ali. Oggi il termine presenta una medesima etimologia ed è identico, salvo adattamenti grafici e fonetici, sia in francese, inglese, spagnolo e tedesco, anche se esiste ancora una forma tedesca desueta, Heroldsstab, che significa “bastone dell’araldo”. Ancora oggi il Farmacista è rappresentato con il bastone alato, che si eleva sopra le parti in quanto conoscitore dell’una e dell’altra, che si frappone tra il farmaco ed il veleno in quanto consapevole del giusto dosaggio. Paracelso insegna: “Tutto è veleno: nulla esiste di non velenoso. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto.” Come nel caduceo i due serpenti che si fronteggiano mi sembrano tanto simili al dna umano, che unisce, ognuno di noi per quello che gli compete deve essere elemento di unione, per stare bene, rietngo necessario sempre sostituire i pensieri negativi con quelli positivi. Dice un vecchio adagio “cuor contento il ciel l’aiuta”. È inutile arrabbiarsi se si rompe qualcosa: ormai è rotto e conviene mettersi l’animo in pace. Dove sempre sforzami di imparare a non giudicare i miei simili, non importa il loro modo di vedere le cose o il colore della pelle. Al limite posso evitare di frequentarli, comunque dovremmo sempre salutarli e mantenere un buon rapporto con tutti.
Favria 23.06.2015 Giorgio Cortese

Nella vita ritengo che sia sempre meglio essere ottimista e poi avere torto che pessimista e poi avere pure ragione

Il furbo sul quotidiano cammino….
Nella vita il furbo è colui che cerca di fregarmi senza farsi riconoscere, e allora devo sempre cercare di sfruttare al meglio l’intelligenza per riconoscerlo e non farmi fregare. Detta così sembra facile, ma il furbo chi è? Già se il farlocco che si ritiene furbo conoscesse l’origine della parola, forse non farebbe il furbo. Pensate che la parola furbo deriva dal francese: fourbe ladro, di etimo incerto, forse da fourbir forbire, ripulire le tasche. L’etimologia è inequivocabile nel tarare questa parola, e il suo uso non può essere che dispregiativo e sarebbe interessante che tale parola venga riproposta nel suo corrispettivo italiano: ladro! Il furbo non ha un’intelligenza costruttiva, non un acume edificante, ma anzi è una sottigliezza tagliente, distruttiva, esercitata sia nelle forme del parassita che in quelle dell’oppressore, totalmente senza valore. È forse il peccato più abietto dell’intelletto umano, egoista, che non pensa ai suoi simili ma solo ai propri gretti interessi. Davanti al mondo e alle sue difficoltà il “farsi furbo” diventa la reazione più malvagia e stupida, solo uniti che si fa la forza, mentre la furbizia, o meglio ladrocinio, è diabolico perché separa e inimica le persone, rendendoci tutti più deboli e impotenti. Quando l’essere umano pensa di essere furbo, passa il tempo ad brigare per trovare il modo per fregare. Il furbo fa tutto con un’intenzione anche quando sembra che presti attenzione. I furbi sono gli incapaci, i mediocri, i nulla facenti, sono i ladri del pane altrui, sono le menti squilibrate e, le anime malate. I furbi sono la feccia della società. I furbi sono i rifiuti dell’umanità. I furbi sono quelli che credono che gli altri muoiono e loro no. I furbi sono individui che conoscono la verità ma che la sostengono solo se è loro utile, altrimenti l’abbandonano. Il modo sicuro di restare ingannati è di credersi più furbi degli altri. Il limite dei furbi è che non riescono ad esimersi dall’esibire i frutti della loro furbizia, prima o poi. Sapete chi era Bertoldo? Un personaggio letterario del Cinquecento, il contadino che s’atteggiava a difensore dell’esperienza contro l’istruzione, dell’improvvisazione contro la preparazione. È il modello dell’italiano che s’arrangia, rappresenta l’orgoglio della furbizia impunita, ed è ancora tra noi. La furbizia è l’occasione prossima della doppiezza e dall’una all’altra il passo è sdruccioloso. Solo la menzogna ne fa la differenza, se la si aggiunge alla furbizia, si ha la doppiezza. I novelli Bertoldo sono fra noi, sono affascinanti e tragici come le tante maschere italiane. Purtroppo niente provoca più danno in uno Stato del fatto che i furbi passino per saggi, e la furberia, purtroppo, è una qualità italiana potente, che ci sta rovinando. Sarebbe meglio magari diventare svegli con tanto buon senso, qualità che non guastano mai. Confidando nelle possibilità dell’evoluzione culturale, dopotutto, tre miliardi di anni di evoluzione biologica, cinquemila di evoluzione culturale – posso darmi tempo, il furbo resta però la sgradevole presenza che percepisco e verso cui provo a pelle, ostilità in ogni contesto sociale: quello che in macchina salta la fila passando per la corsia preferenziale o che usa l’auto dell’anziana madre per parcheggiare nei posti riservati agli handicappati il venerdì sera, quello che al cinema sussurra al suo figlio grandicello “di’ che hai meno di dodici anni”, quello che si “scorda” di farti la ricevuta. Il furbo è il ladro che mi ruba il posto nella coda di un ufficio passando davanti con la faccia di bronzo, il furbo è il ladro che evade le tasse, il furbo è il ladro che fa solo i suoi interessi in ogni ambito. Il fatto è che tutti a volte cercano di fare i furbi, e questo non va bene, se proviamo a non rubare come negli esempi sopra riportati e farci tutti carico dell’onere di annientare sempre con uno sdegno accusatorio l’accettabilità sociale del furbo. Che purtroppo, in Italia, sembra in Patria sua. I furbi si devono ricordare che si può essere più furbo di un altro, ma non più furbo di tutti gli altri, ed io conosciuti i furbi mi vanto di essere un fesso
Favria, 24.06.2015 Giorgio Cortese

Guardare le cose con ottimismo non vuole dire essere uno sprovveduto, ma è segno di avere l’intuizione di come si evolveranno gli eventi aspettando anche con pazienza.

ORA CANONICA MEDIOEVALE derivata dall’ora romana III sec. A.C. Le 24 ore della giornata sono divise in due parti di dodici ore ciascuna. Il giorno dalle attuali ore 06.00 alle 18.00 La notte dalle attuali ore 18.00 alle 06.00. Le ore del giorno sono divise in quattro parti di tre ore ciascuna denominate: TERZA (ore 09.00) – SESTA ore 12.00 o mezzodì) – NONA (ore 15.00) DODICESIMA (ore 18.00, vespro). Le ore della notte, sempre divise in quattro parti dette “VIGILIE”, nome dato dai turni di vigilanza dei soldati romani: PRIMA (dalle ore 19.00 alle ore 21.00) – SECONDA (dalle ore 21.00 alle ore 24.00) – TERZA (dalle ore 24.00 alle ore 03.00) QUARTA (dalle ore 03.00 alle ore 06.009 – Così si legge questo orologio: dalle ore 06.00, “Primo albore”, la prima ora (prima ora del giorno) corrisponde alle ore 07.00, così si aggiunge la seconda, la terza, fino alla sesta ora di giorno (12.00 mezzodì), segue la prima ora del pomeriggio, fino alla sesta ora (vespertina) corrispondente alle attuali 18.00, segue ancora la prima ora di notte (ore 19.00 tramonto), la seconda ora ore 20.00 (1°ora media dopo il tramonto), e così via fino alle ore 06.00 del mattino “primo albore”. OSSERVAZIONE: nell’antichità le ore venivano contate e non lette sul quadrante come viene fatto oggi.
Favria, 25.06.2015 Giorgio Cortese

Solo coloro che riescono nella vita a vedere oltre il muro delle difficoltà e degli ostacoli saranno in grado di oltrepassarlo, ma anche di costruire le basi per un futuro migliore. Ritengo che, nonostante i fallimenti e le sofferenze, se riesco a custodire la capacità di credere in me stesso, questo mi aiuterà a rialzarmi più velocemente, distruggendo tutto quello che mi ha impedito di proseguire per la mia strada.

Pazienza non rassegnazione!
Aveva proprio ragione Giacomo Leopardi, sul carattere eroico della virtù della pazienza. E la pazienza, pur essendo una virtù che tende a perdersi, non è una parola perduta. È persa come virtù, nella pratica, ma il suo significato è, più o meno, ancora conosciuto. È vero che c’è un piccolo slittamento, per cui oggi è vista come semplice accettazione, e si dimentica che con la pazienza si apprende, si sente la sensibilità e la capacità di soffrire, di reagire positivamente al dolore e alla sofferenza. Se invece è passiva accettazione, quasi rassegnazione, allora è chiaro che si perde, come virtù esercitata praticamente e quotidianamente. E infatti oggi la pazienza sembra sia perduta definitivamente. In questo pazienza è sorella gemella di attesa, altra parola perduta. L’attesa nella vita non è l’atroce condanna alla passività assoluta, ma al contrario indica una tensione: “ad-tesa”, essere tesi a qualcosa, rimanere in tensione verso qualcosa o qualcuno Ma oggi, attesa, pazienza sono parole che danno ansia in una società del tutto e subito. Attendere l’autobus, che non arriva “mai”, anche quando la fermata è monitorata dal sistema satellitare, o pazientare quei minuti o anche secondi necessari al computer per caricarsi… parole come “loading, waiting..” sono tra le più insopportabili oggigiorno, per questo molti passano al computer più aggiornato che poi vuol dire essenzialmente più potente e veloce. La pazienza non spegne le domande del mio animo, ma le tiene accese incanalandole in un’attesa che si muove verso una luce più grande.
Favria, 26.06.2015 Giorgio Cortese

La fiducia in me stesso se stesso è la capacità di vedere oltre le prime luci del mattino, per acquisire la consapevolezza di ciò che sono e i quotidiani obiettivi da raggiungere.

Chi ha paura del Babau!
Il Babau, è il mostro immaginario che da bambino veniva evocato per spaventarmi. Il Babau è strettamente collegato all’Uomo nero e all’Orco delle fiabe. Le origini di questa figura non sono accertate. Secondo alcune fonti, il Babau potrebbe essere un retaggio dell’antico timore nei confronti dei Saraceni, predoni che infestavano tra il IX-X secolo il Mediterraneo. In questo caso, la parola “Babau” potrebbe derivare dall’arabo Baban. Un’interpretazione più diffusa intende invece il nome “Babau” come onomatopeica, ottenuto per raddoppiamento dal latrato del cane o di un altro animale, in ogni caso, è accertato anche al di fuori dell’Italia, per esempio nella Linguadoca in Francia e nell’antica Repubblica di Venezia, venivano definiti come i Tre Babài, i tre Inquisitori di Stato che erano i tre magistrati del Tribunale Supremo incaricati di perseguire la divulgazione del segreto di Stato, sottolineandone così la fama di giustizia segreta, rapida e inesorabile. Oggi, il “corridoio Italia” con il transito degli immigrati provenienti dall’altra parte del Mediterraneo sta scoppiando e il clima di intolleranza sta crescendo. Con tutti i problemi che abbiamo, sembra che la Patria sia piombata in emergenza per colpa degli “immigrati”, costituiti da profughi, richiedenti asilo, irregolari e residenti-contribuenti, senza distinzione. Le barche alla deriva, gli sbarchi, le stazioni ferroviarie come derelitti porti di terra ferma, orribili fatti di cronaca nera mediatizzati e scaraventati di peso in slogan politici stanno facendo crescere una sorta di isteria nell’opinione pubblica e sembrano dar ragione a quei leader di partito e a quei governatori del Nord Italia che hanno deciso di alimentare la paura, la sindrome da invasione e la xenofobia per cercare di rimpinguare il loro bottino di voti. Ritengo che un Paese come l’Italia che si professa democratico deve sapere coniugare legalità e sicurezza con la solidale e dignitosa accoglienza dei disperati. Ma poi, domanda ma siamo davvero invasi? Con il conflitto in Libia e la paura di finire nelle mani delle belve dello Stato islamico, sempre più padrone della costa, sta spostando i flussi verso Egitto e Grecia. Il Mediterraneo è in movimento a sud, le carovane dei migranti in arrivo dall’Africa subsahariana e dal Sahel e dal Vicino Oriente si stanno dirigendo in altre direzioni. Ma in queste settimane alcune stazioni sono diventate accampamenti di profughi, dipende dal braccio di ferro in atto a Bruxelles tra la Commissione e una decina di Stati membri sulla ripartizione delle quote dei profughi sbarcati da aprile che usano le italiche coste come “banchina”, perché intendono proseguire per la Germania, la Svizzera, la Francia o la Scandinavia dove hanno parenti e amici. Ma le rigidità del Trattato di Dublino, ormai superato, vincolano i richiedenti asilo per motivi umanitari e politici a rimanere nel Paese di arrivo, cioè dove la polizia li ha identificati che è l’Italia. A questo clima che si va arroventando non vorrei che salisse il rischio di atti di intolleranza e razzismo per la strumentalizzazione di violenze compiute da stranieri clima sociale rovente si innesta. Insomma gli stranieri sono per alcuni leder politici il Babau dove possono scaricare tutte le tensioni ed incapacità politiche nel gestire la nave Italia e le sempre maggiori insofferenze, le irresponsabilità, il cinismo e l’ambiguità di molte, comunque troppe, delle persone che quelle proposte e quelle forme partito incarnano.
Favria, 27.06.2015 Giorgio Cortese

Battere me stesso, ogni giorno, è la cosa che più mi spinge verso l’alto e non mi fa mollare mai.

Nella vita, con cortesia
La vita è come un vaso invisibile ed io sono ciò che gli getto dentro. Se accumulo solo invidia, insoddisfazione e cattiveria, allora traboccherò solo di ansia, ma se raccolgo cortesia, empatia, il vaso del mio animo traboccherà di calma serenità. La cortesia è la catena d’oro con la quale la società viene tenuta insieme e allora nella vita non devo distinguere tra buoni e cattivi, tra amici e nemici, ma distinguere invece tra persone educate e non educate, tra persone che condividono il mio pensiero ed il mio modo di essere e persone che non lo condividono. Cerco, ogni giorno di usare sempre il metro della tolleranza, mai il severo ed inappellabile metro del pregiudizio. La cortesia ha due facce, la prima è la buona educazione formale e l’osservanza delle regole sociali. Significa avere buone maniere, seguire il galateo, l’etichetta. La seconda, più importante, dimostrarmi sempre una brava persona con buon senso, ovvero accogliente, generoso, altruista. Ma purtroppo per alcune persone, la buona educazione è come la freccia per gli automobilisti: un optional! L’educazione, ritengo che deve essere, intesa come buon comportamento sociale, e non è una cosa che si acquisisce nel tempo, e viene impartita dalla famiglia con l’insegnamento e l’esempio. Detto ciò è responsabilità comune educare le nuove generazioni a comportamenti corretti, al rispetto del prossimo e un po’di galateo che non guasta mai. La tenerezza e la cortesia, come la buona educazione, spesso sono viste come sintomo di debolezza, ma invece sono l’essenza della forza d’animo e della determinazione. Molti giorni il mio migliore segno di superiorità è quello di essere gentile con un arrogante. La buona educazione non sta nel non versare la salsa sulla tovaglia, ma nel non mostrare di accorgersi se un altro lo fa. Nella vita di ogni giorno ogni persona che incontro sta combattendo una battaglia di cui non conosco nulla, per questo devo sforzarmi di essere sempre cortese quando possibile, ma devo ricordami che questo atteggiamento è sempre possibile. Una parola cortese è come un giorno di primavera, nella vita di ogni giorno le parole garbate non costano nulla, non irritano mai la lingua o le labbra e aiutano il mio buon umore, perché nessun atto di cortesia, per piccolo che sia, è mai sprecato. Troppo spesso sottovaluto il potere di un sorriso, una parola cortese, un orecchio in sincero ascolto, un complimento sincero, o il più piccolo atto di cura, e tutti abbiamo dentro di noi questo potenziale per trasformare una vita intorno. La cortesia sta alla morale come la kinesioterapia sta alla medicina, un massaggio dell’animo e dunque un modo di fare il bene tramite la dolcezza. Le parole cortesi sono brevi e facili da dire, maa il loro eco è eterno. Un solo atto di cortesia mette le radici in tutte le direzioni, e le radici nascono e fanno nuovi alberi La cortesia e leggere negli occhi l’animo di chi incontro e abbassare lo sguardo, mentre sorride e sfiorarlo gentilmente con le parole e poi, la parola più cortese in tutto il mondo è una parola sgarbata, che non viene detta. Le parole cortesi proiettano la loro stessa immagine sulle anime delle persone, ed è una bella immagine. La cosa più bella nella vita è fare qualcosa per qualcuno senza che se ne accorga e alla sera faccio un po’ di silenzio intorno a me, il silenzio che è la cortesia dell’universo.
Favria, 28.06.2015 Giorgio Cortese

La cortesia è, tutto quello che si fa oltre l’educazione. Le cose, i gesti, le parole, che nessuno mi obbliga a fare, e che per questo, le faccio con paciere. Solo una persona gentile è in grado di giudicare equamente un altro e di considerare, nel farlo, dei margini per le sue manchevolezze. Un occhio cortese, mentre riconosce i difetti, sa vedere oltre questi, e nella vita non esiste dovere più indispensabile di quello che impone di restituire una cortesia

Res Gestae Favriesi: “ Festa Patronale”
Ecco un breve estratto di avvenimenti connessi alla festa Patronale verso la fine del settecento e di come veniva festeggiata la festa Patronale in Favria nell’ottocento e anche una richiesta di spostarla ad agosto. Nel primo documento troviamo la “ Compagnia del Suffragio o del Rosario”, ad amministrare la chiesa, lasciando, si direbbe, in ombra la figura del parroco, a tutto vantaggio di quella del rettore delle Compagnie stesse, spesso designate impropriamente, nei documenti, come Confraternite. Le confraternite esercitavo i loro compiti assistendo i bisognosi e i malati terminali sino alla loro morte. Ecco il resoconto economico della Compagnia del SS. Rosario “eretta nella parrocchiale di S.Pietro e Paolo amministrata dal Cittadino Gio Batta Arrò poeta ed avvocato nel anni 1797, 1798 e 1799: Cedola di L. 300 sui monti della città di Torino acquistata da là compagnia in vista d’instro(mento) delle visto delli 12 luglio 1747 dico L. 300. Censo acquistato dalla Maria Benedetta e moglie fu avvo(cato) Giorgio Antonio Tarizzo come per instro 11 febbraio 1753 rogà(ato) Tarizzo L. 780. Capitale censo verso Maria vedò per Giò Batta Batuel dicono acquistato per instro 23 giugnò 1755 rogò Cocchiello di L. 730:4. Capitale censo verso Giò Batta Antonio e Luigi padre, e figlio nati Biesta acquistato per instrò 6 febrà 1767 rogò Coha di L. 337. Censo verso li fratelli Giuseppe ed Antonio per Giorgio Trucano acquistato per instromento delli 1 genajo 1786 rogò Arrò dI L. 700. Capitale Censo verso Francò Perino acquistato per instrò 10 maggio 1791 L.300. Capitale e Censo verso Domenico e Maria mariro e moglie Pomato acquistato per instrò delli 18 genajo 1798 rogò Crosa L. 400 l. 2.467 -nella successiva pagina- Somma retro L. 2.467 Lire 1000 sui Monti della città di Torino per cessione del ex Conte…..Cavetto Lire 1.000 (TOTALE) L. 3.467:4:0. Tutti capitali censii, e introiti hanno annesso il loro obbligo annuale della celebrazione di messa bassa ed anniversari a motivi tali obblighi dalla predettà compagnia, oltre gli altri obblighi come di provvedere le supplettili in tutta la festa dell’anno ad esclusione della quarta domenica di calendario e mese, e nella festa della festa Immacolata Concessione che veste canonico della compagnia sotto il titolo suddà in v.a parrocchiale……di consegna per ora la cedola non prettante interesse in caso di vendita s’acquista secondo l’editto …..Governo nuovo sarà monti della città di Torino. Esecuzione seconda erezione del Monte di Giò Battista 1757.8 danari 4 oltre L. 791:8:6 appartenenti…..della …sufficiente in tuttto la somma di L.2673:16:10 Giuseppe figlio di Giacomo Gais Berretto delle Cassine di S.Giuseppe d’età 31 già coscritto alla Guardia Nazionale di Oglianico. . Nel 1835, il 14 Giugno ecco che cosa si scriveva allora: “Qualora la gioventù di questo Comune. Desideri solennizzare la Festa Titolare dei Santi Pietro E Paolo, potrà presentarsi dalla Comunità (leggi Municipio) di questo luogo entro la corrente settimana onde prendere opportuni concerti, mentre tal tempo spirato si saranno le opportune provvidenze. Firmato il Sindaco Il Sindaco Choa Francesco. Nel 1840 venne formulata la richiesta di spostare la festa Patronale da Giugno ad Agosto, ecco il testo della lettera nella quale il sindaco di Favria aveva richiesto di spostare la festa del Santo Patrono ecco la risposta indirizzata al Molto Illustre Signore Vostra Eccellenza il Signor Sindaco della Comunità di Rivarolo per Favria: “Torino 17 Dicembre 1840- M. Ill.re Sig. Sig. Pron. Colmo. Mi pervenne debitamente la copia di cotesto scritto consulare riguardante la traslazione della festa Titolare de SS. Pietro e Paolo, e siccome supponevo, che alcuno si recasse per vedere se fossesi emanato il relativo Decreto, così tralasciai sempre di rispondere. Poiché però V. S. M.to Ill.re me ne chiede l’esito colla stimata sua delli 15 corrente mi fo premura di significarle, che oltre l’essere mia massima di non concedere in genere la traslazione delle feste dal giorno in cui cadono alla Domenica successiva, sarebbe un salto troppo grande il passare dal 29 Giugno alla Domenica dopo il 16 Agosto. Nel desiderio di incontrare occasione più favorevole per poterla compiacere passo a raffermarmi coi sensi della più perfetta stima e verace considerazione. Di V.S. M.to Ill.re. D.mo Ecc.mo S.re + Luigi Arrio Favria Sig. Sindaco”. Per concludere i lavori fatti alla chiesa parrocchiale il 1717 ottobre 1851: “Spese esterne fatte alla chiesa parrocchiale dal Priore attuale Molto Reverendissimo Pregiatissimo Don Franco Arrò, come da parcella codesta: a Cattaneo Antonio, falegname 123:00; a Pistone Fortunato, capomastro 103:00; provviste fatte dal priore per tempieri coppine n : più una fornitura d’un trave per arena (sabbia)- carre 4 per mattoni n. 200, totale 24:00. Al Signor Nizia Pietro, ferragliere, lire dodici 12:00. A Perino Sebastiano per chiavi 5:85. Totale lire 452:85. il sottoscritto prega la Molto Magnifica Comunità a vogliergli stignare di spendergli il mandato per l’esazione dette lire 400:00, nel corrente anno, esentando il medesimo in debito presso ceraio Francesco Corra di lire settecentoundici. Favria il 17 ottobre 1851 Don Arrò Francesco priore
Favria, 29.06.2015 Giorgio Cortese

La vita è fatta di brevi ma intensi attimi, sono quelli che restano nell’animo.

I compagni di una vita: i ricordi
L’amico Pietro mi ha inviato un video che parla dei ricordi della gioventù. Mi è venuta in mente questa breve riflessione. Nel silenzio i miei ricordi prendono forma, si animano, profumano di emozioni incancellabili. Nella mia vita gli oggetti che mi porterò sempre dietro e che nessuno può rubarmi è il bagaglio dei ricordi. Nel corso della vita di un essere umano solo individuo, solo tre cose non sono sottoposte alle leggi del tempo: i sogni, i ricordi, l’amore. Ed è soprattutto verso sera che riapro la bisaccia dei ricordi nell’animo, quando sento il bisogno di respirare un sogno, ancora una volta. I ricordi sono immagini indelebili, che rimangono in eterno nell’animo. Se i ricordi potessero trasformarsi in cibo, io potrei far cessare la fame nel mondo, ne ho cosi pieno l’animo, che non riesco più a contenerli, della mia vita non rinnego gli sbagli commessi, li ricordo e ne faccio di nuovi, perché si sa di rimpianti non si vive, ma di ricordi si. Dalle stanze dell’animo dove si trovano i ricordi, fluiscono nella mente e fluttuano come onde nel sospiro e soffici si infrangono in tutto l’animo. Sono reminiscenze che profumano di un tempo già andato, sono petali vellutati di memoria delle persone che ho conosciuto di momenti di gioia e anche tristi. Nel mio animo ci sono delle camere nella casa dei ricordi, dove il signor Rimpianto e la signora Nostalgia, hanno sempre il libero accesso. Certi giorni, pensando ai ricordi mi sembrano una colonna sonora, ma non solo suoni, ma anche profumi che con il loro pungente incitare l’olfatto danno vita a un’orchestra di note musicali, dove ad ogni capoverso ricordo con piacere ed affetto i miei genitori e i miei compagni di giochi da bambino, il ricordo di quando stare con gli amici e con i miei cari era fonte di gioia e genuino divertimento, allora vivevano tutti davvero, non virtualmente dietro una maschera di false emozioni. Nella vita di ogni giorno sono ciò che porto dentro, pensieri, emozioni, sentimenti. Sono il mio passato, con i ricordi della mia personale storia. Sono la sintesi di un’infinità di momenti vissuti, che mi hanno toccato, sfiorato, segnato e anche cambiato, ieri è l’oggi finito, il domani è il presente che ritorna, infatti i ricordi del passato aiutano a costruire le azioni del presente, che diventeranno a loro volta ricordi, nel futuro. Il mio passato lo riguardo sempre con piacere. Ritrovo le cose belle che ho vissuto, che ho voluto e che mai potrò dimenticare. Non posso cancellare i ricordi, le mie reminiscenze formano una trama ricamata con il mio animo. Tanto tempo fa, una saggia persona mi aveva detto di conservare i ricordi più belli nell’angolo più luminoso dell’animo, perché mi saranno serviti a colorare con vivida luce i giorni e le notti buie e solitarie ed è vero c’è l’ambizione all’eternità ignorando l’eternità dell’inimitabile personale storia che illumina sempre il nostro cammino. Certo tutto ciò che è stato non potrà essere mai dimenticato, a volte verso sera lascio un libro aperto, perché il fruscio di quell’ultima pagina da voltare sia già come lo ricorderò tutta la vita, e diventerà il rumore più assordante che avrò mai ascoltato. Nella vita quotidiana una delle poche certezze che mi saranno sempre vicini e compagni per tutta la vita, l’essenza della vita stessa, sono loro i ricordi
Favria, 30.06.2015 Giorgio Cortese