Res Gestae Favriesi. Cappella di S. Rocco, 9 Giugno 1842 – La corona della fortuna e della felicità! – La rilassante canfora, l’albero della vita – Ricordo dolce amaro. – Trote in carpione ed i cusòt brusch! – Ci vorrebbe un colpo di bacchetta magica sulle locuzioni oramai diffuse. – …Le pagine di Giorgio Cortese

L’attesa paziente ed operosa nella giornata è il primo passo verso un grande risultato.

Res Gestae Favriesi. Cappella di S. Rocco, 9 Giugno 1842
Rocco di Montpellier, universalmente noto come san Rocco, nato a Montpellier tra il 1346 ed il 1350, morto a Voghera nella notte tra il 15 ed il 16 di agosto tra il 1376 ed il 1379, fu un pellegrino e taumaturgo francese, venerato come Santo e patrono di città e paesi. È il santo più invocato, dal Medioevo in poi, come protettore dal terribile flagello della peste, e la sua popolarità è tuttora ampiamente diffusa, infatti le cappelle a lui eretto erano anticamente erette ai bordi della Comunità. Il suo patronato si è progressivamente esteso al mondo contadino, agli animali, alle grandi catastrofi come i terremoti, alle epidemie e malattie gravissime; in senso più moderno, è un grande esempio di solidarietà umana e di carità cristiana, nel segno del volontariato. Con il passare dei secoli è divenuto uno dei santi più conosciuto nel continente europeo e oltreoceano. Quello che voglio narrare avvenne nel 1842 quando il priore di questa cappella favriese scrisse al Comune di Favria per dei lavori da fare in questa cappella, viste le scarse risorse del priore e della confraternita che ne curava il decoro e la manutenzione: “Al Molto Illustrissimi Signor Sindaco dell’amministrazione Comunale di Favria. Rappresenta il Coha Pietro di questo luogo in qualità di priore la cappella di S. Rocco appartenente alla pubblica amministrazione di questo luogo. Il medesimo espone che la campana di questa cappella non trovagli in uso di suonare sia per le messe come pure per i tempi cattivi etc. Trovasi ora la cappella nel più grande stato d’indigenza come già si è venuto nei conti espressi nell’anno scorso proponente a Vostra Signoria Illustrissima trovarsi in debito la somma di lire quattrocento e più per le riparazioni alla medesima e edificazione della sacrestia. Per fondere la detta campana verrebbe alla somma lire ottantacinque circa con dichiarazione dalli signore Giacomo Cattone fondatore di campane. Alli presente non trovasi in stato la cappella di soccombere a tali spese a Vostra Signoria Illustrissima ora ricorrere supplicandola di voler degnarsi di prendere in benigna considerazione l’esposto per tratto d’indigenza Il che sempre memore non mancheremo di adeguare solidi preci al cielo per la conservazione di Vostri Signori Illustrissimi spero che della grazia. Favria li 9 giugno 1842. Umile Vostro pregiatissimo Coha Pietro. (segue la lettera del fonditore per la nuova campana n.d.r.)Allegata la stima del fonditore. Calcolo Favria per la Capella S.Rocco. Dichiariamo il sotto scritto di aver esaminato la campana della capella di S.Rocco eretta la medesima in Favria e per addivenire alla recondita della suddetta la spesa potrebbe rilevare non meno di L. 85 circa. In Fede li 7 giugno 1842 Cattone Giacomo fonditore. S. Giorgio Canavese”.
Favria, 15.08.2015 Giorgio Cortese

A chi soffre a casa, a chi si gode gli ultimi giorni di vacanza, a chi è appena partito, è a chi è in attesa di qualcosa, a chi è triste, a chi è felice, alle forze dell’ordine impegnate sul territorio, ai dottori impegnati in questo giorno di festa, ai politici onesti, a tutti, che sia un giorno pieno di gioia e serenità. Per un sogno di una notte di mezza estate. Buon Ferragosto! Un abbraccio.
Giorgio Cortese

Non si nasce con il buon senso, questo viene dall’esperienza. Purtroppo l’esperienza viene acquisita giorno per giorno nella vita quotidiana, anche con scelte fatte senza buon senso.

La corona della fortuna e della felicità!
La maggiorana è un’erba aromatica molto utilizzata in gastronomia per il suo forte aroma, contenuto principalmente nelle foglie, che conferisce un aroma particolare alle ricette nelle quali viene utilizzata, tra le sue qualità anche un grande contenuto di vitamina C. La maggiorana è chiamata in alcune regioni italiani anche Persia, è una specie del genere Origanum, nativa dell’Europa e delle regioni centrali e meridionali dell’Asia. Ecco i vari nomi dialettali: Persa, Mezulana (Liguria), Magiolana (Piemonte), Mazoerana, Segarzoela (Lombardia), Mazurana (Veneto), Mesorana (Emilia), Persia bianca (Toscana), Persichino (Marche), Persa (Lazio), Maiorana (Abruzzo), Arigano, Fauzien (Puglia), Rigano, Rijenu, Arianu (Sicilia), Ammeirana, Prensa (Sardegna),.Nei climi più caldi cresce fino a circa 1000 metri s.l.m. È la specie che viene impiegata come aromatica in cucina e si distingue dall’origanum vulgare per l’odore ed il gusto più delicato. È un’erba perenne nelle regioni di appartenenza, nel nord Africa ed in Asia centrale, altrove annuale non sopravvivendo a temperature invernali troppo rigide, legnosa alla base, con fusti eretti alti 25-90 cm. Le foglie sono piccole, opposte, picciolate, dotate di leggera peluria, verdi su ambo facce, intere e a margine liscio. I fiori sono bianco rosati, odorosi, ascellate da brattee concave. La fioritura avviene nei mesi più caldi. La maggiorana è un importante spezia nella tradizione culinaria italiana e greca. Le foglie sono la parte commestibile della pianta. È anche un’erba molto ricca di vitamina C, di oli essenziali, tannini e acido rosmarinico pertanto è molto usata in erboristeria, in aromaterapia ed anche nell’industria cosmetica. È indicata nella cura dell’emicrania. L’aroma della maggiorana ricorda molto quello dell’origano, anche se più delicato. Porta buono seminarla tra la fase crescente e la fase calante della luna. Si dice giovi contro la caduta dei capelli. L’olio di maggiorana è molto importante perché viene messo nei profumi. La storia della coltivazione della maggiorana risale perlomeno agli antichi Greci, che la ritenevano un dono di Afrodite e quindi la associavano all’idea di felicità. Un mito greco racconta che Imeneo, figlio di Magnete e valente musico, era morto all’improvviso mentre stava cantando alle nozze di Dioniso e Altea. Per perpetuare la sua memoria fu deciso di invocarlo in occasione di tutti i matrimoni e di intitolargli il canto in onore degli sposi: il canto d’Imeneo. Lo si raffigurava con la fiaccola, un flauto, una corona di fiori di maggiorana. Anche la sposa veniva abbellita con coroncine di questa pianticella dalla cascata di foglioline simile a una chioma. una volta c’era la credenza che per proteggersi magicamente da ogni malattia si doveva portare legato al collo un sacchetto di stoffa bianca nel quale ci fossero un rametto di maggiorana, uno di ruta e uno di rosmarino. Successivamente nel Medio Evo e negli anni a seguire essa fu sempre coltivata negli orti europei; pare che le sue foglie strofinate sui mobili e sui pavimenti di legno li rendano particolarmente lucenti, inoltre foglie e fiori racchiusi in sacchetti odorosi profumano delicatamente la biancheria. In passato, le donne e le fanciulle innamorate ne tenevano sul davanzale una piantina alla quale il cavaliere rivolgeva il suo saluto. Se lei apriva la finestra per fare un cenno d’intesa all’uomo, si usava dire con espressione ambigua che l’uomo “svegliava la maggiorana”. Simbolizza la consolazione e la bellezza. In Oriente si crede che un rametto di maggiorana portato addosso preservi dalla sventura. Una curiosità, nel XVIII secolo la polvere di maggiorana, mescolata con gelatina di albicocche, veniva utilizzata contro l’epilessia, le vertigini e i tremori. “In terra delicata e vigorosa, sara’ seminato il seme della Maggiorana, allorquando sia luna novella e l’inverno del tutto passato”, Oliviero de SERRES, Consigli agricoli al re di Francia, sec.XVII. Un vecchio detto popolare recita: ““Il porco fugga la maggiorana e la tema.”, questo detto sostiene che i maiali si ritraggano dalla maggiorana, aborrendone il profumo penetrante, quasi fosse un fetore insopportabile. Una leggenda narra che un uomo, Amaraco, un ufficiale delle case di Cinira, re di Cipro, aveva il compito di custodire i profumi. Un giorno spezzò involontariamente un vaso colmo di un essenza preziosa e tale fu il suo dispiacere, che ne morì. Gli dei, commossi da tanta delicatezza d’animo, lo mutarono nella pianta odorifera, la maggiorana. Si metteva in testa agli sposi una coroncina intrecciata di maggiorana per augurare loro fortuna e felicità. Nell’antichità si dice che la dea Afrodite curasse le ferite di suo figlio Enea, proprio con la maggiorana. E allora come diceva Gaio Valerio Catullo “la soave maggiorana odorosa” che con il suo gradevole profumo è un gesto, una sensazione, insomma una porta aperta sul meraviglioso mondo che ci circonda.
Favria, 16.08.2015 Giorgio Cortese

il buon senso è l’istinto dell’animo sincero.

La rilassante canfora, l’albero della vita
La parola canfora deriva dal latino medievale camfora, dall’arabo kafur, dal sanscrito karpoor. La canfora nell’antichità veniva commercializzata a Barus, il porto sulla costa occidentale dell’isola di Sumatra. Qui i dove i mercanti stranieri venivano ad acquistare la canfora, per cui in malese è diventato Kapur Barus. La canfora è una pianta di utilizzo antico. La droga veniva utilizzata addirittura in tempi remoti come cura del colera! Oggi l’utilizzo della pianta è più limitato, la medicina tradizionale ha un po’ abbandonato questa droga in favore di altre ma la canfora ancora trova applicazione, anche se meno di prima, in ambiti come l’erboristeria, l’omeopatia la medicina cinese e l’ayurveda. La canfora era conosciuta in Arabia, già in tempi pre-islamici, come menzionato nel Corano, e utilizzata per aromizzare le bevande. Nel IX secolo, il filosofo e chimico arabo al Kindus, meglio noto come Alkindus, fornì la prima ricetta per la produzione di canfora nel suo “Libro di chimica del profumo, dal XIII secolo venne usata nelle ricette in tutto il mondo mussulmano, dai piatti principali, come il tradizionale tharid allo stufato e ai dolci. Veniva infatti citata in quel periodo, in una grande varietà di piatti, sia salati che dolci, nei libri di cucina medievale in lingua araba e anche in un libro di cucina andalusa dello stesso periodo. Alcune tradizioni popolari mediorientali, inoltre, dicono che la canfora dissuada i serpenti e altri rettili a causa del suo forte odore. Allo stesso modo, si crede che la canfora sia tossica per gli insetti e quindi viene a volte usata come repellente. La canfora è ampiamente usata nelle cerimonie religiose indù. Gli indù venerano una fiamma sacra generata bruciando canfora, che costituisce una parte importante di molte cerimonie religiose. La canfora viene usata nelle celebrazioni in onore si Shiva, il dio indù della distruzione e della ri-creazione. Come la pece naturale, brucia senza lasciare un residuo di ceneri, che simboleggia la coscienza. Nell’Europa antica e medievale la canfora veniva utilizzata come ingrediente per i dolci. Era anche utilizzata come aromatizzante, in confezioni simili ai gelati, in Cina durante la Dinastia Thang dal 618-907 d.C. Sempre in Cina, era considerato come l’albero della vita e, secondo la leggenda, cibarsi dei suoi frutti condurrebbe all’immortalità. Anche i giapponesi lo venerano come pianta sacra. Per le sue proprietà antisettiche e cardiotonici. Distillando le radici o il legno si ottengono dei cristalli tossici, che da secoli vengono utilizzati in profumeria, per la confezione di incensi, per la preparazione della naftalina, nonché per l’imbalsamazione. Inoltre, l’olio essenziale estratto dalle foglie degli alberi di canfora in aromaterapia è considerato come uno dei principali antivirali e immunostimolanti, ed è anche un ottimo antidepressivo. In passato, la canfora, era considerata una pianta “calmante del desiderio sessuale, circola la leggenda, che i frati ne portassero sempre con sé un sacchetto per aiutarsi a mantenere fede al proprio voto di castità. Sempre una curiosità in tal senso è quella relativa alla santoreggia, erba invece considerata afrodisiaca, il cui possesso era vietato agli uomini di chiesa e di monastero. In Europa, solo nel 1907 in Finlandia il chimico Gustaf Komppa, nel 1903 ne studiò le caratteristiche e nel 1907 diede inizio alla produzione industriale della canfora sintetica della canfora, in quanto si rese conto che in natura è scarsamente disponibile con una forte richiesta in tutto il mondo. La canfora è stata usata in diversi preparati per la tosse, come il Vicks ed il Buckey, come sedativo della tosse e come calmante locale. La canfora è pericolosa soprattutto per i bambini, le persone oltre i 55 anni e per coloro che ne assumono quantità superiori a quelle consigliate per lunghi periodi di tempo. In grandi quantità, la canfora è velenosa quando viene ingerita e può causare convulsioni, confusione, irritabilità, iperattività neuromuscolare, allucinazioni, nausea, vomito e vertigini. L’albero della canfora, per il suo fogliame sempreverde e profumato, come mi ha fatto vedere la foto, l’amico Pietro, nel giardino della casa in Riviera è uno degli alberi decorativi più apprezzati dall’esuberante crescita. Ho scritto questo, breve pensiero sulla canfora, perché l’amico Pietro mi ha portato ad annusare delle bacche prodotte da questa pianta, che una volta schiacciate con le dita hanno emanato un odore intenso e gradevole. E’ proprio vero che di tutti i sensi, l’odorato è quello che mi colpisce di più. Come fanno i miei nervi a farsi magnifici interpreti di sottili e sublimi sfumature, di ciò che non riesco a vedere e che non riesco neanche a trascrivere con delle parole. Ritengo che l’odore è come un’anima, immateriale, una magia, un mistero, una sensazione dell’animo che mi è impossibile descrivere
Favria, 17.08.2015 Giorgio Cortese

Se nella vita perdo il coraggio di sognare come posso pretendere poi che qualcosa accada?

Ricordo dolce amaro.
Ritengo che nella vita tutti abbiamo dei sapori o degli odori che ci ricordano l’infanzia. Ci sono cibi e bevande che fanno scattare la serratura dell’armadio dei ricordi nell’animo, e così poi si richiama alla mente dei ricordi sepolti. Alcuni giorni addietro è appunto riaffiorato uno di questi ricordi. Sono entrato nella casa dove sono nato e mi sono ricordato che quando da bambino nei giorni di forte calura estiva mia nonna andava a trovare frescura sui gradini di pietra sulle scale da dove saliva della lieve brezza fresca dalla cantina. Questo mi ha fatto ricordare il sapore di una bevanda che avevo dimenticato, lo sciroppo di tamarindo. La parola “tamarindo” viene dall’arabo – “Tamr Hindi”, ciò è, il dattero dell’India e il suo nome scientifico è Tamarindus indica. In hindi, la chiamiamo “imli”. Il frutto del tamarindo è un legume o un baccello di colore verde che maturando diventa marrone e ha una scorza dura, con dentro i baccelli, c’è una densa polpa rossa-marrone che racchiude dentro dei semi duri e lisci di colore marrone scuro. Il tamarindo è un albero maestoso, sempreverde che vive piuttosto a lungo, appartenente alla famiglia delle Leguminose, originario del Madagascar e poi diffusasi anche in aree tropicali dell’Asia. La sua altezza può raggiungere i 30 metri, mentre la sua circonferenza arriva a più di 7 metri. Le foglie sono lunghe fino a 15 cm., i fiori sono riuniti a grappoli di colore giallo con striature rosse o arancioni, mentre i frutti sono baccelli penduli dalla forma leggermente incurvata lunghi dai 10 ai 15 cm. ed hanno una colorazione marrone; i semi, da 4 a 12 per ogni baccello, sono inseriti in una polpa giallastra o bruna dal sapore leggermente aspro ma gradevole. Questa polpa viene usata in cucina sia come ingrediente per la salsa, “Worcestershire”, sia come bevanda , soprattutto in Italia lo sciroppo al tamarindo. Lo sciroppo di tamarindo aveva un sapore subito acidulo, ma dopo lasciava in bocca un gusto gradevole e appagante alla sete estiva. Pensate che il tamarindo è ricco di zuccheri, ferro, potassio, calcio, vitamine ed altri acidi organici. Grazie alla sua densità e durabilità, il cuore del legno del tamarindo può essere usato per fare mobili e soffitti. Le foglie vengono usate in India e in Africa per nutrire i bachi sa seta per bachi da seta dei generi Anaphe, che producono una seta considerata di qualità superiore. Foglie e fiori trovano applicazione anche come mordenti per stoffe e cappelli di paglia. Gli alberi di tamarindo sono anche molto utilizzati in India per fornire ombra sulle strade. Ma il frutto di questa pianta viene usato come sciroppo per bibite ed è proprio vero che ogni giorno qualcosa di nuovo comincia, con nuove sfide, profumi e nuove aromi, ma rimane nel bagaglio dei miei ricordi il sapore dolce amaro della mia prima infanzia, lo sciroppo del tamarindo.
Favria, 18.08.2015 Giorgio Cortese

Certe volte la felicità è simile ad un granello di sabbia che mi ritrovo, inaspettatamente, fra le dita. Ma se apro subito la mano è già sparito portandosi via momentaneamente la mia speranza.

Trote in carpione ed i cusòt brusch!
Il cucinare le trote, le zucchine ed altro in carpione sono una peculiarità della cucina piemontese e lombarda. In dialetto il carpione viene chiamato il “brusc” per via del sapore acidulo e brusco, ma oggi cucinare in carpione è una ricetta nota e diffusa in tutta Italia. Questa tecnica culinaria di marinatura, ha il nome simile al pesce carpione, pesce di lago molto simile al salmone che, credo abbia dato origine anche al nome della ricetta. Il carpione, pesce, viene utilizzato sia per le carni, che per le verdure, le uova o il pesce, che di regola vengono preventivamente fritti e poi messi a marinare in una soluzione di aceto e verdure soffritte, (cipolle, carote e sedano. Le origini del carpione non sono chiare, sicuramente è una preparazione molto antica che risale a quando non si disponeva ancora dei moderni metodi di conservazione e si usavano prevalentemente il sale o l’aceto, come nel caso del carpione, per fare in modo che i cibi si mantenessero il più a lungo possibile. È certamente un piatto estivo, inventato nella notte dei tempi dalle madri e dalle mogli dei contadini che rincasavano a luglio da giornate di pesante lavoro nei campi e nelle vigne. Il carpione può constare di uno solo o più elementi, quello fondamentale è costituito dagli zucchini previamente fritti, cusòt brusch, o zucchini bruschi, a cui possono aggiungersi uova in padella, bistecchine e delle saporite trote,, salmerini, carpe o altri pesci prevalentemente di lago o di fiume, dato che nel Piemonte e nella Lombardia, zona di origine del carpione, è una terra molto ricca di laghi e non confina con il mare. La ricetta del carpione tradizionale prevede un condimento, versato caldo sugli ingredienti precedentemente fritti, composto da: olio, aceto di vino bianco o rosso, aglio, abbondante salvia. Non di rado, tuttavia, come feci io già per il pollo aromatico, viene usata la cipolla e qualche altro aroma a piacere.. Il sapore del carpione è sicuramente dominato dall’aceto, ma è al tempo stesso delicato, ingentilito dalla presenza delle verdure e, volendo, di qualche erba aromatica (alloro o salvia) o di qualche spezia (ginepro o pepe in grani). Si sposa bene con i pesci di lago proprio perché questi hanno un sapore dolciastro e molto delicato. Il carpione sta al Nord Italia un po’ come l’ escabeche o scapece al Meridione e non solo, ma di questo ne parlo nei prossimi giorni. Concludo sul carpione ricordando che in questa estate calda il cibo è la forma più primitiva di conforto ed il carpione alla sera ne da molto, e Se più persone dessero valore al cibo, all’allegria, alle canzoni che allla ricerca spasmodica della ricchezza e del successo, sarebbe certo un mondo più felice.
Fav La vita quotidiana certi giorni non aspetta che io prenda una decisione. Ed allora vado avanti, vivendo intensamente tutte le emozioni che mi si presentano davanti come un uragano senza pensare come andrà a finire.
Favria 19.08.2015 Giorgio Cortese

C’è un ingorgo di pensieri nella mia mente, un traffico di emozioni da immobilizzare l’animo. Ho bisogno di scioltezza interiore, di qualcosa che risvegli i miei sensi un nuovo libro, un nuovo tema, una fiaba, un sogno

Ci vorrebbe un colpo di bacchetta magica sulle locuzioni oramai diffuse.
Come locuzioni orami diffuse, modo di dire o, più tecnicamente, o espressioni idiomatiche si indicano generalmente delle espressione convenzionali, caratterizzate dall’abbinamento di un significante fisso, poco o niente affatto modificabile, a un significato non composizionale , cioè non prevedibile a partire dai significati dei suoi componenti. Espressioni come essere al verde, essere in gamba, prendere un abbaglio, tirare le cuoia non significherebbero nulla se considerate solo come somma dei significati dei loro componenti, ma se considerate in blocco, invece, rimandano a un significato figurato o allegorico, ad esempio “ vuotare il sacco” significa rendere evidente ciò che contiene, svelare un pensiero. Molte di queste locuzioni ormai diffuse sono anche idiomatiche deriva dalla Bibbia, dalla mitologia, dalle favole e dall’evoluzione della lingua nel corso dei secoli, da grandi scrittori come Dante, Manzoni ed altri, ecco allora: “restare di sale, essere nella fossa dei leoni, essere un calvario, dare a Cesare quel che è di Cesare, passare dalle stelle alle stalle, lavarsene le mani, essere un sepolcro imbiancato fare come la volpe con l’uva, tenere una serpe in seno, che spaventoso incidente, il gatto e la volpe, vita morte e miracoli, rivendicare un attentato, tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, a ben vedere, in primo luogo, per favore, in bocca al lupo. Poi ci sono i modi di dire come: tirare le cuoia, patata bollente, all’acqua di rose, alla bell’e meglio. tagliare la corda, nel senso di fuggire, scappare, battere sempre sullo stesso tasto, mozzare il fiato, avere un santo in paradiso, mandare al diavolo, si respira un aria pesante, togliere le parole di bocca, rompere il ghiaccio, mettere le carte in tavola, togliere un grosso peso dalla coscienza, non svegliare il can che dorme, vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, pomo della discordia, supplizio di Tantalo, spada di Damocle, tallone d’Achille, mangiare da cani, menare il can per l’aia, vederci chiaro, fiutare il vento, addolcire la pillola, prendere una cantonata, fare un passo in avanti, mettere i bastoni tra le ruote, battere la fiacca, capire l’antifona, prendere un granchio, vicolo cieco, quinta colonna, sangue blu, canto del cigno, lacrime di coccodrillo, occhio di bue, mangiare a bizzeffe, cavarsela alla bell’e meglio, cantare a squarciagola, bere a garganella, guidare a sirene spiegate, fare il gran rifiuto, scegliere fior da fiore, fare come i capponi di Renzo, fare il donchisciotte, essere l’ultima ruota del carro, darsi la zappa sui piedi, dormire della grossa, prendere due piccioni con una fava, sparare a zero, avere una marcia in più, giocare al rialzo, essere un dongiovanni, essere un vitellone, essere come l’armata Brancaleone, salvarsi in corner, prendere in contropiede, fare melina” Come si vede sono innumerevoli le locuzioni ormai diffuse e forse per metterle in ordine ci vorrebbe una bacchetta magica, perdonatemi se ne usa ancora un’altra. La bacchetta è un antico simbolo di comando che ha dato luogo a molte altre locuzioni ormai cadute in disuso, come “rendere la bacchetta”, “signore a bacchetta” e “ comandare a bacchetta”. Insomma un modo risolutivo, veloce e qualche volta incomprensibile di risolvere una situazione intricata, che fa pensare a un ipotetico ricorso alla magia. Insomma è questo che adesso “mi passa per la testa” nel “cercar l’ago nel pagliaio” delle locuzioni ormai diffuse.
Buona serata
Favria 20, 8.2015 Giorgio Cortese

La cultura è un bene comune primario come l’acqua; i teatri le biblioteche i cinema sono come tanti acquedotti. La cultura è l’unico bene dell’umanità che, diviso fra tutti, anziché diminuire diventa sempre più grande.