Per rotta della cucca. – Fotografare la realtà per vivere meglio la realtà. – Athanatoi. – Zama 19 ottobre 202 a.C – Porpora – Scones – Calepino. – Hic manebimus optime…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Per rotta della cucca. Il 17 ottobre 589, per la piena eccezionale dovuta alle abbondanti

piogge, l’Adige straripò portando con sé morte e distruzione. Fu un evento di portata epocale perché causò la modifica del panorama fluviale del basso Veneto e della laguna tra Grado e Comacchio, solcati da un gran numero di corsi d’acqua: Piave, Sile, Zero, Dese, Marzenego, Brenta, Bacchiglione, Agno, Adige, Tartaro e Po. Il longobardo Paolo Diacono, vissuto nell’VIII secolo, racconta che “campagne e borghi furono ridotti in rovina, grande fu la moria di uomini e animali, strade e sentieri furono spazzati via e distrutti” e ricorda che anche Verona fu travolta dall’inondazione. L’alluvione fece abbandonare al Brenta e al Bacchiglione il loro delta mentre il Piave, che sfociava con il Sile nei pressi di Heraclia, spostò il corso a sud, entrando in mare nel porto di Cavallino: la città, allora capitale del distretto di Venetikà, rimase esposta alle minacce esterne e si avviò verso la decadenza. I fiumi Dese e Zero, dal canto loro, confluirono in laguna nei pressi di Torcello e l’afflusso massiccio di acque dolci cambiò l’ecosistema e trasformò la zona in palude malarica. Il catastrofico fenomeno del 589 è conosciuto come la Rotta della Cucca, attuale Veronella, dove passava un meandro dell’Adige oggi abbandonato, ma non fu improvviso: fu il risultato del peggioramento del clima tra il VI e l’VIII secolo, che portò al parziale scioglimento dei ghiacciai e a un aumento delle precipitazioni con conseguente incremento della portata dei fiumi. A peggiorare ulteriormente la situazione fu la scarsa manutenzione degli alvei dopo la fine dell’Impero romano d’Occidente e la guerra greco-gotica, del 535-553 d.C.
Favria, 17 ottobre 2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno le nostre idee nascono  nude, saranno poi  la parola o lo scritto a vestirle e presentarle agli altri. Felice martedì.

“Fotografare la realtà per vivere meglio la realtà”

Fotografia impressionista: come nasce e come si esegue

Docente Piero Nizzia

mercoledì  18 ottobre 2023 ore 15,30 -17,00

Conferenze UNITRE’ di Cuorgnè presso ex chiesa della SS. Trinità –Via Milite Ignoto

“La fotografia è uno stato d’animo, questa per me è una certezza (una delle poche), quindi seguendo questo sentire ci sono giorni in cui fotograferei fino a consumarmi il dito e giorni che non voglio vedere la macchina fotografica.

Fatta questa premessa, perché queste foto “che sembrano dei dipinti?”

Quale è il motivo che mi spinge a fare queste  immagini? Innanzi tutto sono innamorato dei vari pittori “impressionisti” fine ‘800, sono un romantico crepuscolare e alle volte l’iperrealismo fotografico non soddisfa in pieno quello che voglio comunicare, ecco che sono andato a cercare altri modi di esprimermi, visto che le nuove tecniche ad oggi me lo permettono. Detto così sembra una cosa volgare, “lo fa il computer”,  ma vi assicuro che non è solo così…

La foto la devi vedere, sentire, avere dentro di te una visione d’insieme e poi piano piano come un pittore colora la sua tela, io lo faccio con i miei pennelli virtuali, trasformando una foto che aveva in sé i contenuti da me ricercati, non c’è casualità, tutto è consapevolmente dentro di me. Eseguire queste stampe è frutto di giorni e giorni di lavoro davanti al monitor, ascoltando della musica la quale mi mette in sintonia con l’immagine che sto creando, guardo e riguardo come piano piano sta “venendo”, aggiungo o tolgo colore, con migliaia e migliaia di click del mouse fino a quando la foto non è terminata. So benissimo che non è il tempo impiegato a fare un “quadro” di valore, credo però che questa spiegazione era dovuta.

Questo tipo di fotografia non è un “copia incolla” dei pittori impressionisti, avere dei riferimenti  è importante ma poi c’è il tuo sentire che è fatto di tante cose: il tuo vissuto, i quadri che hai visto, i libri che hai letto, la luce che hai guardato, insomma tutto il tuo bagaglio di vita vissuta.”

                                       Piero Nizzia

Athanatoi.

Erodoto, nelle sue Storiescritte nelV secolo a.C., utilizza il termine greco athanatoi, letteralmente immortali, per identificare un corpo della fanteria pesante persiana che, sempre secondo Erodoto, nella battaglia delle Termopili (480 a.C.) era composto da 10.000 uomini. Essi davano l’illusione di essere immortali, poiché se qualcuno moriva o veniva gravemente ferito, o si ammala, immediatamente veniva sostituito, così da non far variare mai il totale dei componenti. Erano truppe scelte reclutate tra i nobili persiani e agli ordini diretti del Gran Re di Persia, di cui erano le guardie del corpo. Tra loro condividevano tutto: le sofferenze e le privazioni, l’onore e la gloria, le marce forzate e il letto in tenda. Il loro armamento era composto da uno scudo di pelle e di vimini, una lancia con la punta di metallo, un arco e una faretra per le frecce, una daga o un’altra arma corta. Ma le tattiche di combattimento utilizzate dagli Immortali sono in parte sconosciute. Questi straordinari guerrieri parteciparono, oltre che alla battaglia delle Termopili, a quella di Maratona (490 a.C.). Erano inoltre tra le truppe persiane che occuparono la Grecia nella Seconda guerra persiana del 480-479 a.C.

Favria, 18.10.2023

Buona giornata. Le promesse non esistono, cerco dei politici che sappiano  mantenere le scelte. Felice mercoledì.

Zama  19 ottobre 202 a.C

A Zama Scipione pone fine al mito di Annibale La Seconda guerra punica era stata dominata dal genio del generale cartaginese Annibale, capace di portare lo scontro in Italia e infliggere a Roma quattro cocenti sconfitte che avevano causato alle legioni oltre 100mila perdite tra morti e prigionieri. L’Urbe era stata sul punto di capitolare ma, nonostante alcune defezioni, era riuscita a mantenere una notevole coesione, al punto da logorare Annibale in anni di inutili campagne fino a costringerlo a fare ritorno in patria. E proprio a Cartagine il giovane console Publio Cornelio Scipione, al quale Roma doveva il rinnovato controllo sui territori della Penisola iberica, progettò di portare la guerra, lanciando la sfida al più celebre condottiero. In suolo africano Scipione colse alcune vittorie minori, ma soprattutto sottrasse ai Cartaginesi una serie di importanti alleati con la promessa di sostanziose ricompense, primo fra tutti re Massinissa principe della Numidia noto per la forza della sua cavalleria. Il 19 ottobre del 202 a.C. Annibale e Scipione si fronteggiarono a Zama. Il cartaginese era in superiorità numerica e schierava un’ottantina di elefanti da guerra con i quali progettava di rompere i ranghi della fanteria romana. Per evitarlo Scipione fece suonare ai suoi soldati le trombe, in modo da spaventare i mastodontici animali che si dispersero seminando il caos tra la cavalleria cartaginese. A quel punto quella romana attaccò i fianchi dello schieramento nemico e mise in fuga i cavalieri nemici per poi ripiegare a tenaglia sui ranghi della fanteria cartaginese rimasta scoperta. La manovra determinò l’esito della battaglia, favorevole all’Urbe. Annibale riuscì a fuggire ma lasciò sul campo 24mila morti e oltre 10mila prigionieri. A Zama, Cartagine perse lo status di potenza mediterranea cedendo il primato a Roma.

Favria, 19.10.2023   Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita nulla di grande è stato realizzato senza lacrime e sudore, perché nulla si realizza senza sacrificio. Felice giovedì.

Porpora

Nel I millennio a.C. i Fenici crearono un vasto impero commerciale che comprendeva l’intero bacino del Mediterraneo. Ma una bella fetta della loro ricchezza si basava sulla porpora, la tintura più pregiata dell’antichità, prodotta da un semplice mollusco, il murice, bramato da re e imperatori. La sua scoperta era legata, nel mito, al nume tutelare di Tiro, Melqart. E il termine stesso “fenicio”, usato dai Greci per indicare diverse città sorte sulla costa oggi libanese, Tiro, Biblo, Sidone, Beirut, Sarepta,  aveva a che fare con la porpora, in greco phoinixindicava il rosso violaceo. Omero stesso lodò le vesti colorate che producevano e indossavano le donne di Sidone e nell’Iliadeparla della ricchezza dei tessuti fenici. Anche gli annali assiri riportano liste di tributi in cui compaiono stoffe decorate offerte da Tiro. Visto il loro valore, i tessuti tinti con la preziosa porpora iniziarono a diventare status symbol. A rendere esclusivo il pigmento era il lungo lavoro necessario per produrlo. Bisognava raccogliere migliaia e migliaia di molluschi, immergendo in acqua canestri con avanzi di pesce e conchiglie come esca. Una volta raccolto, il murice era tenuto in vita in ampie vasche con acqua di mare e poi si procedeva a estrarre la ghiandola mucosa, che contiene i componenti chimici usati per la tintura. Dopo aver estratto un numero sufficiente di ghiandole, le si metteva in una grande vasca di stagno con acqua salata, che veniva riscaldata per dieci giorni. Così, poco a poco, filtrava la tintura: un composto incolore che diventava rosso violaceo non appena lasciato all’aria e alla luce del sole. Un processo lungo e decisamente maleodorante. Teopompo, uno storico greco del IV secolo a.C., raccontava che gli uomini della città di Colophon, in Asia Minore, erano soliti passeggiare per la città con abiti di porpora, che al tempo era un colore raro pure tra i re; e molto richiesto, giacché la porpora era venduta regolarmente come equivalente all’oro. Le enormi quantità di frammenti di conchiglie di murice rinvenute dagli archeologi a Sarepta, in Libano, ad Almunécar in Spagna, a Cartagine, Kerkouane e Meninx, oggi Djerba, in Tunisia e a Mogador in Marocco, testimoniano una produzione della porpora su grande scala sia nella Penisola iberica sia in Nord Africa. Anche dopo che i Cartaginesi, ultimi eredi dei Fenici, furono sconfitti dai Romani, la raccolta e l’allevamento dei preziosi molluschi continuò. Fino a quando gli imperatori d’Oriente ridussero al minimo la dispendiosa produzione, riservandola esclusivamente ai regnanti.

Favria 20.10.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno  più sarà grande l’ostacolo che posso superare e più sarà grande la soddisfazione che potrò avere. Felice venerdì

Scones

Nei gialli di Sherlock Holmes mi sono imbattuto negli scones. La loro storia si perde nella notte dei tempi anche l’origine del nome è incerta e sarebbero di origine scozzese anche se la Cornovaglia ed il Devon in Inghilterra ne reclamano i natali. Vengono mezionati all’interno di una poesia scozzese del 1513.  Il nome sembrerebbe derivare dall’olandese schoonbrot,pane bianco o pane raffinato, che è strettamente correlato al tedesco schonbrot, letteralmente pane bello, pane pregiato. Secondo alcuni il nome scone potrebbe derivare  dal  gaelico sgonn, inteso nel senso di massa informe o grande boccone, verosimilmente in riferimento a gente che a tavola non doveva essere solita andare per il sottile. Intrigante, anche se poco probabile, è l’ipotesi che questi piccoli panini siano stati così chiamati in riferimento all’antica capitale scozzese Scone. Infine, non mancano coloro che riconducono l’etimologia alla pietra del destino, Stone of Scone o Stone of Destiny o Coronation Stone, usata per incoronare i sovrani scozzesi e, più recentemente, del Regno Unito. In Inghilterra gli scones sono diventati popolari e protagonisti del rito del tè pomeridiano grazie a un’idea di Anna Stanhope, duchessa di Bedford, che un pomeriggio del 1840 chiese alla servitù di servirle del tè con della torta e alcuni pani morbidi e dolci, tra i quali appunto gli scones. Con una ricca merenda, infatti, avrebbe potuto sopperire alla fastidiosa sensazione di fiacchezza che provava ogni pomeriggio alla stessa ora ed interrompere la lunga pausa tra un pranzo,  evidentemente troppo leggero,  e la cena servita abbastanza tardi, intorno alle otto di sera. La duchessa si compiacque a tal punto per il servizio e la bontà dei pani dolci che stabilì che ogni pomeriggio le fosse regolarmente portato tutto, invitando frequentemente a raggiungerla anche gli amici per condividere il rituale. Passati alla storia con il nome di Tea Time pomeridiano, il ritrovo riscosse tanto successo da indurre sia alla creazione di nuovi servizi di piatti, posate, teiere e alzatine per dolci sia alla nascita di abiti più adeguati a questo nuovo momento mondano della giornata. Nell’arco di una generazione la pratica di assumere un pasto più leggero rispetto a quelli principali, da consumarsi tra le quattro e le cinque del pomeriggio, da rito privato e diffuso solo tra i nobili, si trasformò in una vera e propria abitudine conviviale collettiva che prese il nome di afternoon tea diffuso ancora oggi e replicato in tante sale da tè nate per l’occasione. Che buoni gli scones, compatti, morbidi e umidi all’interno ma fragranti in superficie, preparati con farina, un pizzico di sale, agenti lievitanti, burro, zucchero e latte, ideali per l’ora del tè che è quella pausa giornaliera, considerata un evento sociale nella cultura inglese.

Favria,  21.10.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Certi giorni penso con nostalgia quello che mi manca, poi rifletto  con gioia  a quello che ho. Felice  sabato

Calepino.

Il primo vocabolario fu pubblicato nel 1502 dal frate bergamasco Ambrogio Calepio, detto Calepino: non a caso ancora oggi la parola “calepino” è sinonimo di dizionario o di persona sapiente ma un po’ barbosa. Si trattava  allora di un fortunatissimo dizionario di latino, che negli anni successivi fu arricchito tanto da diventare un’opera imprescindibile per tutti gli intellettuali d’Europa. Purtroppo, il vecchio Calepino non vide compiuto il suo lavoro, che nelle edizioni successive fu articolato in molte lingue. Il primo vocabolario della lingua italiana fu però quello dell’Accademia della Crusca, istituzione fondata a Firenze nel 1583, pubblicato nel 1612. Unità. Le sue voci erano state scelte nelle opere di Dante, Boccaccio e Petrarca. Nelle edizioni successive vi furono ammessi vocaboli di altri autori, tra i quali Lorenzo de’ Medici e Machiavelli, e di non fiorentini, Bembo, e Ariosto. Le regole del vocabolario della Crusca furono “legge” per oltre due secoli, ovvero fino al dizionario di Niccolò Tommaseo, la cui prima edizione risale al 1861, quando l’unità d’Italia era appena stata raggiunta. La conquista della nostra lingua per il ceto intellettuale e politico piemontese era una necessità e un dovere. Oggi  calepino viene detto, con delicatezza, che si può anche associare al personale quaderno di appunti. Da una persona sapiente una parola dotta, che mantiene, nella sua tenerezza, un tono aulico.

Favria, 22.10.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Cos’è il futuro se non la fioritura del seme da una idea! Felice domenica

Hic manebimus optime

Frase latina che ripete, accorciandole, le parole, integralmente: “signifer, statue signum, hic manebimus optime, vessillifero, ferma l’insegna, qui staremo benissimo”,  che un centurione romano, secondo Livio, avrebbe pronunciato dopo l’incendio di Roma da parte dei Galli (390 a. C.), invitando il suo drappello a fermarsi nei pressi della Curia, e che, udite dai senatori, i quali stavano appunto deliberando sul trasferimento della capitale a Veio, furono interpretate come un ammonimento divino contro quella deliberazione, la frase fu ripetuta da Quintino Sella quando Roma divenne capitale d’Italia, e anche utilizzata come motto da Gabriele D’Annunzio durante l’occupazione della città di Fiume.  La frase, utilizzata con il significato di “siamo qui per restare”, fu anche stampata con l’effigie del Vate sulla prima serie di francobolli della Reggenza Italiana del Carnaro,  emessa il 12 settembre 1920. La Quadriga dell’Unità, posta in cima al Vittoriano tra il 1924 e il 1927,  reca uno scudo con su scritta la frase di Livio. Eugenio Montale inserì la citazione nella poesia Al mare (o quasi): “Hic manebimus se vi piace non proprio ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile alla morte (e questa piace solo ai giovani).” Negli anni si sono registrate ulteriori riprese da parte di uomini politici italiani, in particolare da parte dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini il 16 novembre 1980 e il 14 ottobre 1984,  come solenne smentita delle voci di sue dimissioni. Oggi la frase  è spesso utilizzata in politica e anche con intenti talvolta scherzosi in riferimento a determinati incarichi o posizioni,  per ribadire il fermo desiderio di non abbandonare un determinato luogo.

Favria, 23.10.2023 Giorgio Cortese  

Buona giornata. Nella vita l’essenza del sapere è sapere ascoltare. Felice lunedì.