L’olfatto: il senso dimenticato. – Federa e fodera. – Con la guerra di Crimea arriva la carne in scatola. – Salvare la ghirba. – San Martino. – La Sindone: “Una storia nella storia”. – Cabiria. – Baldo, baldanzoso e non ribaldo…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

L’olfatto: il senso dimenticato “Ficcare il naso”, “col naso nell’acqua”, “non ti fidare di

quegli uomini che hanno due fori sotto il naso!”, “a lume di naso”, “far saltar la mosca al naso”, “meglio un naso storto che nessun naso” e vive meglio chi “ha buon naso” perché “a naso” si riconoscono le cose buone, si ottengono successi “bagnando il naso” agli altri. Il naso dunque non è solo al centro del volto, è una sorta di “luogo” al centro della nostra memoria, e delle nostre emozioni. Attraverso l’olfatto si capta l’essenza delle cose con immediatezza, senza passare attraverso l’elaborazione razionale. L’olfatto imprime nella nostra psiche una memoria che resta in modo indelebile con noi. L’olfatto ci restituisce la possibilità di riconoscere le cose senza vederle e toccarle, ma captandone l’essenza, l’odore che da esse emana e che non dimentichiamo più. Più che in un album di foto, più che nel cassetto dei ricordi, la nostra storia è forse una memoria di odori. Gli odori si memorizzano nel cervello in base alle nostre scoperte ed esperienze. Possono essere buoni o cattivi in base al gusto personale di ognuno di noi. I profumi sono parte della nostra vita: ci ricordano, anche a distanza di anni, un istante preciso, una persona, un periodo della nostra vita, un’atmosfera particolare. Il funzionamento della memoria olfattiva è tale che i primi ricordi olfattivi che risalgono all’infanzia sono i più potenti nella loro capacità di suscitare delle emozioni gradevoli e anche i più facili da riattivare. In effetti, le memorie olfattive non svaniscono mai e la loro forza dipende dall’importanza che ha avuto la situazione in cui l’odore è stato percepito nel processo d’apprendimento delle persone. Più antiche sono le memorie olfattive, più profonde sono le emozioni che risvegliano. I profumi sono “impressioni” che evocano emozioni, accompagnano lo spirito su ampi orizzonti, sono il primo indumento che si porta sulla pelle, parlano di noi, ci permettono di interagire con gli altri, aprono le porte della conoscenza lasciando un’impronta di noi che si ricorda nel tempo. Il profumo talora ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà. L’olfatto oggi tra i cinque sensi è stato certamente quello che più ha perso significato, dal punto di vista funzionale, nel corso dell’evoluzione della razza umana attraverso i millenni. È noto come l’uomo primitivo, affidava all’odorato compiti importantissimi per la propria sopravvivenza, quali la difesa dai pericoli, la ricerca del cibo e l’eccitazione dell’appetito sessuale. E poi che cosa è successo? È successo che, condizionati da una mentalità visivo-acustica che per 2500 anni ha determinato il nostro modo di sentire e di pensare, abbiamo relegato l’olfatto fra i sensi minori. Oggi in un mondo asettico, plastificato, innaturale, simbolizzato dal “deodorante”, il nostro olfatto non poteva non perdere gran parte del suo primitivo potere discriminativo a causa del disuso e dei danni provocati dalle sempre più frequenti e violente aggressioni delle delicate strutture sensoriali ad opera di agenti chimici inquinanti. Ma è il disuso il principale responsabile della perdita di efficacia di questo importante senso della nostra vita. Secondo gli studiosi per noi esseri umani , i “sensi chimici”, come lo sono il gusto e l’olfatto, furono i primi a comparire nella scala evolutiva. Oggi il nostro olfatto non poteva non perdere gran parte del suo primitivo potere discriminativo a causa del disuso e dei danni provocati dalle sempre più frequenti e violente aggressioni delle delicate strutture sensoriali ad opera di agenti chimici inquinanti. Ma è il disuso il principale responsabile della perdita di efficacia di questo importante senso della nostra vita di relazione inizia con il progredire della civiltà. I profumi rappresentati per lo più resine vegetali come l’incenso, che con la combustione, per fumum, liberavano composti volatili graditi all’olfatto. Il loro impiego, destinato dapprima solo a fini religiosi, si estese poi gradualmente, con intenzioni assai più profane, dai templi ai palazzi dei potenti e alle residenze delle classi più agiate. Nella Bibbia è scritto che Mosé, costruendo il tabernacolo, bruciò sopra l’altare “il profumo degli aromi, come il Signore gli aveva comandato” (Esodo 40, 27) e innumerevoli bruciaprofumi, per lo più destinati al culto, fanno parte dei reperti archeologici di tutte le più antiche e più importanti civiltà, dall’Egitto alla Mesopotamia, dall’India alla Cina, dalla Grecia all’Etruria, a riprova della universalità di questo costume. Ai progressi compiuti nel corso dei secoli dall’arte della profumeria corrispondono altrettanti progressi nello sviluppo delle conoscenze anatomo-fisiologiche sull’organo dell’olfatto, il senso dell’immaginazione.
Favria, 7.11.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita la bontà è l’unico investimento che non fallisce mai. Felice martedì.

Federa e fodera

La federa è un involucro di tessuto, a forma di sacco, per guanciali da letto, la parola deriva dal longobardo fedara, fèdara, feder, penna, piuma, entrata nell’italiano nella metà secolo XIV. La federa dci racconta del rivestimento di tessuto in cui si usa infilare i guanciali dei letti, ma anche i cuscini di divani e poltrone,  per proteggerli dallo sporco e dal sebo prodotto dalla nostra pelle. Di solito, le federe sono realizzate in cotone anallergico, ma in commercio si trovano anche federe in seta o in altri tessuti pregiati. Tradizionalmente le federe erano bianche e ricamate, facevano spesso parte  dei corredi di nozze e venivano associate alla biancheria, anche nell’uso di apporre su un lato le iniziali del nome di chi le usava. Negli ultimi decenni, invece, quest’uso sembra essersi limitato e sono diventate più comuni federe colorate o abbellite da stampe, al fine di accompagnarsi all’arredamento e ai toni scelti per la stanza. In italiano la parola fodera, fodero derivano sempre dal longobardo fodr, guaina della spada oppure l’astuccio di cuoio o di tela in cui si usa riporre il fucile da caccia, oppure l’arco, quando si deve trasportare.  Con il termine fodera oggi, ci si riferisce a un rivestimento in tessuto, usato per capi d’abbigliamento e per oggetti, che può essere cucito all’interno o usato come copertura all’esterno. Abiti, giacche, cappotti e gonne possono avere una fodera interna per aumentarne la vestibilità, dare struttura, contenere un’imbottitura o per far sì che il capo risulti più protetto dal sudore e possa dunque durare più a lungo nel tempo. Può essere realizzato attraverso varie tipologie di tessuti come tela, cotone, seta o raso. La fodera è usata anche per rivestire l’interno di borse, cappelli e guanti, con lo scopo di nascondere le cuciture e dare al prodotto un aspetto finito. Il termine fodera, infine, può anche essere riferito alla copertura di un libro, ossia a quell’involucro di cartone rigido che si usa per proteggere le copertine. I due termini vengono fatti derivare da un’unica radice in greco antico, p-teron, che significa ala, il che avrebbe dei riscontri in sanscrito. Ecco che, quindi, la parola federa porterebbe, celata nella sua etimologia, la memoria dell’uso ormai passato di imbottire i cuscini con piume d’oca. Oggi per paura che il cuscino possa svelare i nostri sogni a chiunque lo mettiamo in una federa perché di notte tutto è più semplice con i  pensieri sciolti sul  cuscino che ascolta dal lato del cuore.

Favria,  8.11.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. La felicità quotidiana è desiderare quello che si ha. Felice mercoledì.

Con la guerra di Crimea arriva la carne in scatola.

Due secoli fa, nel 1810, l’imprenditore franco­britannico Pierre Durand ottenne dal re Giorgio III d’Inghilterra il brevetto per la sua idea di conservare i cibi. Già una decina di anni prima, però, il venditore di dolci Nicolas Appert aveva studiato il problema e nel 1809 si era aggiudicato il premio di dodicimila franchi che Napoleone aveva messo in palio per chi gli avesse presentato un sistema per conservare i cibi, necessario per garantire alle sue truppe la fruizione di grandi quantitativi di cibo durante i lunghi trasferimenti. Appert, però, che nel 1810 aveva pubblicato l’Art de conserver les substances animales et végétales, usava bottiglie di vetro a chiusura ermetica mentre Durand aveva inventato le scatolette metalliche, molto più sicure dei fragili recipienti di vetro. E a questo punto è curioso ricordare che dal nome di Nicolas Appert è derivato ‘appertizzazione’, un termine che si trova in tutti i vocabolari e che definisce il metodo di conservazione dei cibi in scatola. Cibi che cominciarono ad essere prodotti nel 1813 quando Bryan Donkin e John Hall impiantarono una industria di conserve per rifornire l’esercito inglese. In Italia le prime ‘scatolette’ fanno la loro comparsa intorno alla metà dell’Ottocento, quando un certo Lancia mette in scatola della carne di bue per i soldati piemontesi che stanno combattendo in Crimea. Poi è la volta di Francesco Cirio, un commerciante di Casale Monferrato che mettendo in barattoli i piselli avrebbe dato vita a una delle più famose industrie conserviere italiane. Pochi anni dopo, nel 1881, per poter far fronte alle numerose richieste della sua clientela, il salumiere milanese Piero Sada mette in scatola il suo famoso lesso di carne, ma quella ‘roba’ inscatolata mista a gelatina non incontra subito i favori della gente, più propensa a consumare cibi freschi. Ma un bel giorno lo svizzero Gondrand effettua la prima trasvolata delle Alpi su una mongolfiera e a Sada viene la bella idea di sponsorizzare in parte l’impresa offrendo la sua carne in scatola all’equipaggio. L’idea piace e, è proprio il caso di dirlo, la scatoletta di carne decolla insieme alla mongolfiera tant’è che Gino Alfonso, il figlio di Sada, darà vita alla produzione industriale del prodotto che chiamerà Simmenthal, dal nome di una razza bovina della valle svizzera di Simmen. Ma accanto ai cibi in scatola hanno preso piede anche le bevande in lattine, che hanno conosciuto una larghissima diffusione perché sono forti, infrangibili e si possono ‘impilare’, consentendo una miglior razionalizzazione degli spazi per il loro trasporto. Le moderne tecnologie hanno consentito anche di ridurre il loro spessore rendendole leggerissime. All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, infatti, le lattine pesavano 80 grammi, ma già nel 1990 il peso di una lattina si era ridotto a 16,58 grammi. Oggi una lattina di 33 cl pesa intorno ai 13 grammi e, nonostante il suo involucro abbia lo spessore poco più grande di una pagina di giornale, può sopportare il peso di una persona. Ogni anno in Europa si producono più di trenta miliardi di lattine e solo in Italia il consumo è di circa due miliardi all’anno, più di un quarto dei quali viene interamente riciclato. E grazie al riciclaggio una lattina non si trasforma necessariamente in un’altra lattina, ma può contribuire a fabbricare gli oggetti più disparati. Per realizzare un cerchione d’auto, ad esempio, sono necessarie seicentoquaranta lattine, per fare una caffettiera ne bastano trentasette e solamente tre per ottenere un paio di occhiali. Con circa ottocento lattine si può costruire una bicicletta. Il prototipo, chiamato ‘Ricicletta’, è stato presentato alcuni anni fa alla fiera biennale ambientale di Venezia e fu lanciato dal Cial, il Consorzio imballaggio in alluminio. La ‘Ricicletta’, che è una leggerissima bici da città, è formata per metà di alluminio di recupero e per metà di alluminio puro. Per sensibilizzare la raccolta differenziata, il Cial ha predisposto negli spazi del Giffoni Film Festival contenitori per la raccolta delle lattine e dal 2005 ha istituito il premio Cial per l’ambiente, per un film realizzato dai ragazzi che meglio affronta le tematiche ambientali. Ai vincitori verrà consegnato il trofeo ‘Grifone in alluminio riciclato’. Negli spazi del festival, infine, l’associazione di volontariato ‘Gruppo sportivo Vita per la Vita’ di Boccaglio (Brescia) ha costruito lo scorso anno due mega-pannelli, tutti realizzati con lattine, che raffigurano il logo del festival.  Le lattine di alluminio si sono evolute nel tempo e hanno subito notevoli cambiamenti, a cominciare dalla loro apertura. All’inizio, infatti, per poter accedere al loro contenuto, era necessario praticare due fori diametralmente opposti sull’estremità superiore e solamente nel 1962 Ernie Fraze inventò la linguetta a strappo, primo passo che apriva la strada alla linguetta che non si stacca, inventata nel 1976 ma diffusasi solamente a partire dagli anni Novanta. La lattina che rivoluzionò il modo di bere in tutto il mondo ebbe però il suo tallone d’Achille. Nel 2002, infatti, in Svizzera una donna morì di leptospirosi dopo aver bevuto direttamente da una lattina contaminata dalle urine di topi e alcuni anni prima si erano registrati in Italia casi di salmonellosi sempre causati da lattine sporche. L’inconveniente fu risolto con il cosiddetto ‘ healthy cap’, una capsula di plastica applicata sulla parte superiore della lattina con la funzione di proteggerla da contaminazioni esterne. Dal 2007 è stata messa sul mercato una nuova lattina, chiamata ‘ sleek can’ (che significa slanciata, affusolata) non più fabbricata in alluminio ma in acciaio riciclabile. Il contenuto è sempre di 33 cl, ma la nuova forma più slanciata consente un miglior stoccaggio del prodotto. Se, infatti, un cartone di vecchie lattine poteva contenerne venticinque, lo stesso cartone può contenerne trenta del nuovo formato. Non mancano le lattine speciali, oggetto di culto per i collezionisti. Ne esistono perfino col refrigeratore. Altre, invece, hanno la cannuccia incorporata e sono dotate di un particolare dispositivo a pressione. Ma queste ultime non cercatele al bar. Sono, infatti, rarissime perché usate nelle missioni spaziali della Nasa.

Favria, 9.11.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno oscilliamo tra la presunzione e la disperazione. Felice giovedì.

Salvare la ghirba

Oggi il modo di dire “Salvare la ghirba”, vuole dire sopravvivere a un grave pericolo, modo di dire molto usato all’inizio dai reduci di guerra. Ma da dove arriva questo modo di dire, la parola ghirba deriva dal lemma arabo qirba, che indicava un otre di pelle usato da  usato da tribù dell’Africa per trasportare l’acqua: la parola, portata in Italia dai soldati italiani della guerra d’Africa del 1895-96 e di quella libica del 1911-13, è rimasta nell’uso di reparti militari, soprattutto alpini, per indicare l’otre di pelle per il rifornimento di acqua, e presso i campeggiatori, per indicare il recipiente di tela impermeabilizzata, o di materiale plastico, che generalmente viene appeso ad alberi o tende per mantenere fresca l’acqua da bere. Secondo alcuni il detto è entrato stabilmente in uso tra i militari italiani nel 1911, durante la guerra contro la Turchia per la conquista della Libia, con il significato prima di “pancia” e poi di “vita”. Dall’uso fatto dalle truppe coloniali italiane, specialmente degli alpini che chiamavano così un otre  in pelle o tela per portare acqua, vino o caffè,  è poi nato il detto portare a casa la ghirba o salvare la ghirba nel senso di salvare la pelle o “Lassejè la ghirba, lasciarci la ghirba”,  nel senso di perdere la vita. La ghirba, la pelle, come metafora della vita. Nelle attività di campeggio la ghirba, oggi anche in materiali plastici, è un contenitore in cui conservare in fresco l’acqua e generalmente appeso nei pressi della tenda. Una curiosità finale, durante la Grande Guerra “La ghirba”  era il titolo di un quotidiano di trincea pubblicato nel 1918 a Castiglione delle Stiviere dall’editore G. Bignotti & figli.

Favria, 10.11.2023    Giorgio Cortese

Buona giornata. Nela vita siamo ritenuti responsabili non è solo per quello che facciamo, ma anche per quello che non facciamo. Felice venerdì.

San Martino

L’11 novembre, in molti paesi italiani, si celebra la Festa di San Martino, o Estate di san Martino. È un’importante ricorrenza che unisce la liturgia cristiana alla tradizione contadina legata all’apertura delle botti di vino novello e ai piaceri della buona tavola. La Festa di San Martino dell’11 novembre è una ricorrenza molto sentita in tanti paesi e cittadine d’Italia, tanto che perfino Giosuè Carducci si ispirò a questa data, che in molte zone era un giorno non lavorativo, per comporre una delle sue poesie più celebri, San Martino appunto. Martino di Tours fu un vescovo cristiano che visse nel IV secolo d.C. Nato in Pannonia, una regione dell’Impero Romano che ora corrisponde in parte alla moderna Ungheria, Martino era figlio di un legionario che lo spinse ad arruolarsi come soldato una volta raggiunta l’età giusta. Come membro dell’esercito Romano, Martino venne spedito in Gallia e lì avvenne il fatto che gli cambiò l’esistenza. Secondo la tradizione infatti, durante una ronda a cavallo, Martino notò un mendicante male in arnese che tremava per il freddo. Mosso a pietà, Martino tagliò il suo bel mantello, la cappa militare, a metà e lo condivise con il pover’uomo. Quella stessa notte gli comparve in sogno Gesù Cristo. Dopo questo episodio Martino, che non era battezzato, intraprese il cammino della Fede e divenne cristiano a tutti gli effetti. Dopo vent’anni passati a servire l’Impero, Martino decise infine di lasciare l’esercito e dedicarsi alla vita monastica. Come fervente servo di Dio, Martino viaggiò in lungo e in largo per convertire i pagani e alimentare il culto cattolico, soprattutto nelle campagne, per le quali il futuro santo ebbe sempre un occhio di riguardo. La sua propensione ai viaggi lo rese il santo patrono dei pellegrini! Martino divenne vescovo di Tours nel 371 d.C, anche se qualcuno storceva il naso per le sue origini plebee. Come vescovo, Martino fece costruire monasteri, curò le anime dei suoi fedeli e, secondo la tradizione cristiana, compì diversi miracoli che gli valsero la santificazione. San Martino morì l’8 novembre 397 d.C, ma il funerale fu celebrato tre giorni dopo e infatti la sua festa cade proprio l’11 novembre. Proprio la sua vita tra le campagne e i ceti più bassi, il culto di San Martino è strettamente legato a riti e usanze della tradizione contadina. Lo stesso giorno di San Martino cade proprio in un periodo di gran fermento per il mondo campestre. In questi giorni infatti nei vigneti si aprono le botti per i primi assaggi del vino novello, da qui il detto: “a San Martino ogni mosto diventa vino” e fino al secolo scorso era pratica comune rinnovare i contratti agricoli e tenere grandi fiere di bestiame. L’11 novembre è anche conosciuta come Estate di San Martino, poiché di solito in quella settimana l’autunno si fa più mite e non è raro incontrare giornate molto soleggiate. Questo, però, avveniva prima del cambiamento climatico! La Festa di San Martino insomma è un’occasione, oltre che per glorificare il Santo, per celebrare i frutti della terra e l’abbondanza del buon cibo. Oltre a riempire i bicchieri infatti, a San Martino si riempiono le pance, soprattutto in un paese con una variegata tradizione culinaria come l’Italia. Carne alla brace e caldarroste ad Ascoli, pittule e vino nel salentino e biscotti tipici a Palermo: tutta l’Italia si mette a tavola per San Martino e tra i tantissimi piatti della tradizione, l’oca è una delle pietanze più gettonate. Poi esistono le oche di San Martino, dove tutto risale ad un altro episodio della vita del Santo. Si dice infatti che quando Martino venne acclamato dal popolo come nuovo vescovo, l’umile prete, che voleva rimanere un semplice monaco, si nascose in un tugurio di campagna. A smascherarlo però fu il gran rumore provocato dalle oche che scorrazzavano per l’aia e quindi il chierico, scoperto dai paesani, dovette accettare l’incarico. Una spiegazione meno romantica risiede invece nel fatto che a novembre le oche migrano verso sud e quindi sarebbe molto più facile cacciarle mentre si trovano in volo. La festa è poi particolarmente sentita a Venezia e dintorni, dove oltre Alle celebrazioni religiose si preparano i dolcetti di San Martino, dolci biscotti di pasta frolla con la forma del santo a cavallo e armato di spada. Ma oggi parliamo anche dodecamerone dei morti, i dodici giorni che si concentrano i dodi giorni che nel Medioevo era dei banchetti con bevute, chiassi, eccessi, a volte mascherate, sfilate di tipo carnevalesco con al seguito zucche, simboli di fertilità e fecondità fino a quello fallico. Parliamo del charivari vuole dire musica ruvida, una serenata finta intesa come fastidio o insulto, la parola deriva dal francese charivari, a sua dall’antico francese chalivali “rumore discordante fatto da pentole e padelle”, dal latino tardo caribaria “un forte mal di testa,” dal greco karebaria “mal di testa,”, da kare, testa, dalla radice indoeuropea  ker, corno, testa e barys “pesante, dalla radice indoeuropea gwere, pesante.  In italiano capramarito, o anche chiavramarito ,alterazioni popolari del latino medievale charavaritum o chalvaritum, era una plateale manifestazione di protesta in cui si dava espressione a sentimenti collettivi di rabbia o di irrisione collettiva rivolti a individui responsabili di atti ritenuti offensivi verso la morale comune. Il giorno di San Martino era anticamente l’occasione privilegiata per motteggiare, deridere, persino aggredire violentemente, i mariti traditi, gli anziani che si risposavano, e più in generale tutti i protagonisti di matrimoni anomali che per  una ragione o per l’altra si ponevano contro la comunità, infrangendone la legge non scritta. In questa giorno esisteva il rito dei charivari, tipicamente connesso al frastuono prodotto da scampanate, grida e schiamazzi, percussione di pentole e padelle organizzata dalle confraternite giovanili le Badie dei Folli.  Pensate che nell’Inghilterra del ‘700 e dell’800 lo charivari era diventato di fatto una giustizia popolare simbolica. Le caratteristiche di questa festa ricordano il  capodanno agrario d’autunno, ecco spiegato l’esigenza, in un momento di rinnovamento del tempo e dell’anno, di espiare simbolicamente anche i mali e i peccati della comunità, prima di tutto denunciandoli, esponendoli “rumorosamente” al ludibrio dei concittadini. Questo era la funzione simbolica dello charivari di San Martino che si riconnette  ad una tradizione più arcaica, quella della “mesnie, schiera furiosa, di Hallequin, documentata per la prima volta nel XII secolo e centrata sulla figura del demone Arlecchino, il capitano della compagnia. La caccia selvaggia o esercito selvaggio,  la schiera dei morti che corre di notte in mezzo a un frastuono tremendo, guidata da una divinità maschile, Perchta, Holda, Diana, Ecate o, come qui, maschile Harlechinus.

Favria,  11.11.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno preferisco ciò che ho a ciò che spero. Felice sabato

La Sindone: “Una storia nella storia”

Docente: Gianmaria Zaccone

mercoledì  15 novembre 2023 ore 15,30 -17,00

Conferenze UNITRE’ di Cuorgnè presso ex chiesa della SS. Trinità –Via Milite Ignoto

La Sacra Sindone è uno dei grandi misteri della religione cristiana. È un lenzuolo funerario di lino su cui si può scorgere l’immagine di un uomo, torturato e crocefisso. I tratti e i segni di questa figura sono compatibili con quelli descritti nella  Passione di Gesù, di conseguenza i fedeli e anche alcuni esperti sostengono che quel lenzuolo sia stato usato per avvolgere il corpo di Cristo nel sepolcro. Il lenzuolo è davvero un pezzo di storia che ha attraversato i secoli, non solo della religione?

Cabiria

Il più grande colossal, e nel contempo anche il più famoso film italiano del cinema muto, è senza dubbio “Cabiria”, sottotitolato “Visione storica del terzo secolo a.C.”- diretto nel 1914 da Giovanni Pastrone  La sua trama è appassionante e ricca di colpi di scena e vede protagonista la giovane Cabiria, rapita dai pirati fenici che la vendono ai Cartaginesi, i quali vogliono immolarla al dio Moloch. La salverà il romano Fulvio Axilia con l’aiuto del possente Maciste sullo sfondo della seconda guerra punica. Il film, girato a Torino, ma alcune scene furono filmate in esterno in Tunisia, in Sicilia, sulle Alpi e sui laghi di Avigliana, divenne il più lungo film italiano prodotto dei suoi tempi oltre al più costoso. Il soggetto si avvale delle didascalie “letterarie” di Gabriele D’Annunzio e delle musiche di Manlio Mazza, con la breve ma intensa Sinfonia del fuoco di Ildebrando Pizzetti. La prima ebbe luogo il 18 aprile 1914, al Teatro Vittorio Emanuele di Torino e in contemporanea al Teatro Lirico di Milano. La sua importanza nella storia del cinema risiede anche nell’adozione al massimo livello di effetti innovativi: lampade elettriche per il chiaroscuro, scenografie ricostruite in cartapesta, carrello per muovere la cinepresa sul la scena, tecnica della sovrimpressione. Il film ebbe un tale successo di critica e di pubblico, anche all’estero, da restare in cartellone per sei mesi a Parigi e per quasi un anno a New York; fu anche il primo lungometraggio della storia ad essere proiettato alla Casa Bianca.

Favria, 12.11.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Saper ascoltare gli altri è un dono, saper capire e non giudicare è una virtù, che non tutti possono permettersi. Felice domenica

Baldo, baldanzoso e non ribaldo

La parola Baldo che è anche nome proprio, si festeggia l’onomastico il 15 settembre, in onore di San Baldo martire in Gallia, patrono dei figli adottivi e invocato soprattutto per mantenere l’accordo in famiglia e in particolare tra i coniugi. II nome deriva dall’antico longobardo bald e significa audace, valoroso. Dalla parola baldo ecco la baldanza che è arrivata in italiano attraverso il provenzale baut, sempre attraverso il longobardo bald, che significa grande sicurezza, spavalderia. Anche se questa parola può avere dei connotati di eccesso, resta fondamentalmente positiva.  La baldanza è una grande sicurezza di sé, ed è una sicurezza manifesta, che parole e atteggiamenti rendono evidente. Si traduce Anche in una grande fiducia nella sorte: il baldanzoso sa che tutto, dentro e fuori di lui, si muove a suo favore. Etimologicamente, si arriva a questo concetto attraverso immagini di ardore e fierezza: sempre qualcosa che si legge negli occhi del baldanzoso, in quel che fa e in quel che dice. Poi magari si tratta di una baldanza ingiustificata e un po’ arrogante, ma è esuberante, brillante, e non così nettamente esagerata come la spavalderia. Sicuramente il baldanzoso è un ottimista gagliardo e poi dalla stessa parola deriva la rumorosa allegria della baldoria. Diverse è invece la parola ribaldo che significa farabutto; soldato dedito ai saccheggi. Questa parola deriva  dall’antico  francese ribaud, derivato del germanico hriba donna di malaffare. Il ribaldo era un soldato del Medioevo, di infima condizione sociale il cui ruolo era quello di attaccar battaglia,  fondamentalmente, carne da macello. Ma non solo: presto questo nome passò ad indicare il soldato incline a dedicarsi a saccheggi, saccheggi e turpi stupri sempre a danno delle donne.  Oggi per  antonomasia il ribaldo sia diventato il disonesto, lo scellerato, o anche il poveraccio, colui che vive alla giornata. Ma allora cosa c’entrano i ribaldi con le prostitute di cui ci parla l’etimo? Perché nell’antico francese ribaud non dipingeva una canaglia qualunque, ma una canaglia lussuriosa, libertina e lasciva.

Favria, 13.11.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. A volte a lasciare troppo a lungo i sogni nel cassetto si rischia che se li mangino le tarme. Felice lunedì.

Carissimi chi dona sangue ama la vita, le Vostre gocce di sangue possono creare un oceano di felicità, donate il sangue potete salvare una vita. Esiste dentro di noi la gioia di aiutare. Basta ascoltarla. Lo scopo della vita di noi essere umani è quello di accendere una luce di speranza nei nostri simili anche donando il sangue.

Vi aspettiamo a FAVRIA MERCOLEDI’ 29 NOVEMBRE 2023

cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20.

Abbiamo bisogno di Te.  Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio