L’attimo sospeso – Obtusiangulus – Medicus di Gordon Noah – Galaverna e calabrosa – Ogni giorno-17 marzo 1861, l’anno della svolta! – Di venere e di marte non si sposa, non si parte…. – Oltre la grata della finestra. – LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

L’attimo sospeso
Una di queste mattine mi è capitato di sentire vibrare nell’animo, l’attimo sospeso. Ritengo l’attimo sospeso la sottile linea che unisce o separa la forma ed il pensiero. Questa sensazione ha attraversato il mio animo al mattino, che è il momento del giorno in cui la vita mi dona il suo primo sorriso e dove cerco di conservare questo sorriso per il resto della giornata. Ma ogni secondo, ogni istante è sospeso sui raggi di luce che s’infiltrano tra le fessure dell’animo e si fanno spazio aggrappandosi alla speranza, alla bellezza e alla giustizia. La vita è solo un baleno rispetto all’eternità e non devo mai lasciare nulla in sospeso, tentare, sperare, sognare, agire, ridere, soffrire, piangere ed aiutare il prossimo. Il corso dell’attimo sospeso è simile ad una piega nella seta, fatto di dolcezza e d’abbandono ai pensieri per un attimo non irrequieti ma spensierati. Ricordo che in quel momento era sospeso il tempo. Poi il corso della giornata riprende e si stropicciano i pensieri preso come sono dalle preoccupazioni della giornata. Alla sera raccolgo i piccoli pensieri nella rete della giornata, di quanto ho fatto e quanto mi ero solo ripromesso di fare e ripensando a quell’attimo sospeso il mio animo si schiude colmo di stupore ed emozione
Favria 12.03.2016 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno la persona serena procura serenità a sé e agli altri. Con il buon umore si ha un tonico naturale per la mente e per il corpo, il miglior antidoto per l’ansia e la depressione. La serenità è sempre una risorsa non solo perché attrae e mantiene gli amici, ma alleggerisce i quotidiani pensieri

Obtusiangulus
Una signora mi ha raccontato la sua disavventura spiegandomi di quanto certe persone possono essere ottuse. Pensate che la signora ha scoperto dopo diversi mesi che era mancata la mamma che nella buca delle lettere dove abitava la defunta signora erano arrivate delle lettere che sollecitavano il pagamento rate di un finanziamento. La signora allora aveva telefonato a questa società e dopo aver passato delle mezze ore al telefono con la musichetta che invece di mettere serenità nell’attesa accresce chissà perchè un sentimento di nervosismo. Poi ha trovato dall’altro capo del filo una signorina beota che si rifiutava di dare qualsiasi notizia sul finanziamento, invocando la privacy, privacy di un defunto! Dopo molte telefonate ed insistenze alla fine ha trovato una persona che gli rilasciato un indirizzo mail dove mandare la documentazione che attesta che la signora è l’unico erede per avere gli estremi del saldo e le coordinate bancarie per estinguere il finanziamento. La cosa mi ha fatto sorridere, perché questa signora dall’altro capo del filo in nome della privacy, con cui si è subito trincerata, non ha usato il buonsenso per dare modo alla signora di poter scrivere ed inviare i documenti che attestano che è lei l’unico erede e che anche senza aver firmato nulla vuole pagare il debito della madre. Questo episodio mi ha fatto pensare a due parole, ottuso e beoto che usiamo nel quotidiano per indicare la mancanza di quel minimo di elasticità mentale per risolvere un banale problema. La prima beota, che deriva dagli antichi abitanti della Beozia, regione della Grecia centrale, oggi si usa per indicare un stupido. Deriva dal latino: Boeotus, da greco: Boiotos abitante della Boiotia Beozia. Pensate che presso gli Ateniesi, i Beoti non avevano fama di essere proprio delle cime, tanto che vennero presi come antonomasia per l’ottuso. Antonomasia che ebbe un successo clamoroso, arrivando ad essere di uso comune anche per gli autori latini, e figuriamoci, ha retto benissimo fino a oggi. Certo, non è una parola carina, anche perché la Beozia non si è spopolata né è sprofondata come Atlantide, e immagino che debba scocciare reggere un simile macigno sul proprio nome geografico, ma il suono è talmente eloquente, quasi onomatopeico, a metà fra il verso di una pecora e di una mucca, così largo, lento e grasso, disegna perfettamente l’indole e l’espressione del beota, la bocca semiaperta, la mente grossa e tarda, il movimento goffo e sciocco. Anche ottuso ha la sua bella storia. Il verbo latino da cui deriva è obtundere, composto di ob, contro, e tundere, percuotere. . Dal suo participio passato obtusus sono arrivati i tre significati fondamentali del termine in italiano: spuntato, visto che a furia di battere un oggetto gli si tolgono le punte; stupido, perché a furia di prendere botte uno rimane rintronato; e di angolo spuntato e quindi maggiore di uno retto. In questo senso troviamo la parola già nel solito Dante; ma naturalmente già il tardo latino aveva il lemma obtusiangulus come la signorina all’altro capo del filo
Favria, 13.03.2016 Giorgio Cortese

Ogni giorno non mi devo mai accontentare della felicità ma aspirare sempre alla serenità

Medicus di Gordon Noah.
Una cliente mi ha consigliato di leggere “Medicus” il primo dei tre libri che questo autore americano dedica ad una “stirpe” di medici. In questo libro ho trovato la storia del primo dei Cole medici, Rob: suo padre, Nathanael, e’ un carpentiere nell’Inghilterra del 1020. Rob è un ragazzino di 9 anni che scopre di avere un dono: attraverso il tocco delle mani riesce a “sentire” l’essenza della vita scorrere nelle vene e grazie a questo capire se qualcuno è in salute o in punto di morte. Questo regalo divino lo influenza al punto di decidere di prodigarsi per il prossimo. Rimasto presto orfano e separato dai fratelli si unisce ad un girovago “saltimbanco” e cerusico di nome Barber, il quale gli insegna – oltre al mestiere di giocoliere – i rudimenti della medicina popolare legati ad una buona dose di ciarlataneria e superstizione. Col passare degli anni Rob capisce che vuole di più e divenire un medico a tutti gli effetti ma, per poter soddisfare il bisogno di conoscenza, deve rivolgere la sua attenzione allo studio dove la materia è più progredita: in Persia dal “Principe dei Medici” Ibn Sina, Avicenna, personaggio realmente esistito. Avicenna, nato in Persia, nel 980, è tra grandi di tutti i tempi: filosofo e medico di grande fama, studioso di Ippocrate e Galeno, seguace di Aristotele e Platone. Oltre al viaggio avventuroso, il protagonista deve anche combattere contro alcuni ostacoli dell’epoca: la possibile accusa di stregoneria, l’impossibilità di un cristiano di poter studiare in una scuola coranica (a questo scopo dovrà camuffarsi da ebreo) e le difficoltà legate alle differenze tra le classi sociali, l’avversità dei medici “colti”. Si metterà comunque in viaggio con molti sacrifici e incontrerà persone che influenzeranno il suo futuro (professionale e non) fino a raggiungere la metà persiana: Ishapane non aggiungo altro. Il libro è scorrevole, divertente ed istruttivo anche perchè pur essendo ovviamente un lavoro di fantasia, fa riferimento a molti avvenimenti storici. Leggendo il libro ho visto la vita del protagonista scorrergli davanti, dalla giovinezza alla vecchiaia. Il mio animo ha sussultato perché di fronte allo scorrere della vita mi sento impotente. Mi ha fatto riflettere sulla paura di un futuro che adesso per molti non c’è. Mi ha fatto vibrare nell’animo la passione per la scoperta, la voglia di vivere, la disapprovazione per il pressapochismo. Ma soprattutto la fame di conoscenza, quel desiderio, quel fuoco sacro che qualche demone inconscio, più che Dio, mi fa innamorare per la ricerca, mi fa gioire, piangere e soffrire dietro qualcosa senza la quale la mia umana esistenza sarebbe inutile. Concludendo un libro appassionante e ben scritto, 600 pagine e oltre che allietano il tempo piacevolmente
Favria, 14.03.2016 Giorgio Cortese

Che spettacolo la primavera, dalla morte rinasce sempre la vita, come le foglie degli alberi cadono e muoiono, ma altre foglie prenderanno il loro posto in tempi migliori. Così tutto ciò che vive è fatto anche per morire, così come il Sole rinasce ogni giorno, la Speranza, che non muore mai nell’animo, si rinnova ogni mattino in cui spunta all’orizzonte.

Galaverna e calabrosa
Ci sono due tipi fi ghiaccio atmosferico cos’ singolari da essersi conquistati un nome. Il primo la galaverna deposito di ghiaccio in aghi o scaglie che può ricoprire ciò che resta esposto a grande freddo e umidità, specie gli alberi. L’origine della parola deriva , forse, da caligo ‘nebbia’, da cala, di origine germanica) e dal latino hibernus ‘inverno’, ma anche ‘gelo’. La galaverna è uno degli spettacoli più affascinanti che riserva l’inverno. La galaverna è quel ghiaccio a forma di aghi o scaglie che si produce con il depositato di nebbia su oggetti vari quando la temperatura scende sotto zero. Fenomeno raro, in inverni caldi come questi. Un’altra ipotesi, più poetica che scientifica, trova nella galaverna la gala invernale, un addobbo del gelo. Curiosi collegamenti sono stati poi rinvenuti col gergo marinaresco, in cui la calaverna è la fodera con cui l’asta del remo viene protetta dall’attrito, molto simile alle concrezioni ghiacciate che ricoprono i rami degli alberi. Una parola non desueta ma rara, e tutta l’attenzione che le volgiamo scaturisce dalla meraviglia del fenomeno che descrive. La calabrosa, si forma quando con la nebbia c’è un brusco crollo della temepratura, molto sotto i -2 gradi centigradi allora si solidifica a goccioloni e il ghiaccio assume un aspetto spugnoso. Il termine a calabrosa deriva da alcuni dialetti settentrionali, lombardia e in forma abbreviata compare anche nel veneto bróxa, con il significato di “crosta ghiacciata”, “nebbia gelata”, “brinata”. L’origine è la radice è medesima della galaverna.
Favria 15.03.2016 Giorgio Cortese

Ogni giorno cerco semplicemente di vivere meglio che posso il presente perchè il modo migliore per avvicinarmi alla sensazione di eternità. In ciascuno degli istanti che scorrono inesorabili è contenuto, come in un chicco di grano il seme di tutta l’eternità. Penso che tutti profumiamo del profumo dell’eternità, ma non abbiamo l’olfatto per sentirlo.

Ogni giorno
Ogni giorno lotto e combatto con tutte le mie forze per quello che vale a pena di essere vissuto, lotto fino a che ho fiato nei polmoni e quando scarseggia faccio un bel respiro e riprendo a lottare. Lotto per ciò che credo con passione ed entusiasmo seguendo il cuore, perchè quello che si fa con il cuore non ha prezzo, cercando sempre di fare la differenza. Non mollo mai e cerco di fare dei mei sogni delle realtà adesso. Ma quando mi rendo conto che certe strade sono impraticabili, risparmio le forze per percorrere altre. Se sono in difficoltà cerco di sorridere sempre alla vita e a chi incontro. Devo ogni giorno imparare ad ascoltare sempre di più, a giudicare di meno e se sbaglio chiedere scusa subito
Favria, 16.03.2016 Giorgio Cortese

La vita non è fatta di medaglie al merito, ma di dignità, la tenacia di far sì che il mio pensiero diventi azione con la tenacia di trasformare le parole in fatti.

17 marzo 1861, l’anno della svolta!
L’anniversario dell’Unità d’Italia viene fatto coincidere con il 17 marzo, data che richiama la proclamazione del Regno d’Italia, tale anniversario è stato solennemente festeggiato nel 1911, 50 anni, nel 1961, 100 anni e nel 2011, 150 anni. Centocinquant’anni fa l’Italia smetteva di essere una semplice penisola, una espressione geografica, formata da sette differenti stati e diventava un paese unitario raccolto sotto uno stesso stendardo nazionale. Gli avvenimenti che portarono a dichiarare L’Unità d’Italia furono molteplici e coinvolsero moltissimi personaggi vissuti nella seconda metà del 1800, le cui gesta note ancora oggi, le imparano i nostri studenti sui libri di scuola. Il processo che portò alla proclamazione dello Stato d’Italia cominciò però qualche anno prima, quando molte zone della nostra penisola assistettero al progressivo sfaldamento dei vari stati nazionali che la componevano. Motivazione di questo crollo è da attribuirsi al fatto che molti stati italiani avevano legato la propria sorte nazionale alla presenza austriaca nel nostro paese, senza però fare i conti con l’altra imponente presenza, quella franco-piemontese che, in quegli anni, si faceva sempre più ingente fino a culminare nella vittoria dei suoi eserciti nel 1859. L’unificazione d’Italia, in questo senso, non fu particolarmente sanguinaria e si registrarono ben poche resistenze, la spedizione dei Mille, che fu una vera e propria marcia militare da nord a sud. Le altre sovranità nazionali e le vecchie classi dirigenti accettarono il fatto con pacata compostezza, preparandosi ad un nuovo corso politico e amministrativo italiano. In effetti, nonostante le differenze in cui avevano vissuto nord e sud durante i secoli, il primo con tradizioni signorili e comunali e il secondo con tradizioni monarchiche accentrate, l’Italia già allora poteva vantare una base culturale comune che andava al di là dei problemi linguistici. Quello che mancava all’Italia, quindi, era una forma politica e amministrativa unitaria che poi trovò il proprio coronamento proprio nella proclamazione del 17 Marzo 1861. Diventata stato nazionale, l’Italia smetteva di essere terreno di scontro tra diverse faziosità per assumere uno status di stabilità all’interno dell’Europa, andando anche a creare un nuovo assetto tra le diverse potenze europee. La posizione strategica al centro del Mare Mediterraneo, infatti, ha avuto la positiva conseguenza di rendere meno aspre le mire espansionistiche e il contrasto tra Gran Bretagna e Francia. In pochi mesi si compì il miracolo, dopo l’adesione della Toscana, delle Marche e dell’Umbria, e la resa del Re delle Due Sicilie. D’Azeglio disse:”Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, ai quali venne a mancare due mesi e mezzo dopo dopo la proclamazione dell’Unità l’architetto, il grande tessitore che aveva costruito l’unità: il conte Camillo Benso di Cavour. Vittorio Emanuele II lo definì “un fatto grave e grandemente da me sentito”, ma aggiunse: “Tale luttuoso evento non ci arresterà un istante sul cammino della nostra vita politica. Vedo l’avvenire chiaro come in uno specchio, e niente può sgomentarmi. Gravi prove ci sono ancora riservate, ma se Dio mi dà vita, le percorreremo impavidi e incolumi”. Eppure nel 1861, la lingua italiana era parlata solo dall’8 per cento appena della popolazione. Il rimanente 92 per cento comunicava unicamente attraverso i dialetti. La difficoltà di comunicazione reciproca non era imputabile soltanto all’analfabetismo, ancora diffusissimo a metà dell’Ottocento. A quell’epoca i due più vecchi Stati della Penisola, la Repubblica di Venezia e lo Stato Pontificio, gestivano i loro affari in una lingua diversa dall’italiano: una versione elegante e signorile del veneto nel primo, il latino nel secondo. Anche l’unificazione politica non fu semplice, l’Italia è stata unificata da Cavour contro la volontà dello Stato Pontificio, vale a dire della istituzione che era in grado di esercitare una forte influenza sulle coscienze degli italiani, una ferità che si rimarginerà solo nel novecento con i patti lateranensi. Ciononostante, l’Italia, dal 1860 al 1922, è stata uno dei Paesi più democratici del mondo, i primi quarantacinque anni dell’Italia finalmente unita, e libera dalle “preponderanze” o “dominazioni” straniere e dal dominio temporale, furono in complesso anni di progresso civile e di sviluppo economico, che misero il Paese ultimo arrivato sulla scena politica europea in condizioni di superare la prova della Prima guerra mondiale. Tornando al 17 marzo 1861, fu Cavour, sempre lui, a pretendere che si stringessero i tempi, chiedendo che il provvedimento fosse il primo ad essere discusso e approvato dai due rami del parlamento: il Senato, che contava su 211 componenti di nomina regia, fra i quali spiccavano i nomi di Alessandro Manzoni e Massimo D’Azeglio, lo approvò il 26 febbraio, con due voti contrari, e la Camera dei deputati, con 433 eletti, anche nel Mezzogiorno, in Sicilia, nell’Umbria e nelle Marche, approvò il decreto all’unanimità con legge n. 4671 del 17 marzo 1861 del Regno di Sardegna.
Favria 17.03.2016 Giorgio Cortese

Se al primo colpo non cade la quercia, allora nella vita ogni volta devo ritentare se la prima volta non ho avuto il risultato sperato.

Di venere e di marte non si sposa, non si parte….
“Di venere e di marte non si sposa, non si parte, né si dà principio all’arte” dice il vecchio adagio. Non soffro certo di manie di persecuzione, ma non è che per caso sia stato inventato a bell’apposta per controbattere antichi costumi pagani che invece ritenevano questi due giorni ‘fausti’, e in special modo per le attività in questione? Secondo i fautori di questo detto non è opportuno intraprendere niente in questi due giorni perché il martedì appartiene a Marte, il Dio della guerra, mentre il venerdì è il giorno in cui furono creati gli spiriti maligni. Partiamo dal venerdì, il nome deriva dal latino Veneris dies, giorno di Venere. Nelle lingue anglosassoni la parola che indica tale giorno della settimana, come per esempio. in inglese Friday e in tedesco Freitag, si riferisce al suo essere, un tempo, giorno sacro alla dea germanica Freya, divinità che ha qualche corrispondenza con la latina Venere. In portoghese il nome è “sexta-feira” in quanto in tale paese la riforma cristiana dei nomi dei giorni della settimana ha soppiantato i nomi dedicati a divinità. Come si capisce dal nome, in quel paese è il penultimo giorno della settimana, che comincia con la domenica “domingo. Nella tradizione cristiana il venerdì, essendo il giorno della morte di Gesù, imponeva ai fedeli il rispetto di certe regole, alimentari e no, quali l’astinenza dalle carni. I romani, in epoca imperiale, stabilivano il venerdì come giorno per pagare le tasse ed eseguire le condanne a morte. Passiamo a marte, martedì, deriva dal latino Martis dies, giorno di Marte. L’inglese Tuesday, in svedese tisdag, in norvegese tirsdag, deriva invece dal nome del dio germanico Týr che venne equiparato, sulla base delle sue funzioni, a Marte nella interpretazione romana. Il martedì ha acquisito la fama di giorno sfortunato perché martedì 29 maggio 1453 cadde Costantinopoli e tale data è considerata come fine dell’Impero Romano d’Oriente e del Medioevo. Meno male che non di questa idea Cristoforo Colombo, il grande navigatore che salpò dal porto di Palos un venerdì e considerava il venerdì un giorno fortunato a prescindere dalle date del calendario in cui cadeva. Oggigiorno negli Stati Uniti le elezioni vengono tenute il martedì, la Microsoft, il più grande successo imprenditoriale degli ultimi anni, diventata dal nulla la seconda società degli Stati Uniti per valore di borsa, ed è stata fondata da Paul Allen e Bill Gates proprio venerdì 4 aprile 1975. In Norvegia, invece, ci si sposa più spesso di venerdì, perché lo si ritiene il giorno romantico per eccellenza, sotto la protezione di Venere, dea dell’amore e dell’armonia. Per i siciliani invece il nato nel giorno di venerdì è un “vinnirinu”, traducibile in “venerdino”, e si pensa che sia una persona valorosa e fortunata. Parlando di Venere di Marte il pensiero alla fine non può che correre al celebre quadro di “ Marte disarmato da Venere e le Grazie”, l’ultima opera monumentale di un artista complesso e chiacchierato dai suoi contemporanei quale fu Jacques-Louis David, finito a Bruxelles in esilio forzato per le sue scelte politiche e per il suo carattere non incline ai compromessi. Questo pittore passato dal giacobinismo alla sfrenata simpatia per Napoleone e l’imperialismo, incominciò il dipinto nel 1822 a 73 anni durante l’esilio a Bruxelles per completarlo nei tre anni successivi, prima di morire nel 1825. Un’opera impressionante, ambiziosa, ironica e provocante, che sintetizza classicità, idealismo e realismo. Le dimensioni sono imponenti, 3 metri per 2,65, e ritraggono Venere, le tre Grazie e Cupido, che privano Marte delle sue armi, scudo e armatura distraendolo con la bellezza e la sensualità, su di uno sfondo costituito da un tempio eretto su una distesa avvolgente di nuvole. Del quadro è proprio il dio dell’Ampre che reclama con lo sguardo sornione la complicità dello spettatore, è ritratto ai piedi di Marte, intento a slacciarne i calzari così che l’abbandono del guerriero alle cure di quelle figure femminili tanto sensuali sia completo. Infine, sebbene l’analisi anatomica dei soggetti sia sempre dettagliata ed improntata ad evidenziarne la prestanza fisica, perfino Marte appare “morbido”, vellutato nella sua muscolatura. Tornando alla riflessione iniziale, inutile dire che nessuna delle due tesi ha il minimo fondamento ma, la superstizione occupa quello spazio che c’è tra ciò che possiamo controllare e ciò che non possiamo controllare ma è il ragionamento che ci differenzia dagli ottusi che si rifugiano sempre dietro a sciocche superstizioni
Favria 18.03.2016 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno, comunque vada, cerco di non perdere mai la speranza! E se le cose non vanno come voglio, continuo a sperare nel domani. Perché il domani esiste comunque e sarà migliore.

Oltre la grata della finestra
Oltre la grata della finestra una gradevole vista, dentro di me il labirinto meraviglio della vita, colmo ogni giorno di stupore. Dentro il labirinto della vita trovo la mia personale grata, anche chi è sempre in affanno per fare più soldi, ha la sua personale grata. Le persone che accumulano vogliono solo accumulare ma nessuno accumula la vita. La vita la perdiamo tutti, non ci appartiene e qualsiasi cosa riuscirò a scrivere in proposito è sempre attorno e non dentro. Quello che posso fare è “tingere” i miei timidi pensieri e vivere bene la vita di ogni giorno, ovunque sia. Dentro di me c’è una chiave e tante porte che gli altri non vedono che aprono i cassetti del mio animo dove custodisco il nucleo vitale è una volontà ferrea, che non arrugginisce nemmeno se sottoposta a intemperie tremende, ai guasti più gravi, ma appassisce se ogni giorno non viene nutrita dal quotidiano stupore di esistere
Favria 19.03.2016 Giorgio Cortese

Nell’eternità il tempo è innamorato, nella sincera passione si pensa all’istante e all’eternità, mai alla durata.