Le sette sorelle. – Comportare con non comporto. – Dalla sessola alla cucia . – Il mito di Proteo e Idotea. – Lepore nel melisma. – Corba, corbej e bòcia!… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Le sette sorelle!

Le Pleiadi popolano da sempre l’immaginazione di chi ha vissuto alle nostre latitudini ed osservato

sempre stupito come fosse la prima volta come il sottoscritto. Per millenni le sette sorelle rappresentate nella costellazione delle Pleiadi hanno affascinato il mondo intero. Sono state fonte di leggende e miti per tutte le culture del pianeta che ne hanno trasposto la storia nell’arte, nella musica, nella poesia e nell’architettura.  Le Pleiadi sono tra le prime stelle a essere menzionate in letteratura: ve n’è traccia negli annali cinesi del 2350 a.C., nel poema di Esiodo del 1000 a.C. e nell’Iliade e nell’Odissea di Omero per quanto riguarda la cultura europea.  I marinai e i contadini di ogni popolo hanno sempre fatto riferimento a questa costellazione per la navigazione e per i raccolti. La saga delle sette sorelle si basa sulla mitologia greca, ma nel mondo le leggende che riguardano la costellazione sono numerose. Come già detto secondo la mitologia greca le Pleiadi erano sette sorelle: Maia, Alcione, Asterope, Celeno, Taigete, Elettra e Merope. Figlie di Atlante, il titano a cui Zeus aveva affidato il compito di sostenere la Terra, e di Pleione, la dea protettrice dei marinai. In seguito a un fortuito incontro con Orione, le Pleiadi e la loro madre diventano preda del cacciatore. Per proteggerle dagli assillanti assalti amorosi di lui, Zeus le tramuta in colombe e le libera in cielo. Si dice in una variante del mito che Zeus, vero molestatore seriale, fosse il padre di tre delle sorelle. Le sette sorelle sono spesso associate a figure marine per questo simboleggiano i mari, le acque, i fiumi, la pioggia e il gelo. Conosciute anche con il nome di Oceanidi, alcune fonti rivelano che il loro nome derivi dall’antico termine greco plein, ossia navigare. Per i nativi Americani l’origine delle stelle è legata alla leggenda della la tribù Kiowa quando stava migrando a sud per l’inverno, si accampò presso un fiume dove c’erano molti orsi. Un giorno, sette giovani donne stavano giocando lungo il fiume quando alcuni orsi le attaccarono. Terrorizzate le ragazze scalarono una roccia e chiesero protezione al Grande Spirito. Quest’ultimo, uditi i pianti delle giovani, trasformò la roccia in un monte scosceso impedendo così agli orsi di raggiungerle. Tuttavia gli animali cercarono di arrampicarsi lasciando il segno dei loro artigli nella roccia e, rendendo la conformazione sempre più elevata, proiettarono le sette ragazze fino alle stelle. Altra tribù di nativi dell’ovest degli Usa gli indiani Mono credevano che le Pleiadi fossero delle spose che a causa della loro golosità per le cipolle erano state cacciate da casa dai mariti. Una volta soli questi si pentirono di averle allontanate e si misero a cercarle invano. Avevano vagato per i cieli ed erano diventati stelle.  Presso le tribù Blackfoot, Piedineri nell’Alberta e in Montana, le Pleiadi erano conosciute come gli “Orfani”. Un gruppo di bambini orfani che fu cacciato dalla tribù e venne accolto da un branco di lupi. Rattristati dalla loro vita solitaria, chiesero al Grande Spirito di poter giocare insieme nel cielo. Ogni notte, in ricordo della crudeltà nei loro confronti, la tribù fu condannata a udire l’ululato dei lupi che piangevano per i loro amici perduti. In Australia gli aborigeni chiamano le Pleidi spiriti dell’acqua Yunggarmurra e sono le detentrici della bellezza nonché dell’amore. Dunia, il loro padre, era stato trasformato in coccodrillo per frenare i comportamenti incestuosi nei confronti delle figlie. Gli aborigeni ritengono che le stelle indossino un “mantello” di cristallo che le fa risplendere in cielo. In India le Pleiadi sono chiamate Krittika e sono le mogli di sette uomini saggi, i Sette Rishi o Sette Veggenti. Le Pleiadi erano anche rappresentate come le sei madri del dio della guerra Murugan, solitamente raffigurato con sei teste. Infine in Giappone le Sette sorelle sono conosciute con il termine Subaru, che in giapponese significa unito e unità. Quando la casa automobilistica omonima scelse il nome Subaru, decise di riprodurre nel suo logo solo sei delle sette stelle perché queste sono le sole a essere effettivamente visibili a occhio nudo. Una curiosità finale, nel 1999, su un rilievo vicino alla città di Nebra, nel cuore della Germania, a una cinquantina di chilometri a ovest di Lipsia, due goffi tombaroli trovano un oggetto di valore inestimabile che  due anni dopo viene astutamente dalla polizia in un finto scambio in un albergo di Basilea, in Svizzera. Questo reperto è noto come disco di Nebra, una rappresentazione del cielo eccezionalmente antica, datato 1.500 anni a.C.  Ebbene, nella disposizione delle stelle d’oro sul disco di Nebra spicca un grappolo di sette astri, in cui è facile riconoscere le Pleiadi.
Favria, 6.07.3021 Giorgio Cortese

Dona il sangue e sii un eroe nella vita di qualcuno. Il sangue è destinato a circolare. Condividilo! Ti aspettiamo a Favria MERCOLEDI’ 7 LUGLIO  2021 cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione a seguito del DPCM del 8 marzo 2020, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fai passa parole e divulghi il messaggio

Buona giornata. I giorni migliori non sono quelli in cui va tutto bene, ma quelli difficili che mi insegnano a vivere. Felice martedì

Comportare con non comporto!

Comporto e comportare sembrano parole simili ma non è così. Comporto significa ritardo ammesso, insomma il tempo di attesa nell’attendere la coincidenza tra un treno e l’altro o anche il periodo di malattia che permette al lavoratore di conservare il posto di lavoro.  L’origine è la stessa serviva dal latino comportare, parola composta da portare con il prefisso con. All’origine era una parola unica ma poi comportare e comporto hanno  preso due strade diverse nel corso dei secoli. Per gli antichi romani comportare voleva anche dire portare delle offerte agli dei. Poi all’inizio della lingua italiana da comportare divine sopportare. Insomma sopportare con resilienza perche se porti qualcosa anche la sopporti, poi la parola prende anche il senso di permettere inteso come concedere. Portare le offerte al tempio donando e accordando il sacrificio. Oggi uso il lemma comporto per indicare il tempo di tolleranza su di una tabelle di marcia. Ne ha fatta di strada questa parola di origine latina dal portare insieme per arrivare al comportare che tollera a quella del comportare che fa conseguire ….beh ma allora come mi comporto?

Favria, 7.07.2021    Giorgio Cortese

Dona il sangue e sii un eroe nella vita di qualcuno. Il sangue è destinato a circolare. Condividilo! Ti aspettiamo a Favria, oggi  MERCOLEDI’ 7 LUGLIO  2021 cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione a seguito del DPCM del 8 marzo 2020, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fai passa parole e divulghi il messaggio

Buona giornata. Ogni giorno tra correre e rincorrere diamoci del tempo anche per  aspettare. Felice mercoledì.

Dalla sessola alla cucia

La sessola o sassola  è il cucchiaio con cui oggi, spesso, si serve lo zucchero. La forma è la stessa del classico cucchiaio, ma si distingue per i bordi leggermente rialzati della paletta concavale, per far in modo che il contenuto non fuoriesca. La sessola ha origini lontane nel tempo. Originariamente veniva infatti utilizzato dai marinai per far fuoriuscire l’acqua che entrava nella nave durante i lunghi viaggi. In questi casi era chiamata anche gottazza, ed era fatta di legno e assomigliava a un grosso mestolo. Era utilizzata per togliere l’acqua che si accumulava sull’imbarcazione, gettandola poi poco lontano. Quest’azione era chiamata aggottare. Oggi questo strumento esiste ancora, anche se la forma è mutata da allora. Nel tempo la funzione di quest’oggetto è mutata ulteriormente, venendo anche utilizzato per trasferire polveri da un recipiente all’altro, come farine, granaglie. La forma è sempre quella di un grosso cucchiaio, dalla forma sempre concava ma molto più grande rispetto alla sessola cui siamo abituati. È un oggetto che ancora oggi viene utilizzato frequentemente. Mi ricorda da ragazzo quando andavo a comprare la farina dal negoziante e che veniva venduta sfusa. Oggi la sessola viene identificata con il cucchiaio per lo zucchero. Cercando  nelle parole piemontesi ho trovato il lemma cuciar, cucchiaio, e poi cuciarà, cucchiaiata e poi cuciarè,  che vuole dire servire la zuppa ma anche  arrestare qualcuno o prendere con destrezza, insomma agguantare. Se la cuciarera sono l’insieme dei cucchiaini il cuciarin è il cucchino. Ma la cuciara è la parte del cannone che si carica, mestolo del muratore o secchione della draga. Ed ecco la cucia, un mucchio di fieno che deriva dall’antico francese couche, mucchio di letame o di grano. Insomma cucia significa disporre qualcosa come lo zucchero nel cucchino, ecco infatti il provenzale cucho, mucchio di fieno e la radice del lemma dal celtico kukka, cima o sommità.

Beh adesso chiudo il cuéerc, coperchio delle parole.

Favria,  8.07.2021   Giorgio Cortese

Buona giornata. Se il clima fosse una banca, i paesi ricchi l’avrebbero già salvato. Felice giovedì.

Il mito di Proteo e Idotea.

Proteo era figlio di Poseidone, dotato anche lui, come Nereo, del dono della profezia e della capacità di cambiare forma a suo piacere, da ciò proviene il termine proteiforme, per indicare una persona o una cosa che può assumere diversi aspetti. Proteo portava al pascolo le foche di Poseidone e abitava nell’isola di Faro, di fronte all’Egitto. Aveva sposato Psamate, che in greco significa sabbia, da cui aveva avuto i figli Poligono, Telegono, Teoclimene, Teone e la figlia Idotea. Parlo di questo mito dopo avere letto recentemente un brano dell’Odissea di Omero. Proteo viene anche chiamato il verace Vecchio del mare, che Omero ci presenta come divinità capace di conosce gli avvenimenti passati, presenti e futuri. Una curiosa caratteristica di Proteo è quella di essere in grado di cambiare aspetto, assumendo le più svariate sembianze, animali, vegetali, acqua e fuoco, per sottrarsi alle domande degli uomini. Nell’Odissea a lui si vorrebbe rivolgere l’acheo Menelao su consiglio di Idotea, per per avere informazioni e consigli sul ritorno in patria e superare le perduranti difficoltà del suo viaggio, che dopo essersi trattenuto in Egitto per cinque anni dopo la guerra di Troia, ma è ritardato dalla calma dei venti.  Idotea, che vuole dire, eidos, idea ed eidesis, conoscenza, consiglia Menelao,  la strategia da adottare per vanificare la strategia difensiva del padre Proteo e raggiungere l’obiettivo, per prima cosa acquattarsi e mimetizzarsi tra le foche, attendere che Proteo esca dal mare a mezzogiorno per riposare tra queste, poi afferrarlo e trattenerlo con forza, ignorando le sue molteplici trasformazioni. Quando Proteo si accorgerà dell’intrusione, tenterà di divenire ogni cosa che in terra si muove, e acqua e fuoco che prodigioso fiammeggia, ma voi tanto più tenetelo fermo e stringetelo, spiega Idotea. L’incursione nell’ambiente abituale, la mimetizzazione,  l’immobilizzazione mediante l’uso mirato della forza, la resistenza a trucchi e artifici, questo è il procedimento prefigurato e suggerito da Idotea per vanificare la reazione di Proteo e accedere alla conoscenza da lui detenuta. Proteo una volta agguantato da Menelao e dai suoi compagni diventa prima una leone dalla folta criniera,  poi serpente, poi pantera, grosso cinghiale, liquida acqua e albero dall’alto fogliame. Alla fine Proteo esaurite le sue astuzie, si rende disponibile alle richieste, e Menelao ottiene ciò che vuole, informazioni e suggerimenti. Proteo non cambia realmente aspetto, non agisce sulla realtà, rimane sempre se stesso,  fa credere ciò che non è, la metamorfosi manipolando l’immaginazione dei suoi interlocutori, insomma sempre l’attuale essere ed apparire.  Dico questo perché se le trasformazioni di Proteo fossero state reali, come scrivono autorevoli commentatori storici, la forza e il coraggio di Menelao e dei suoi  guerrieri sarebbero stati inutili e, il loro tentativo di neutralizzazione non avrebbe avuto successo, non avrebbero potuto prevalere e avrebbero dovuto infine soccombere. Proteo era un grande prestigiatore e illusionista,  e nel suo mito fa credere qualcosa che non esiste realmente, nel dare all’apparenza connotazione di realtà. Oggi nulla di nuovo sotto il sole, la techne ingannevole è sempre quella, il trasformismo nelle sue molteplici manifestazioni, il marketing del cambiamento apparente e la collocazione di questo sul mercato come cambiamento reale magari riciclando merce invenduta giacente in magazzino, ad esempio, la demonizzazione dell’uso del contante, la finanziarizzazione forzosa dei rapporti sociali disumanizzandoli, e lo smantellamento delle attività produttive indipendenti. I funamboli della politica in base alle convenienze cambiano idea anche attraverso la manipolazione delle coscienze per stare sempre li  a  comandare. Gli antidoti sono sempre quelli dati a Menelao e ai suoi compagni, stare con la schiena dritta con il coraggio di andare a vedere cosa c’é dietro le performace illusionistiche che ci investono ogni giorno, cercando sempre la verità perché l’illusionismo e trasformismo non possono prevalere e alla fine se siamo tenaci sulle nostre idee i novelli Proteo calano la maschera.

Favria, 9.07.2021  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ci sono molte persone nel mondo, ma ci sono ancora più volti, perché ognuno ne ha diversi. Felice venerdì

Lepore nel melisma.

La parola lepore significa stile o espressione, argutezza raffinata, eleganza scherzosa; facezia garbata; gaiezza in compagnia; grazia, eleganza. Come si vede una bella parola con tante sfaccettature che arriva dal latino lepos, grazia. La grazia di cui parla questa parola è conviviale che investe gli umani comportamenti ed  espressioni, una parola che parla di  arguzie raffinate, insomma una parola dotata di una eleganza leggiadra come quelle che riserviamo ogni giorno alle persone che  incontriamo riservando l’umana attenzione. Oggi è una parola rara e pensare che  viene usata in italiano dal Trecento e per caso curioso anche la parola latina lepos era caduta in disuso alla fine della Repubblica. Lepore è una parola troppo educata in questo attuale mare di trivialità verbale che sembra quasi una sviolinatura dell’interlocutore. Ma lepore è una parola che ci parla di leggiadra felicità nell’affrontare la vita. Da lepore abbiamo il sinonimo lepido e la gioiosa lepidezza. La lepidezza significa piacevolezza della scherzosità di spirito, insomma anche un bon mot una spiritosaggine, una freddura per rendere piacevole l’incontro. Quello che si deve evitare a tavola è quello di non esagerare con il lepóre festivo che anima la tavolata,  perché come delle lerpi, curioso, una variante di lepore, balziamo giù dal muretto del dialogo, colpevole un bicchiere di più di buon vino ci schiantano al suolo del disinteresse degli altri commensali perdendo il melisma. Il melisma significa gruppo di note, secondo alcuni studiosi, più di cinque-sei,  cantate su una sola sillaba, insomma una  fioritura melodica che incanta. Melisma deriva dal greco melisma, derivato a sua volta dal verbo melizo, io canto. Pensate che già nel 400 d.C sosteneva che cantare, vocalizzando senza parole, permetteva  di esprimere efficacemente la gioia  ineffabile del divino,  che ha poi portato allo iubilus del canto gregoriano, un lungo vocalizzo che si cantava sulla sillaba a al termine della parola Alleluia. Come si vede il concetto di melisma è  interessante, perché mette in luce le possibilità espressive della musica pura, svincolata dalla parola. Infatti, dobbiamo ricordare che sin dalle origini e per molti secoli la musica fu soprattutto vocale. In molte culture, come in quelle del Vicino Oriente, si mantiene ancora tale, per lo meno negli àmbiti tradizionali. Duccessivamente dal canto gregoriano alla polifonia cinquecentesca, dal periodo barocco a tutto il Settecento e ancora dopo, la musica vocale italiana arriva all’opera e la vena vena musicale percorre con forza  la storia del Patrio stivale, in un modo non sempre semplice, e qui bisognerebbe concludere con l’aria della Casta Diva della sacerdessa Norma, che Vi invito a riascoltare, aria ricca di melismi che sono tonico per le nostre orecchie sempre più abituate durante la giornata a suoni a volte sgraziati.

Favria, 10.07.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana molti sanno, ma sono in pochi a sapere parlare. Felice sabato.

Corba,  corbej e bòcia!

In piemontese la parola corba o gorba in dica un ragazzo ma il suo significato originario è una cesta, anzi secondo il REP: gòrba o còrba, canestro per trasportare frutta o ortaggi, cesta, paniere o bambino irrequieto. Anzi la corba,  cesta di forma ovale a due manici, utilizzando il salice e più raramente il castagno, veniva usata per la raccolta dell’uva durante la vendemmia oppure per  trasportare carbone, calce viva e simili materiali. Poteva contenere 30/40 Kg di uva e veniva portata a spalla dalla vigna, spesso collocata su pendii scoscesi, fino al carro destinato al conferimento e trasporto del raccolto. Nelle annate più piovose, quando l’uva raccolta perdeva il mosto, alcuni contadini foderavano la corba al suo interno di lamiera stagnata per non perderne nemmeno una goccia. Si portavano così un peso di 50/60 kg per centinaia di metri su percorsi impervi e forse i ragazzini era deputati al trasporto e da li il passo è breve e anche loro venivano chiamati gorba o corba. Il lemma corbej deriva dal francese corbeille, recipiente, cesto. Oggi composizione ornamentale di fiori la parola trae origine dal latino latino medievale  corbiculam, piccola corba, a sua volta dal latino classico  corbis, cesta di vimini con la stessa radice  del lemma gorba. In italiano abbiamo la parola poco usata corbello da li il passo è breve alla sua parola derivata,  corbelleria per indicare una stupidaggine. Se il significato originario di corbello  è quello di cesta di vimini o di rami intrecciati, di forma rotondeggiante. Questo significato lo ha reso un perfetto candidato a diventare un’alterazione eufemistica di stupidaggine Come ogni eufemismo, finisce per avere tutta un’altra pulizia, rispetto al significato volgare di base, pur strizzandogli l’occhio. La corbelleria è quindi un modo simpatico per indicare l’imbecillità di certe persone. Questo concetto può essere declinato in un grosso sproposito, o in un atto sciocco, che non valuta le conseguenze come il mio scrivere a vanvera questa corbelleria. In italiano la parola corba indica anche l’elemento fondamentale trasversale degli scafi di legno e di acciaio nelle navi ed è sinonimo  di costao ossatura ed infine era anche unità di misura di capacità per aridi, un tempo in uso a Bologna, equivalente a 78,644 m3 e suddivisa in 2 staia. Altri modi di indicare i bambini e ragazzi in piemontese sono: ,  fieul,  fiolòt,  masnà,  matòt e bòcia. Mi soffermo sulla parola bòcia, che ha più di due significati; eppure il contesto in cui viene pronunciata, chiarisce sempre le idee. La bòcia, quando è al femminile, può essere anzitutto una boccia: sia essa quella metallica del gioco delle bocce, sia essa un vaso di vetro per contenere fiori, pur sempre di boccia si tratta, anche in italiano. Vi è anche un figura retorica per la quale bòcia, sempre al femminile, è la testa proprio per la sua forma sferica. Infatti quando qualcuno non ne capisce più una, si dice: “s-lì o l’ha perdì la bòcia, quello ha perso la testa. Tenete presente che nel tardo latino la parola bocciam, rappresenta la rotondità. Ma il significato più curioso che mi ricollega a quanto scritto prima è il bòcia nella sua forma maschile. Una volta un ragazzo o una rercluta militare gli si rasavano i capelli per prevenire i pidocchi, e la testa rasata era associata ad una boccia. Ma il termine dal gergo militare passa al linguaggio civile ed il bòcia è niente meno che un giovane apprendista che affianca un artigiano esperto nella sua attività. Solitamente quest’ultimo, approfitta della presenza del bòcia per fargli fare tutte le attività di contorno, molto faticose; qualcuno deve pur farle e un giovane ragazzo appena arrivato è quel che ci vuole: ha bisogno di imparare dal “maestro” tutti i passaggi. Solo ed esclusivamente in ambito edile, il bòcia prende il nome di portabojeu, porta-secchielli oppure foricc. Questa ultima voce deriva dal latino  furiculare, rovistare, secondo altri dal lemma  foris, forestiero, in  marchigiano troviamo la parola furicchio, in veneto furegar,. Come si vede la parola bòcia ha assunto significato di garzone, aiutante e apprendista, per un processo di associazione dovuto ad una delle mansioni più frequenti nella bottega, quella di provvedere per tutti al rifornimento di acqua e vino. Attenzione però a non confondere la parola  bòcia con un’altra che sembra simile,  bòcc, che invece rappresenta un giudizio verso colui che è un po’ testone, non completamente intuitivo e comunque duro di comprendonio.

Favria,  11.07.1021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno prima conosciamo l’oggi con il cuore e poi con la testa lo comprendiamo domani. Felice domenica