Lettera all’estate. Carissima estate, sei avvertita una volta per tutte. O ti
comporti come si deve, senza propinarci caldi atroci e tornado devastatori, altrimenti devo dare ragione a Bruno Martino quando nel 1960 aveva composto il brano musicale: “Odio l’estate”.
Sei tu cara estate, la stagione del sole, del mare, del divertimento, delle notti che si confondono con il giorno, della birra ghiacciata e del gelato sciolto sulle dita. La stagione per gli adolescenti degli amori furtivi, destinati a durare il tempo di una chiacchierata sul bagnasciuga e di cotte più dolorose di quelle del sole a mezzogiorno sulla pelle pallida.
Cara estate sei la stagione delle promesse incise sulla sabbia, ti aspettiamo tutto l’anno e poi bruci il tempo di riposo più velocemente di un falò estivo.
Cara estate prenditi allora le tue responsabilità, aiuta tutti a ritemprarci nel corpo e nello spirito, non sei solo la stagione dove ci si sente in dovere di divertirsi e chi non ci riesce attende solo l’inverno per ritrovare la pace. Un manto di neve pronto a coprire ciò che resta della delusione dell’estate che brucia sulla pelle e sul cuore.
Cara estate, io non mi arrendo e ogni anno ti attendo sempre carico di aspettative, saranno per le lunghe giornate, il sole, la vitamina D.
Cara estate ti ricordo sempre così da quando ero adolescente quando finita la scuola tu rappresentavi le agognate vacanze estive; la liberazione dal fardello scolastico. Adesso da pensionato, ti attendo ancora con lo stupore di allora e ogni gita è simile al bere acqua fresca dopo un viaggio nel deserto. Anche se anno dopo anno scivoli via come gli anni che scorrono sulla mia testa. Per me adesso i sorrisi degli amici sono l’estate della vita.
Cara estate tanto ti aspetto e poi scivoli via come sabbia tra le dita e nel tempo di un battito di ciglia, sei già finita. Le giornate cominciano ad accorciarsi, le maniche ad allungarsi, la temperatura ad abbassarsi, i segni dell’abbronzatura sbiadiscono velocemente sulla mia pelle.
Cara estate non andare via, perché porti con te spensieratezza e allegria .
Buone vacanze a tutti e dovunque vi trovate un pensiero a chi sta peggio di noi solo e abbandonato per te cara estate.
Favria, Giorgio Cortese 25.07.2023
Buona giornata. Nella vita per ogni cosa c’è il suo momento. Felice martedì.
Stomiet, cataplasma e pittima.
La parola piemontese deriva dal latino medievale stomachum, e stomiet significa cataplasma. Impiastro medicamentoso da applicare caldo. La parola cataplasma deriva dal latino tardo catàplasma, dal greco katáplasma, da kataplásso, io spalmo, probabilmente giunto attraverso il francese in epoca medievale. Lo stomiet o cataplasma è una parola medica dalla storia lunghissima, anche se il suo uso non è più proprio sulla cresta dell’onda. L’idea è semplice: un impacco pastoso e caldo da applicare sul corpo con un panno, con finalità medicamentose disparate, dall’alleviamento di un dolore locale a un effetto emolliente su un’infiammazione, fino a un trattamento revulsivo, blandamente irritante, ad esempio per curare una tosse. Oggi, alla base della pratica terapeutica del cataplasma sono state sviluppate nel paradigma scientifico moderno altre cure e, attualmente l’idea di un’applicazione di mucillagini bollenti miste a polveri e farine oleose non ha un grande richiamo, ed è un po’ distante da quell’immaginario balsamico o performante da pubblicità che conosciamo. Ma la parola cataplasma significa anche una persona noiosa o molesta. Questa parola con le sue colleghe impiastro e pittima ha avuto un’estensione di significato, giungendo a descrivere persone noiose e moleste. Preciso che la parola pittima dal greco epithema, ciò che è posto sopra il petto, oltre ad indicare una scopo terapeutico, come un impiastro, indica sia una persona uggiosa, fastidiosa, che annoia con le sue insistenze o le sue lamentele e nel lontano passato, particolarmente nelle repubbliche marinare, ma anche a Napoli, una persona pagata dai creditori per seguire costantemente i loro debitori. Era una sorta di esattore che aveva come compito quello di ricordare a costoro che dovevano saldare il debito contratto. La pittima poteva gridare a gran voce per mettere in imbarazzo il debitore, e il suo costante pedinamento era volto a sfiancarlo così che si decidesse a saldare il debito, la cui riscossione gli poteva fruttare una percentuale più o meno congrua. La pittima vestiva di rosso, affinché tutti sapessero che il perseguitato dalla pittima era un debitore moroso. Questo aumentava l’imbarazzo dovuto al pedinamento effettuato dalla pittima. Siamo partiti dall’antico rimedio dello stomiet detto anche stumiet per arrivare ad altre parole per trarre ricchezza da lemmi poco usati.
Favria, 26.07.2023 Giorgio Cortese
Buona giornata. Le nuvole di luglio fan presto tafferuglio. Felice mercoledì
Il pilone votivo della Chiarabaglia.
La sua storia, un legame di devozione cristiana e di appartenenza al territorio. Nel territorio di Favria, i piloni votivi sono una testimonianza del forte sentimento religioso delle popolazioni favriesi. In massima parte sono di privati, ogni famiglia che riteneva di aver ricevuto una grazia, costruiva o faceva costruire e poi decorare con pitture e dediche al santo che si voleva ringraziare. Sono stati costruiti sia all’interno delle borgate, vicini alla casa della famiglia committente sia sui sentieri più frequentati o nei punti di incrocio di percorsi diversi. La gente si fermava, e, a volte, ancora oggi si ferma, a pregare e a posare un fiore di campo. In primavera, tali piloni erano meta di processioni propiziatrici, chiamate rogazioni. Molte di questi piloni, infatti, ebbero, in origine la funzione di adempiere ai voti fatti in seguito a grazie ricevute. Il pilone di cui voglio parlare si trova in Borgata Chiarabaglia, appartiene da generazioni alla famiglia di mia moglie, fatto edificare verso la metà dell’Ottocento, Anche se da alcuni documenti potrebbe portare la datazione ad inizio Ottocento. Il committente fece edificare il pilone mettendo i Santi Protettori dei suoi tre figli maschi: Bartolomeo, Lorenzo e Giuseppe, nomi che dai documenti in mano alla famiglia Tarizzo si trovano con frequenza in tutte le generazioni a partire dal 1785. Già restaurato nel 1904 dalle famiglie dei (Bottini) Batitin- Eredi Tarizzo. Il tipo di costruzione e la qualità e quantità degli affreschi lo rendono tra i più interessanti tra quelli del territorio favriese. Il manufatto è in mattoni pieni, presenta una forma quadrangolare, su tre lati ha tre nicchie, la principale guarda la vecchia strada che tracciava nell’ottocento il bosco della Favriasca e le altre due ai lati, lasciando vuota e liscia la facciata che oggi è rivolta verso le retrostanti case. Mi aveva raccontato mio suocero che rappresentava a Nord S. Bartolomeo, S.Lorenzo e nel riquadro inferiore è rappresentato L’Inferno, ad Ovest S. Giuseppe, Gesù Crocifisso; a est l’affresco è fortemente deteriorato ed illeggibile. La base restaurata nel 2010 presenta delle pietre ai lati per preservane la stabilità. La particolarità del pilone della famiglia Tarizzo è che sotto le tre facciate affrescate, purtroppo oggi in cattivo stato per gli eventi atmosferici subiti, in basso vi sono altre tre piccole nicchie in cui purtroppo i dipinti sono svaniti con il tempo. Mercoledì 19 luglio il pilone recentemente riparato dalla ditta FD Costruzioni titolare Franco Diaco, che con la moglie Ilenia Scandale hanno chiesto al parroco Sabia don Gianni una S. Messa serale che ha riunito la Comunità della Chiarabaglia intorno al Pilone, come elemento di appartenenza. Durante la S. Messa pensavo a quante persone sono passate sulla vecchia strada, quanti contadini, viandanti e bambini abbiano ammirato i dipinti e si siano soffermati a pregare e a lasciare un fiore a questa testimonianza di fede che è anche divenuta con i secoli simbolo di appartenenza al territorio in cui si vive, le nostre comuni radici, resta una delle sensazioni che donano benessere al nostro animo.
Favria, 27.07.2023 Giorgio Cortese
Buona giornata. La persona che facilmente si rassegna, ha la tendenza a prendersela col destino, sottovalutando l’importanza della speranza. Felice giovedì
Patalica, paton e rabel.
La parola patalica in piemontese vuole dire una persona dalla lingua lunga, persona con loquacità smodata, persona ciarliera, insomma una persona chiacchierona ha una bella patalica. Questa persona deriva dal lemma piemontese patalich, baccano. Non conosco l’etimo di patalich, ma sembra di riconoscere il prefissoide pata e un suffissoide lica, forse da una forma dell’antico tedesco lekkon, leccare, che potrebbe essere semanticamente accostabile alla lingua nelle sue molteplici funzioni. Tenete presente che in piemontese la parola paton che significa percossa ha una origine diversa, deriva dalla parola onomatopeica patt, ovvero il rumore tra due oggetti, da cui il francese patte e il provenzale pato con l’identico significato. Diversa è l’origine della parola rabel che indica chiasso e baccano ma anche l’orlo del vestito strascicato per terra, ma anche piccolo tetto con una sola sponda o pendio detto anche rabej. Per spigare questa parola partiamo dal lemma rablor che significa strisciante o che traina un carro. Questa parola pare che derivi per alcuni dal latino rebellare, insorgere e chiamare alla guerra, per altri dall’occitano rabalar o rabalhar, raccoglie o radunare, con la desinenza bal che significa scopa. Secondo altri deriva dal latino rapere, portare via, trascinare. Molti poi indicano e qui arriviamo alla parola rabel che la radice rabb di origine onomatopeica significa fare rumore. Abbiamo la locuzione “rablè j’ale” , portare i frasconi, si dice cosi dello strascicare delle ali che fanno i polli quando sono ammalati. Chiedo scusa della mia rablada del mio dilungamento e concludo nel segnalare che esiste lo strumento musicale a corda chiamato rabel. Si hanno notizie di questo strumento di uso popolare a partire dal X secolo, e secondo alcuni è simile alla lira bizantina, ma alla fine si è evoluto nel Medioevo nella fidula che ha più corde e considerato il progenitore del violino. I più sono dell’opinione che il rabel sia stato introdotto in Spagna dagli arabi durante la loro a conquista, come uno strumento chiamato “reba” e che in seguito questo si diffuse durante il Medioevo e il Rinascimento. Allora il rabel era usato sia dai nobili che dal popolo. I trovatori dell’Amor cortese nelle corti composero con questo strumento le loro romanze. I menestrelli che giravano villaggi e città usarono il rabel per intrattenere le persone e guadagnarsi da vivere. È grazie a questo uso che il rabel viene definito da certi storici come uno strumento “pastorale”, che accompagnava la voce di trovatori e menestrelli nei declamare i loro versi e fa parte della tradizione orale. Il rabel è arrivato con gli Ispanici fino in America Latina ed è stato usato durante il periodo coloniale come accompagnamento per canti e balli. Ad esempio, a Panama, è stato utilizzato per la danza Mejorana e forme come Cumbia e Punto, poi con l’avvento del violino il rabel cadde in disuso ma oggi è ancora uno strumento tradizionale in Spagna, nella Asturie, Leon, Burgos e Portogallo. A Toledo viene usato per la Rioja, per l’interpretazione e il canto di musiche popolari come i canti detti “jotas”, romanze e danze binari. Altri nomi popolari oggi del rabel sono rebec, rebab, rebeca, rabeba, rubeba, arrabel, bandurria, rabel purriego o rabel campurriano.
Favria, 28.07.2023 Giorgio Cortese
Buona giornata. La verità è come il sole, non appartiene a nessuno e scalda tutti. È la menzogna l’ombra oscura che ne minaccia lo splendore, ma sarà la saggezza del Tempo a riportare la luce e a rendere vano il suo maleficio. Felice venerdì
Le patate.
La scoperta delle Americhe, si sa, fu un evento di portata incalcolabile per gli europei e non solo per ragioni di carattere politico, economico e culturale. A seguito dell’arrivo da Oltreoceano di prodotti fino a quel momento sconosciuti, anche l’alimentazione e la dieta degli abitanti del vecchio Continente cambiarono, anche se non immediatamente e, almeno all’inizio, non ovunque né in modo radicale. Nel 1493, al ritorno dal primo viaggio, Cristoforo Colombo riportò con sé in Spagna alcune pannocchie di mais. Seguirono nei decenni successivi le patate, i fagioli, i peperoni, i pomodori, le zucche e il cacao. Ma non tutti questi alimenti entrarono immediatamente nell’alimentazione europea. Molti furono anzi accolti con freddezza perché non si sapeva come consumarli e di conseguenza si preferì impiegarli come mangime per gli animali, destinandoli solo in un secondo momento al consumo umano. Emblematico il caso delle patate, che faticarono a entrare in pianta stabile nella dieta. Non solo ci volle un po’ a comprendere che andavano consumate previa cottura e non crude, ma pesava il pregiudizio che non comparendo nella Bibbia e crescendo sotto terra, fossero un prodotto del demonio per via dell’aspetto bitorzoluto e irregolare, erano inoltre associate alla stregoneria e a malattie quali la lebbra. Solo nel Settecento le patate cominciarono a diffondersi massicciamente, spinte dai governi perché avevano un rendimento molto maggiore rispetto ai cereali e maturavano in meno tempo. In alcuni contesti, come l’Irlanda, finirono per soppiantare le altre colture tradizionali con conseguenze tragiche: quando tra il 1845-49 la diffusione del fungo Phytophthora infestans determinò la perdita di gran parte dei raccolti, gli irlandesi furono falcidiati dalla fame e dalle malattie e costretti a emigrare.
Favria, 29.07.2023 Giorgio Cortese
Buona giornata. I miei umani limiti a volte sono solo che le mie paure, quando le sconficco mi sembra di non avere più limiti Felice sabato.
Chi trova un amico trova un tesoro.
Il 30 luglio è la Giornata Internazionale dell’amicizia, una ricorrenza per promuovere una cultura di pace e fratellanza tra i popoli. L’iniziativa si deve alle Nazioni Unite che istituirono questa ricorrenza attraverso la risoluzione 65/275, per promuovere una cultura di pace tra i popoli. Il mondo moderno deve combattere ogni giorno grosse crisi, come la povertà, la violenza, la violazione dei diritti umani. Che sono origine di divisioni, minano la pace, l’armonia sociale tra i popoli. La Giornata Internazionale dell’Amicizia nasce quindi dall’idea che la promozione di uno spirito condiviso si solidarietà tra individui e Paesi possa ispirare sforzi di pace e costruire ponti tra le comunità. Per gettare le basi di un mondo migliore e prevenire i conflitti futuri. La risoluzione delle Nazioni Unite pone l’accento sul coinvolgimento dei giovani come futuri leader, dovrebbero essere coinvolti attivamente nella comunità. Per far in modo che si facciano loro stessi promotori di uno spirito di fratellanza, comprensione, rispetto della diversità delle culture. L’amicizia è un valore estremamente importante nella vita di ogni persona. I valori fondamentali dell’amicizia sono la fiducia e l’onestà. Quando una persona, senza esitare, ti guarda negli occhi e può dire “sì, di te mi fido!”, allora quella è vera amicizia. Per questa ragione è importante distinguere gli amici dai conoscenti. L’amicizia è un valore più profondo e radicato, che passa per la condivisione e lo scambio. L’amico non ti chiede di cambiare, non giudica le tue azioni ma allo stesso tempo ti fa notare se stai prendendo una strada sbagliata. A un amico puoi confidare pensieri, idee, segreti; a un amico puoi chiedere aiuto senza che questi pretenda nulla in cambio. La differenza fra amici e conoscenti, insomma, è abissale, ed essere circondati da persone non significa necessariamente essere circondati da amici. In qualche modo l’amicizia è un qualcosa di eterno, che non nasce e non muore, ma vive all’infinito dentro a ognuno di noi. Nonostante ciò, sarebbe un errore considerare gli amici nostri cloni. Un amico è il nostro completamento, non il nostro sosia. La più grande conquista nell’amicizia è non aver bisogno di spiegarsi per capirsi: per questo il vero amico è quello con puoi anche stare in silenzio. Il legame dell’amicizia è profondo che nasce dalla confidenza e in questo modo unisce due o più persone. L’amicizia non è esclusiva, si può distribuire tra molte persone, con varie sfumature, senza che nessuna si senta svalutata. Capita, a volte, che l’amicizia deluda. Si può scoprire che un amico non è la persona che ci aspettavamo, o che agisce per suo interesse o necessità. Il vero amico non è questo, ma colui che in ogni momento è in grado di aiutarti, sia fisicamente che moralmente. Il vero amico mantiene i segreti e non tradisce. Insomma parafrasando un famoso aforisma: “datemi un amico e vi solleverò il mondo”.
Favria, 30.07.2023 Giorgio Cortese
Buona giornata. Nella vita quotidiana nessuno ti dimostra più amicizia di un amico nel bisogno. Felice domenica
A bizzeffe.
Nella nostra lingua ci sono modi di dire molto popolari la cui origine è rimasta a lungo sconosciuta oppure addirittura travisata. È il caso dell’espressione “a bizzeffe”, usata colloquialmente, ma non solo, per sottolineare che qualcosa è presente in quantità abbondante. Come in una cornucopia, insomma. Oggi sappiamo che deriva dall’arabo bizzaf e anzi, più precisamente, dalla variante algerina bizzaf, “molto”, ma in passato si era pensato a una sua derivazione dal latino. A diffondere questa idea fu nel 1688 il poeta toscano Paolo Minucci, 1606 – 1695, che nelle note al “Malmantile riacquistato”, un poema eroicomico scritto tra il 1643 e il 1645 dal pittore Lorenzo Lippi mentre si trovava in Austria presso la corte di Claudia de’ Medici, moglie dell’arciduca Leopoldo V, chiosò quanto segue: “Quando il sommo magistrato romano intendeva concedere a un supplicante la grazia senza limitazioni, faceva il rescritto sotto al memoriale, che diceva fiat, fiat, sia, sia, anziché semplicemente fiat, che si scriveva i quando la grazia era meno piena, dipoi per brevità costumarono di dimostrare questa pienezza di grazia con due sole “ff”, onde quello che conseguiva tal grazia diceva: “Ho avuto la grazia a bis effe”. Anche se basata su una credenza sbagliata, la testimonianza di Minucci è importante perché attesta l’esistenza già allora della variante “a biseffe”, con una “s” anziché due “z”, che ritroviamo anche in altri autori successivi. Primo fra tutti Cesare Beccaria, che usò l’espressione “Io ne ho di questo mio argomento gli esempi a biseffe”; ma già suo nipote Alessandro Manzoni, e prima ancora Leopardi, usano la versione “a bizzeffe”, che è quella in uso anche oggi.
Favria, 31.07.2023 Giorgio Cortese
Buona giornata. Nella vita un notevole gioco di ruolo è l’esistenza del quale siamo protagonisti perlopiù inconsapevoli. Felice lunedì.
L’estate è arrivata e in questo periodo dell’anno c’è ancora più bisogno di sangue. Le scorte spesso si riducono durante questa stagione, ma le necessità dei pazienti non si fermano mai. Prima di rilassarti in spiaggia o in montagna #donavita, #donasangue! Ti aspettiamo a FAVRIA VENERDI’ 4 AGOSTO 2023, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell. 3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio