L’assedio di Verrua. – Al crepuscolo … – La leggenda del pettirosso. – Evocare il passato non è solo nostalgia. – Aspettativa, fiducia… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

L’assedio di Verrua Castello de Verua sìa lìè tan bin piantà,/ piantà su

cule roche ch’a i pasa ‘l Po’ da la là./ La bela a la finestra an bass l’à risguardà:/ l’’à vist venì na barca carà de gent armà,/ cun  j’arme ch’a i luzio, ch’a smiavo andorà./ La bela tira na pera, la barca l’è sparfundà./ Na fussa de cula pera Vera saria pià,/ saria pià Verua, castel de Munfrerà. Castello di Verra è tanto ben piantato su quelle roccie, che ci passa il Po di lato. La bella alla finestra in basso guardò: vide venire una barca carica di gente armata, colle armi che rilucevano da sembrare indorate. La bella tira una pietra, la barca è sprofondata. Se non fosse per quella pietra Verrua sarebbe presa, sarebbe presa Verrua castello di Monferrato. La fortezza di Verrua subì nei secoli molti assedi, il  primo fu compiuto nel 1167 da Federico Barbarossa che distrusse il Borgo e le fortificazioni. Ricostruite dopo alcuni anni dovette sopportare altri assedi per via della sua posizione strategica: nel 1625 una coalizione austro-spagnola lo cinse d’assedio; lo stesso episodio accadde nel 1387 con i Marchesi del Monferrato, nel 1405 ed infine nel 1704 quando la Rocca cadde nelle mani dei francesi. La canzone popolare dell’Ottocento sull’assedio di Verrua ha  poi il radici molto antiche e si ricollega all’anno 1377 quando i Biellesi si ribellarono al vescovo di Vercelli Giovanni del Fiesco e lo fecero prigioniero. Intervenne allora Galeazzo Visconti, duca di Milano e il marchese di Monferrato, o meglio il suo tutore Ottone di Brunswick, che cercava sempre l’occasione di ingrandire  il marchesato a spese dei domini vicini, in special modo sui deboli domini vescovili.  Galeazzo Visconti invio nel Biellese il  suo capitano Jacopo del Verme e il marchese di Monferrato, forse il fratello di   Ottone III Paleologo, detto anche Secondotto o Secondo Ottone, Teodoro pose il suo campo a Verrua. I  Biellesi mandarono dei messaggeri con una supplica di aiuto al Conte Verde Amedeo VI di Savoia accolse favorevolmente le suppliche dei Biellesi e anche del vescovo di Vercelli Giovanni del Fiesco. Poi il conte Verde mandò un messaggio al Marchese di Monferrato duo parente perché levasse l’assedio alla fortezza perché era sotto la sua protezione, il marchese ottemperò alla richiesta e si ritirò nel Monferrato. Tolto l’assedio gli abitanti di Verrua dalla rocca innalzarono la bandiera dei Savoia e acclamarono l’evento gridando: “Viva Savoia, che si liberò dalle mani dei nostri nemici!”. Poi dodici maggiorenti di Verrua andarono dal Conte Verde prestarono giuramento di sottomissione e venne posto come castellano un capitano di Santhià al servizio dei Savoia. Purtroppo le notizie storiche  riguardo questo assedio sono scarne e non è durato a lungo e senza fatti d’armi degni di importanza. Forse la canzone si riferisce all’assedio del  1387. Dopo la morte del conte Verde, il figlio Amedeo VII detto il conte Rosso era in  terra di Francia per riconciliare il re con il duca di Bretagna. Teodoro di Monferrato, vista l’assenza del duca cercò di ampliare i confini e di prendere questa importante fortezza corrompendo alcuni signori del Canavese di parte Ghibellina.  I signori del Canavese di parte ghibellina erano, i conti di Valperga, i Biandrati di San Giorgio, i conti di Masino, le famiglie  patrizie dei Soleri e dei Bornati di Ivrea e i Perlo della Valle d’Aosta. Aderivano alla parte guelfa i conti di San Martino, la famiglia dei Taglianti e dei Lastri di Ivrea ed i signori di Challant in Valle D’ Aosta. La madre del Conte Rosso. Bona di Borbone, mandò subito il suo consigliere Otto di Grandson con dei soldati in aiuto dei signori del Canavese rimasti  fedeli ai Savoia. Otto di Grandson fu sbaragliato da Facino Cane, in quel periodo al soldo del Marchese di Monferrato,  e fatto da lui prigioniero. Allora la reggente mandò messaggeri in Francia per richiamare il conte Rosso. Il conte Rosso arrivò dalla Francia con dei soldati, Teodoro di Monferrato su consiglio del fratello Guglielmo si ritirò dal Basso Canavese e si diresse verso Verrua per assicurarsi le spalle in casi di conflitto. Il conte Rosso si diresse verso Torino per fare scorta di soldati e di vettovaglie dal principe diAcaja e poi si diresse verso il Monferrato. A Mombello il Marchesato chiese la pace che venne concessa a patto che si togliesse subito l’assedio a Verrua. La pace venne siglata sotto una grande tenda a Mombello e al suono di tromba il marchese di Monferrato ed il conte Rosso e Guglielmo si abbracciarono  pubblicamente. Poi il conte Rosso di diresse verso il Canavese per  vendicarsi dei signori ribelli. Questi avvenimenti avvennero verso la fine d’agosto del 1387. Ma prima della pace e del soccorso del conte Rosso e del principe d’Acaja il castello di Verrua sopportò l’assedio dei tremendi assalti, iniziato il 4 luglio dello stesso anno. La rocca era difesa sola dai terrazzani, gli abitanti della rocca e da soli sostennero l’urto del nemico che non espugnò la fortezza, anzi questo rese ancora più feroci i mercenari che non poterono raggiungere l’obbiettivo prefissato. Dei mercenari professionisti della guerra messi nel sacco dai abitanti della rocca, dei terrazzani che non ne avevano mai combattute. Nella canzone si menzione che la fortezza non era mai stata presa, ecco allora se escludiamo l’assedio del 1704 quando capitolò sotto i Francesi poi vinti durante l’assedio di Torino. Nel 1377 il nemico proveniva dal Basso Canavese accampandosi sotto le mura della rocca, sulla riva destra del Po, dove fece molti guasti bruciando e saccheggiando i molini posti sul fiume. Nella canzone si fa riferimento ad una donna dall’alto della rocca che si alza perpendicolare sul Po, fece sprofondare con un sasso un barca nemica che traghettava il fiume portando dei soldati, probabilmente  destinati per fare un colpo di mano per sorprendere i difensori del castello. Nel 1625 e nel 1704 a Verrua prima delle ostilità si trovata già un presidio militare che poi venne aumentato all’avvicinarsi degli assedianti. Nel 1377 la rocca era priva di soldati ma difesa solo dai terrazzani. Da questo assedio snasce questi motto per Verrua: “Quand che ‘l ver pijrrà cost’ua, ‘l marcheis dal Monfrà ‘l pijrrà Vrua” che significa Quando il maiale prenderà l’uva il Marchese del Monferrato conquisterà Verrua. Questa frase è incisa su di un bassorilievo all’entrata del castello e garzie a questa antica ballata piemontese si è potuto rievocare un piccolo ma importante episodio delle storia del Piemonte e delle nostre radici.
Favria, 27.12.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. La tarda età, non più tempo di sogni, ma fonte di ricordi, non più ricerca di futuro, ma desiderio di contemplazione del presente che fugge. Felice mercoledì


Al crepuscolo …

Al crepuscolo del 24 dicembre 1979 un battaglione motorizzato appartenente alla 108esima divisione russa attraverso il ponte sul fiume Amu Darya che divide l’Afghanistan dal Tagikistan, al comando del colonnello Mironov. Era cominciata l’invasione sovietica del Paese, operazione che in tre giorni porto 50mila uomini dell’Armata Rossa a occupare tutti gli snodi nevralgici dell’Afghanistan. La successiva guerra avrebbe segnato il destino del colosso sovietico, contribuendo non poco al suo rapido disfacimento. Nella trappola afghana, che alcuni storici definirono “il Vietnam sovietico”. Il Cremlino, al cui vertice c’era il torvo Leonid  Breznev, cadde nella trappola, nonostante l’iniziale ritrosia ad un intervento che avrebbe minato alle fondamenta l’equilibrio geopolitico dell’Asia Centrale, quadrante sul quale affacciavano le repubbliche centro-asiatiche dell’Urss. Il colpo di stato che il 27 aprile dell’anno prima aveva portato al potere a Kabul il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), foraggiato da Mosca e di orientamento marxista-leninista. Il nuovo governo aveva dato il via nel Paese ad un radicale programma di riforme laiciste e socialiste intese a modernizzarne la struttura sociale, sottraendola alle logiche secolari di un potere tribale suddiviso tra una pletora di leader locali. Per riconquistare il loro potere i clan imbracciarono i fucili: l’insurrezione antigovernativa fece emergere la figura barbuta dei mujaheddin, indomiti guerrieri islamici ai quali il Pakistan, l’Arabia Saudita e soprattutto gli Stati Uniti, interessati a indurre l’intervento sovietico per logorare l’orso russo, presero a fornire armi e munizioni. Gli insorti arrivarono a controllare 18 delle 26 province afgane, facendo temere all’Urss che il Paese potesse cadere sotto il controllo islamista. Lo spauracchio di un contagio fondamentalista che valicasse il confine e agitasse le comunita islamiche all’interno delle Repubbliche sovietiche confinanti con l’Afghanistan, quanto lo spettro di un nuovo governo slegato dalla fedeltà a Mosca che autorizzasse l’impianto di basi militari cinesi o addirittura americane, convinse i vertici comunisti al passo che condanno la Russia al suo Vietnam: una guerra sistematica a tutto campo agli insorti. La presenza sovietica in Afghanistan duro fino al febbraio 1989 e, secondo fonti ufficiali, costo 15mila vite russe e almeno 640mila afgane, oltre a cinque milioni di sfollati in Pakistan e Iran, senza peraltro raggiungere gli obiettivi politici prefissati: sottomettere il Paese e instaurare un governo fedele all’URSS. Finché, fiaccate dalla costante guerriglia dei combattenti islamici arroccati su inaccessibili rilievi montuosi, le truppe sovietiche fecero dietrofront, lasciando al governo amico l’intero problema, con il solo supporto di numerosi consiglieri militari incaricati di continuare a visionare, controllare e implementare l’attivita del governo di Kabul, che resistette sino a poco dopo il collasso dell’Unione sovietica nel 1991 quando venne abbattuto dai mujaheddin. L’intervento sovietico si rivelo un disastro tanto sul piano diplomatico quanto su quello interno. Le morti dei militari russi, sacrificati in un conflitto estenuante e alla resa dei conti perdente, costo al regime comunista un drastico calo dei consensi tra la popolazione; contemporaneamente ne uscirono indeboliti il prestigio del Partito e dell’Armata Rossa, fattori che contribuirono a minare l’unita della società  sovietica. Non  da ultimo la sciagurata avventura afgana si rivelo un salasso economico che aggravo la già traballante situazione finanziaria del Paese

Favria,  28.12.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. L’inverno non sarà mai freddo se portiamo sempre  il Natale nel cuore. Felice giovedì.

La leggenda del pettirosso.

Si narra che un  piccolo uccellino marrone divideva la stalla a Betlemme con la Sacra famiglia. La notte, mentre la famiglia dormiva, l’uccellino notò che il fuoco che li scaldava stava per spegnersi. Così, per tenere caldo il piccolo, volò verso le braci e tenne il fuoco vivo muovendo le ali per tutta la notte. Il mattino seguente l’uccellino fu premiato con un bel petto rosso brillante come simbolo del suo amore per Gesù Bambino.

Favria, 29.12.2022  Giorgio Cortese 

Buona giornata. Natale è il conforto di un abbraccio, la parola che rinfranca, una luce che si accende, il sorriso di chi amiamo. Felice venerdì.

Evocare il passato non è solo nostalgia

Ogni volta che finiamo un’annata che termina con 3, bisognerebbe ricordarsi del 1963 e celebrarlo come merita. Perché, anche senza considerare la neoavanguardia nata in quel dicembre, il 1963 è stato un anno particolare in letteratura. Pensate: La tregua di Primo Levi, premio Campiello, e Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, premio Strega. Finalista, tra gli altri, Beppe Fenoglio con Un giorno di fuoco, Fenoglio era morto da due mesi quando uscì da Garzanti quel libro che conteneva anche “Una questione privata”. Il Viareggio andò ai Racconti dell’outsider Antonio Delfini, oggi riproposto come il più grande dei minori, e per la saggistica a Sergio Solmi, uno dei maggiori poeti e saggisti del secolo. Il premio Bagutta fu assegnato a Ottiero Ottieri, per il suo inquietante diario del lavoro industriale, In quell’anno uscirono, per Feltrinelli, un romanzo impensabile come Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino e Libera nos a Malo, l’esordio sorprendente di Luigi Meneghello. Oltre a Levi e alla Ginzburg, Einaudi pubblicò Il consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia, i racconti de Lo scialle andaluso di Elsa Morante e qualche libro del quarantenne Italo Calvino: La giornata di uno scrutatore, La speculazione edilizia e Marcovaldo. In quei mesi Umberto Eco mandò in libreria con Mondadori il suo Diario minimo, ma soprattutto: in primavera apparve, per Einaudi, La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda che in luglio avrebbe vinto il premio internazionale Formentor. E la poesia? Un piccolo editore come Scheiwiller pubblicò Nel magma di Mario Luzi. Bisogna pur dire, restando nei dintorni, che neanche il 1962 e il 1964 sono anni da buttar via: basti citare La vita agra di Bianciardi, Memoriale di Volponi, Il male oscuro di Giuseppe Berto, Poesia in forma di rosa di Pasolini. Ora, si avverte una strana aria per cui chi evoca con ammirazione quel tempo, magari per confrontarlo con il grigiore attuale, mancanza di coraggio nello spingersi verso terre e linguaggi nuovi, inciampa nel sospetto di essere un penoso nostalgico o un fastidioso disfattista, oggi lo sarebbero anche Dante e Leopardi per i quali il confronto ammirato con il passato era vivificante. Come se uno dei vizi più disastrosi dei nostri anni non fosse la presunzione di essere immensi a prescindere.

Favria, 30.12.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Abbiamo solo una possibilità ogni giorno, quella di fare sempre del nostro meglio. Felice sabato, buon anno.

Aspettativa, fiducia.

Ho ascoltato tempo addietro ad una interessante conferenza sulle auto elettriche, energia verde ed inquinamento, argomenti che ci bombardano i media in questi tempi con lo slogan finale che non abbiamo un pianeta B, ma forse mi viene da pensare che dobbiamo ragionare su un piano B. Inizio con la parola aspettativa che significa ipotetico sviluppo futuro di un fenomeno, che può essere il lavoro o l’arrivo dell’agognata pensione. Il lemma deriva da aspettare dal latino expectare, ovvero l’atto dell’aspettare benzina alle nostre quotidiane azione, perché siamo sempre mossi dall’aspettare qualcosa, il nostro atteggiamento verso il futuro che influenza le decisioni  che prendiamo adesso, anche inconsapevolmente. Per questo nustriamo fiducia,  parola dal latino fides, che significa “riconoscimento dell’affidabilità dell’altro”, dunque indica qualcosa che ci conquistiamo  sul cammino della vita, che richiede l’incontro e il contatto con i nostri simili. Attenzione  alla fiducia non possiamo abbandonarci come alla fede, che è invece un atto assoluto. La fides che sta alle spalle della nostra fiducia non è un atto istintivo, è invece un atto in cui abbiamo bisogno di familiarizzare, di esporci, di condividere, di saggiare la lealtà di chi ci sta davanti, perché la fiducia è una conquista reciproca con i nostri interlocutori ogni giorno. Solo dopo tutto questo daremo fiducia. Quando abbiamo stabilito intimità, diventiamo sicuri che se il depositario della nostra fiducia dovrà decidere per noi lo farà nel nostro interesse. Ritengo, mia opinione personale che il bisogno di fiducia nasce dalla consapevolezza dei miei umani limiti. I nostri limiti ci impongono di cercare qualcuno di cui fidarci e solo da questa consapevolezza del limite nasce il bisogno di accogliere l’altro, prova inconfutabile del nostro essere animali sociali, perché siamo insufficienti a noi stessi. Del resto, insufficienti a noi stessi lo siamo sin dalla nascita e la  nostra sopravvivenza è dovuta all’aspettativa che il bambino ripone nella madre che tornerà a sfamarlo. Certo se poi la fiducia viene meno, ci sentiamo traditi e ne proviamo grande dolore. Dolore, dal verbo latino tradere, significa abbandonare qualcuno, con significato negativo che rende con la parola la delusione nell’animo della perdita di fiducia. Oggi purtroppo, mala tempora currunt! Oggi non viviamo più in un presente dove ci interessa una fiducia totale o dove rompere la fiducia, tradire, è un atto di riprovazione morale. Oggi viviamo nell’illusione con i social di onnipotenza e che possediamo tutto e ci fa ritenere stoltamente di essere autosufficienti e poi facciamo la fine di Mazzaro di Verga con la roba. La fiducia pare non più attuale, alla moda, ma meno viene praticata da tutti noi e più se ne sente parlare. Basta ascoltare un telegiornale, sfogliare un quotidiano, consultare un sito di informazione e il lemma viene usato sempre di più. Che paradosso la fiducia che pratichiamo sempre meno tra di noi la ritroviamo nella “fiducia” che dobbiamo avere nei mercati, nel governo che pone continuamente “la fiducia”, nella “fiducia” che la crisi è ormai alle spalle, nelle affermazioni perentorie che chi non ha “fiducia” è un gufo. La domanda che mi pongo è se siamo sicuri che la fiducia che ci chiedono la politica, la società, la pubblicità, sia veramente fiducia? Sia, cioè, un atto di conoscenza, di tensione verso l’altro, di una generosità che crea affidabilità? A me pare di no. La fiducia che ci viene chiesta non deriva dalla pratica, lenta e faticosa, della conoscenza. La fiducia smerciata nella comunicazione politica e in  quella pubblicitaria è calata dall’alto, e non  nasce da un rapporto che due o più persone. Oggi la politica ed il mercato economico non la guadagnano sul campo, ma la domandano a ripetizione e la pretendono per sussistere e rafforzare se stessi in un solo senso e non  ci viene  mai chiesto di agire, se non quando dobbiamo dire sì, quando dobbiamo alzare la mano per votare la fiducia o per dire che anche noi vogliamo quel prodotto. Noi dobbiamo dare fiducia ma dall’altra parte non c’è nessuno che ci ha teso la mano e che ci ha conquistati, dunque questa non è fiducia perché non esiste una fiducia senza l’altro. In fondo fiducia ha una radice che risale alla parola amore, il quale, a meno che non sia per Dio, prevede che siamo sempre in due. Ma nonostante tutto conserviamo l’aspettativa per il futuro.

Favria, 31.12.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Il 2024 si avvicina, pronto per essere vissuto. C’è chi aspetta nuove sfide, chi aspetta un lavoro, chi una svolta nella vita e, c’è chi non aspetta nulla, perché gli basta ciò che ha. Ma tutti noi dal nuovo anno, ci aspettiamo, salute, pace e tanta serenità. Buon Anno.