Rimedi Mediovali 1 parte. – Bandiere d’Europa, Repubblica Ceca, Romania e Danimarca. – La cura della pelle per gli antichi romani. – Hotel, ospedale, albergo e locanda. – Auschwitz e il futuro della memoria – Cumanae testae. – Avere l’argento vivo addosso…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Rimedi Mediovali 1/2 parte Tra i tanti bizzarri rimedi utilizzati nei secoli per curare il mal

di denti, miele, peperoncino, cera, succo di ragno e cervello di coniglio, spicca quello degli Egizi, che per creare una pasta da applicare sulla zona dolorante usavano nientemeno che una mousse di topi morti mescolata con altri ingredienti naturali. Nell’antica Grecia esisteva la “teoria degli umori”, secondo la quale il corpo era governato da quattro umori in equilibrio tra loro, sangue, flemma, bile gialla e bile nera, e le malattie erano causate da un loro squilibrio. I rimedi andavano dall’ingestione di piante amare per i disturbi digestivi a quella del sesamo per la febbre. Nella Roma imperiale si credeva che bere il sangue dei gladiatori morti in combattimento potesse aumentare la forza fisica nonché guarire da diverse malattie. Questa bizzarra credenza derivava dall’idea che il sangue di una persona forte e valorosa potesse trasmettere le sue virtù a chi lo beveva. In alcune civiltà, tra cui quelle precolombiane, era diffusa la pratica di perforare il cranio, servendosi di attrezzi più simili a quelli dei fabbri che dei medici. Il fine? Curare mal di testa, lesioni e disturbi mentali. Nel Medioevo si credeva anche che, così facendo, gli spiriti maligni avrebbero lasciato l’ospite. In epoca medievale, ma anche per buona parte del Rinascimento, se ne trova documentazione fino al XVIII secolo, la polvere ottenuta dalla macinazione delle mummie egizie veniva utilizzata come rimedio per una vasta gamma di disturbi, tra cui il mal di stomaco, le emorragie e persino l’epilessia.
(seguirà seconda parte)

Favria, 23.01.2024 Giorgio Cortese 

Buona giornata. Ogni giorno non siamo ricchi per ciò che possediamo, ma per ciò di cui possiamo fare a meno. Felice  martedì

Bandiere d’Europa, Repubblica Ceca, Romania e Danimarca

Analoga alla bandiera della dissolta Cecoslovacchia, riporta i colori panslavi. Nel  dettaglio, il bianco e il rosso delle bande orizzontali derivano dall’antico stemma della Boemia, mentre il blu del triangolo rimanda al colore tradizionale della Slovacchia. La bandiera della Romania i I colori delle bande verticali, una blu, una gialla e una rossa, rievocano quelli degli stemmi dei principati di Moldavia e di Valacchia, ispettivamente, una testa di toro gialla su campo rosso e un’aquila dorata su sfondo azzurro, dalla cui unione sorse. La bandiere danese è stato il modello  per gli altri vessilli scandinavi, la sua croce con braccio verticale decentrato a sinistra è nota come “croce scandinava”. Quanto allo sfondo rosso, sarebbe ispirato dagli stendardi dei crociati medievali e rimanderebbe al colore del sangue.

Favria, 24.01.2024 Giorgio Cortese

Buona giornata. Le persone che affermano di conoscere tutte le risposte, non si sono fatte tutte le domande. Felice mercoledì

La cura della pelle per gli antichi romani.

Al grande naturalista latino Plinio il Vecchio, vissuto nel I secolo d.C., dobbiamo la menzione, nei libri XXIII e XXXII della sua monumentale Naturalis Historia, di alcune pratiche mediche in voga in una Roma ammaliata dal fascino dell’Oriente, nella quale i ricchi patrizi, quando non erano alla ricerca di preparati a base di spezie e sostanze esotiche ritenuti corroboranti e afrodisiaci,  era il caso della proboscide di elefante o dei genitali della iena,  spendevano fortune per profumi, cosmetici e unguenti preziosi ritenuti in grado di migliorare l’aspetto, ringiovanire e prevenire le malattie. In questo caso era spesso il grasso animale il più richiesto. Vi era, ad esempio, un impiastro ricavato dall’heliocallida, foglie di elianto bollite nel grasso di leone e poi mischiate a zafferano e vino di palma: era usato, ci dice Plinio, dai Magi e dai Persiani per rendere più bella la cute. Altrove leggiamo che il grasso di leone era usato, miscelato con l’olio di rose, anche per sbiancare la pelle, mentre si ricorreva a quello di orso, mescolato a capelvenere e resina di ladano, o labdano (Cistus ladanifer L.): secrezione vischiosa raccolta pettinando capre e pecore che avevano pascolato sugli arbusti di cisto per frenare la caduta dei capelli. Il grasso di coccodrillo, con o senza l’aggiunta di fiele di camaleonte, serviva invece per eliminare i peli.

Favria, 25.01.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Quando mi trovi d’accordo con la maggioranza, allora è il momento di fermarmi e riflettere. Felice giovedì.

Hotel, ospedale, albergo e locanda.

Queste parole possono sembrare dei sinonimi, le prime due hanno la stessa origine. La  parola italiana albergo deriva dal gotico haribergo e dal franco heriberga derivarono i nomi nelle lingue  romanze dell’albergo: italiano albergo; francese, auberge, spagnolo albergue. La parola deriva dall’antico germanico  heribergo, inteso come accampamento fortificato o alloggio. Un albergo più antico che  si conosce storicamente è il Leonidaion  che lo storico Tucidide ricorda essere stato costruito dai Lacedemoni dopo la distruzione di Platea vicino all’Heraion: esso misurava 200 piedi su ogni lato, cioè circa m. 60 e aveva due piani. Un’iscrizione ci attesta l’esistenza di alberghi per gli atleti che affluivano alle gare istmie. L’evoluzione dell’albergo arriva  fino a garnì, voce francese part. pass. di garnir, arredare. Albergo che offre i servizi di pernottamento in camera ammobiliata e prima colazione, di norma escludendo il servizio di ristorante, in Francia vengono detti  meublè. La parola meublè, anche questa voce francese dal participio passato di meubler, ammobiliare, derivato di meuble, mobile.  Ammobiliato; in Italia la parola  è talora adoperata per designare gli alberghi che, soprattutto in luoghi di villeggiatura, non hanno ristorante, ma dispongono soltanto di stanze o appartamentini con mobilia e biancheria, con un servizio molto ridotto. Il nome hotel, invece, deriva dal francese hotel,  a sua volta derivato dal latino hospitale.  La parola latina  hospitale indicava il luogo in cui si ospitavano i forestieri. Nel Basso Medioevo pellegrini e malati potevano trovare ricovero presso le fraternite, forme di associazionismo laicale con scopi originariamente devozionali. Sin dalle loro origini le fraternite svolsero compiti assistenziali, accogliendo persone disagiate a diversi livelli: forestieri, indigenti, moribondi, vedove, trovatelli e infermi. Questo modello di intervento sociale rimase intatto nelle diverse città italiane fino al Quattrocento, quando gli ospedali cominciarono ad assumere specializzazioni più specifiche.  Dopo la peste nera del 1348 andò delineandosi la consapevolezza che le tradizionali istituzioni caritatevoli in ambito urbano fossero inadeguate a soddisfare le esigenze di una società fortemente destabilizzata, e ad affrontare le emergenze sanitarie di quel periodo. Queste condizioni stimolarono le classi dirigenti a promuovere nuove iniziative ospedaliere nelle città dell’Italia centro-settentrionale, con l’intento di aiutare i ceti più deboli. Nel periodo a cavallo tra Medioevo ed età moderna si affermarono due diverse modalità di intervento socio-assistenziale: il modello nordeuropeo e quello sudeuropeo. Il primo, sviluppatosi tra 1520 e il 1560, legò fortemente il soccorso di poveri e bisognosi alla Riforma protestante, si ispirò alla sua etica, e coinvolse le strutture governative nella gestione dei servizi assistenziali. Il secondo, soprattutto italiano, migliorò i servizi già preesistenti ed ereditati dal periodo medievale, e cominciò a delinearsi già verso la metà del Quattrocento. A quel punto le iniziative assistenziali cominciarono a caratterizzarsi per una maggiore specializzazione delle funzioni ospedaliere in senso medico. L’ospedale di allora, era il luogo ideale per la formazione e l’avanzamento di carriera dei medici. Infatti, qui essi potevano applicare le pratiche che avevano appreso durante gli studi universitari soltanto a livello teorico. L’ospedale poi garantiva ai medici una retribuzione molto più sicura di quella che potevano ricavare dall’esercizio della propria professione a livello privato. Per spiegare i vari lemmi  vi illustro il termine locanda che  deriva dal latino locare che tradotto significa allocare, affittare. Il gerundivo di locare, ovvero locandus al femminile singolare diventa locanda, ossia che è da affittare. Il senso odierno del termine è più ampio: casa in cui i forestieri alloggiano, pagando una data somma. Posto in cui alloggiare durante la notte.

Favria, 26.01.2024 Giorgio Cortese

Buona giornata. Meglio aggiungere vita ai giorni che non giorni alla vita. Felice venerdì.

Auschwitz e il futuro della memoria

Shoah è un vocabolo ebraico che significa catastrofe, distruzione. Esso è sempre più utilizzato per definire ciò che accadde agli ebrei d’Europa dalla metà degli anni Trenta al 1945 e in particolar modo nel quadriennio finale, caratterizzato dall’attuazione del progetto di sistematica uccisione dell’intera popolazione ebraica.  Tale progetto venne deciso e concretizzato dal Terzo Reich nel corso della Seconda guerra mondiale e venne attuato con la collaborazione parziale o totale dei governi o dei movimenti politici di altri Stati; venne interrotto dalla vittoria militare dell’Alleanza degli Stati antifascisti e dei movimenti di Resistenza. Se invece i vincitori fossero stati la Germania nazista, l’Italia fascista, la Francia di Vichy, la Croazia degli ustascia, Ungheria, non un solo ebreo sarebbe rimasto in vita nei territori controllati da questi.  Ricordarsi di quelle vittime serve a mantenere memoria delle loro esistenze e del perché esse vennero troncate. E la memoria di questo passato serve ad aiutarci a costruire il futuro. Eppure, in questi vent’anni caratterizzati dall’istituzione del Giorno della Memoria, in Italia dal 20 luglio del 2000, abbiamo assistito a una vera e propria esaltazione del ruolo del sopravvissuto che è stato spesso chiamato a salvaguardare la coscienza pubblica, ricorrendo al ricordo di un trauma e di un dolore sempre vivi. Eletto dai media, dalle istituzioni e dal pubblico ad attore privilegiato di un’immane tragedia, paradossalmente, ha favorito la diffusione di una storia intima, frammentata, episodica seppur drammatica, poco idonea a corrispondere alla necessità di rappresentazione di un quadro storico più generale e complesso. Questo modo di fare memoria è diventato così ricorrente da far pensare a molti che il dramma dello sterminio possa essere dimenticato, fino a scomparire dai libri di storia, quando l’ultimo sopravvissuto non sarà più in vita. La storia di milioni di vittime innocenti potrebbe allora risolversi in un’alzata di spalle, perché la storia lascia dietro di sé qualunque tragedia. Ecco il tema da riflettere, Auschwitz e il futuro della memoria, oggi assistiamo fin dall’inizio, la presenza di una rimozione frequente quando si parla di testimoni, costituita da un riferimento quasi sempre esclusivo alle vittime.  Secondo lo storico Raul Hilberg i protagonisti dell’Olocausto appartenevano a tre ordini: i carnefici, le vittime e gli spettatori; tutti testimoni di quell’evento. I carnefici erano sulla scena, fin dall’inizio: sapendo tutto, perfino il perché, eppure, nella memoria collettiva proprio loro sono un amalgama informe, tutt’al più confusi nel concetto di uomini comuni o in quello filosofico di Hannah Arendt definì la banalità del male. Quanto agli spettatori, sappiamo da tempo che hanno visto compiere il genocidio, e che molti di loro non hanno fatto nulla o poco, di quanto potessero fare. Fermiamoci a riflettere sulle forme di memoria degli anni Ottanta e Novanta e quelle del nuovo millennio, dove il testimone è stato visto come maestro di vita e la figura del sopravvissuto come “Testimonial”, e l’attenzione nei confronti dei pochi sopravvissuti è andata via via crescendo, travalicando i contorni della loro specificità in quanto reduci dei campi nazisti. La fine dell’ultima generazione delle vittime sarà dunque lo spartiacque della nuova stagione della storia della memoria della Shoah? La frenesia generale di accaparrarsi le ultime parole dei testimoni vedrà ancora il prevalere di un sapere ricavabile dalla narrazione scritta o registrata a svantaggio della ricerca storica, sempre viva e capace di ricondurre al presente le cause del genocidio e le esperienze di vita dei deportati. Tra l’oblio dell’evento e la valorizzazione della ricerca, sembra così farsi spazio un’alternativa che è quella che ha archiviato la tragedia dell’Olocausto, l’ha fatta propria, ma solo con il carico di emozioni e commozione destinate a portarlo assai lontano dal ricorso a una crescente consapevolezza del passato. Per questo dobbiamo riflettere sul modo in cui oggi maneggiamo la memoria e ricorriamo alla storia, per non arrivare a imbalsamare la sofferenza degli ultimi testimoni e di sei milioni di ebrei vittime della ferocia nazista.

Favria 27 gennaio 2024 Giorgio Cortese

Buona giornata. L’Olocausto è una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria. Felice sabato.

Cumanae testae.

Le  cumanae testae o cumanae patellae erano tegami in ceramica dal fondo rosso che consentivano cotture lunghissime senza il rischio di far attaccare i cibi alle pareti. Noi le conosciamo grazie alle fonti scritte del I secolo d.C., in particolare dagli Epigrammi del poeta Marziale (XIV, epigramma 114) e soprattutto dalle ricette di Apicio, lo chef più famoso della Roma imperiale. Quest’ultimo cita le cumanae testae a proposito della preparazione della tyropatina, un budino di formaggio e miele simile alla crème caramel, che richiedeva appunto una lenta cottura. Apicio nomina ancora pentole e padelle prodotte a Cuma per la cottura delle acciughe e per la preparazione della conchicla, una crema di piselli con uova sode e spezie. Qualità. Proprio a Cuma, gli archeologi hanno rinvenuto una discarica di 80mila  frammenti di tegami a vernice rossa: si tratta di prodotti di scarto, manufatti ritenuti imperfetti e che andavano gettati. Gli artigiani quindi erano molto attenti a non mettere in circolazione ceramiche di bassa qualità, a conferma della buona reputazione di cui godevano le imprese cumane.

Favria, 28.01.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Chi non è padrone di sé finisce servo degli altri. Felice domenica

Avere l’argento vivo addosso

Quante volte, per definire un bambino particolarmente vivace e irrequieto, abbiamo detto che ha “l’argento vivo addosso”? Sicuramente moltissime, perché l’espressione è molto diffusa un po’ in tutta Italia. Ma da dove deriva soprattutto, che cosa si intende per “argento vivo”? Per comprenderlo dobbiamo tornare all’antica Roma e a Vitruvio, il quale nel “De architectura” definiva “argentum vivum” il mercurio, metallo che ha, appunto, il colore dell’argento.

Favria, 29.01.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Il saggio sa di essere stupido, è lo stupido invece che crede di essere saggio. Felice lunedì