Travestimento da orso. – “3,2,1,…Storia dello zero” . – L’incubo. – Obolo ed elemosina. – La gomma da masticare. – Camminare. – La bestia di Gevaudan. – Il Leone Alato…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Travestimento da orso. Nel Trecento, il ricordo dell’orso come simbolo del diavolo è

ormai molto lontano, come scrive Boccaccio nella nona novella, VIII giornata, del “Decameron”, quando il pittore Buffalmacco “grande e aitante della persona” per fare uno scherzo allo sciocco medico Simone fece in modo d’avere una di queste maschere che usavano in certi giochi che oggi non si fanno; e messosi indosso un “pillicion a rivescio”, rovescio, perché nel Medioevo il pelo della pelliccia si metteva all’interno per scaldare maggiormente, in quello s’acconciò in guisa che pareva pure un orso, se non che la maschera aveva viso di diavolo e era cornuta. Il travestimento di Buffalmacco si ispira proprio all’antica rappresentazione del demonio, sempre nero e sempre mezzo orso, e mezzo uomo
Favria, 9.04.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata.  Nella vita i problemi non finiscono mai, ma neanche le soluzioni. Felice  martedì.

“3,2,1,…Storia dello zero” Docente: Alberto Turigliatto

mercoledì  10 aprile 2024 ore 15,30 -17,00

Conferenze UNITRE’ di Cuorgnè presso ex chiesa della SS. Trinità –Via Milite Ignoto

L’invenzione di un simbolo per definire il nulla, l’assenza, è stata una delle grandi conquiste della matematica. Sconosciuto o negletto nelle civiltà antiche, detestato dalla filosofia classica, ma indispensabile negli algoritmi di calcolo, la sua introduzione o affermazione al  ruolo di “cifra” richiederanno una lunga gestazione. In chiusura accenno all’Intelligenza Artificiale argomento prossimo anno accademico. 

 L’incubo.

La parola deriva dal latino tardo incubus e indica una creatura demoniaca che, in base ad antiche credenze, incombe sopra a una persona nel sonno dandole un senso di soffocamento: da qui il termine ha assunto il significato corrente di “brutto sogno”. Gli incubi erano infatti attribuiti all’azione di questi esseri malefici che si appoggiavano al petto del dormiente. A partire dall’Ottocento, invece, si tende a dare la colpa del sonno disturbato alla cattiva digestione. Il significato della parola è quello di tenere in incubazione, sottoporre a incubazione; covare. La parola incubare è di origine latina  significa: “covare, giacere sopra” composto di in- ‘dentro’ e cubare, covare. Incubare in latino aveva un mucchio di significati, che scaturivano tutti da un’immagine semplice ed eloquente: il giacere sopra,  un giacere in modo penetrante da un letterale “covare dentro”. Secondo le  antiche superstizioni l’incubo era un demone. Poteva anche essere il demoniaco custode di un tesoro, che covava, ma soprattutto era il demone maschile, collega speculare del succubo, che nottetempo si univa carnalmente alle donne addormentate, giacendo con loro, stando sopra, o che più genericamente opprimeva, schiacciava i dormienti. Da questa malefica oppressione scaturisce il nostro incubo, il sogno intenso e terrificante. Curioso come invece la parola  succubo abbia preso tutt’altre vie, da essere  demoniaco in forma di donna che, secondo antiche superstizioni, aveva nella notte rapporti carnali con uomini. Per gli antichi latini la parola incubare significava anche dormire in un tempio per farsi arrivare rivelazioni o ispirazioni divine, o favori celesti.

Favria, 10.04.2024 Giorgio Cortese

Buona giornata. Se oggi non sappiamo da dove iniziare, iniziamo con un pensiero positivo ed un sorriso. Felice  mercoledì

Obolo ed elemosina.

La parola obolo oggi indica una piccola offerta di denaro, ma anticamente era una antica moneta greca. La parola obolo, dal greco obolos,  deriva dal greco obelos  spiedo. Prima di  essere una moneta, l’obolo fu un oggetto,  uno spiedo metallico, con funzione monetale, e anche un’unità di peso. L’obolo ha caratterizzato un’unità monetaria relativamente modesta: ne servivano sei per fare una dracma, e anche in tempi più vicini a noi, come durante il medioevo, ha continuato ad indicare la frazione di una moneta di maggior valore. Nel  Medioevo  venne chiamato obolo medaglia il mezzo denaro e poi il mezzo grosso.  Anche nelle monete dei principati franchi in Oriente, durante le crociate ebbero il nome di obolo. L’obolo di piccole dimensioni fu detto obolino.  Nella cultura greca, l’obolo era la moneta che veniva posta nella bocca dei defunti in pagamento a Caronte, perché ne traghettasse l’anima al di là dell’Acheronte. Obolo di San Pietro è il contributo dei fedeli al Papa perché questi possa sovvenire alle necessità della Chiesa. L’attuale organizzazione dell’Obolo, con la raccolta di denaro in quasi tutte le diocesi, risale al conte di Montalembert nel 1859. Nel 1860 si costituì l’Opera dell’Obolo di San Pietrosotto la direzione del cardinale vicario. L’Opera fu poi fusa con la Tesoreria apostolica, quindi dal 1926,  con l’amministrazione generale dei beni della Santa Sede.  L’obolo, pure a distanza di secoli, è riuscito a rimanere vivo nella lingua, come piccola quantità di denaro per antonomasia. Una piccola somma di denaro che accosta all’idea di carità: anche se l’obolo di per sé non implicherebbe l’offerta in elemosina, le due immagini tendono a convergere. La parola elemosina deriva dal greco eleemosyne, da eleeo, avere pietà, significa ciò che si dà per carità. L’elemosina dovrebbe significare qualcosa di bello, un atto generoso, pietoso verso chi si trova in una situazione di svantaggio. Un dono di carità, variamente mutuato dalla carità cristiana. Nel tempo però ha acquistato un connotato di sfumatura peggiore, corrotto con la varietà non sempre schietta e pura dei moventi e sentimenti che portano a fare l’elemosina. Sembra un atto compiuto storcendo il naso, per senso di colpa, per rinforzare senza impegno un’immagine di sé compassionevole, il più basso nella scala delle azioni benefiche. L’elemosina della realtà statistica dei fatti non aiuta i bisognosi verso il merito di una vita migliore. Questa consapevolezza sta alla base dei successi planetari del microcredito, e dei doni razionali, progettuali e organizzati che davvero migliorano la vita delle persone. Con questo non voglio assolutamente sminuire il gesto dell’elemosina che vuole sempre fare del bene.

Favria,  11.04.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno coltiviamo  sempre pensieri positivi, l’entusiasmo non può fiorire in un terreno pieno di paura.  Felice  giovedì.

La gomma da masticare.

Nell’antica Grecia si masticava la resina derivata dal lentisco, l’albero del mastice, così come, in Finlandia, la resina di betulla, mentre i Maya apprezzavano la resina della sapotiglia, Manilkara zapota. La moderna gomma da masticare, però, viene dagli Usa, era il 1870 e lo statunitense Thomas Adams, mentre lavorava alla creazione di gomma per le ruote dei carri, utilizzando il lattice estratto dalla sapotiglia creò palline masticabili. Formule. Toccò poi al farmacista John Colgan, nove anni dopo, produrre una gomma aromatizzata utilizzando gomma estratta dall’albero del balsamo e la polvere di pepsina, mentre nel 1880 William G. White riuscì a mettere a punto la formula con cui utilizzare lo sciroppo di glucosio da aromatizzare a piacimento. Con lui nasce il primo chewing gum all’olio di menta piperita, che ebbe un successo tale da portare White a essere eletto al Congresso Usa. In uno dei suoi viaggi, fece provare il chewing gum al re Edoardo VII in Inghilterra. Tra i padri del chewing gum non possono mancare i fratelli Frank e Henry Fleer. Il primo perfezionò la gomma da masticare morbida, quella per formare i palloncini, mentre il secondo si dedicò allo studio di una gomma resistente e asciutta, ricoperta di una sostanza solida, bianca e friabile.

Favria, 12.04.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita un atteggiamento davvero positivo può fare miracoli e aggiungere anni alla nostra vita, ali ai nostri passi, luce nei nostri occhi. Felice  venerdì.


Camminare.

Il mondo è da sempre abitato da camminatori. Uomini che percorrono a piedi piccoli tragitti o grandi distanze, mossi da desideri che vanno al di là della necessità di spostarsi da un luogo all’altro della Terra. Le motivazioni che nel corso della storia hanno spinto gli uomini a camminare sono in diverse e spesso rispecchiano le esigenze e le aspirazioni del periodo in cui hanno vissuto. I filosofi e i pensatori classici camminavano in cerca della verità, del confronto e dello scontro, bramosi di risposte. Lo facevano nelle città, per le strade, nelle piazze, in mezzo alla gente, a volte improvvisandosi mendicanti, a piedi scalzi, con una pezza di stoffa sulle spalle e una bisaccia semivuota. Un cammino a tratti impaziente, a tratti riflessivo, di chi voleva entrare in contatto con la realtà in tutta la sua forza, di chi desiderava scrutare, analizzare e interrogare. Curiosi ed esploratori desiderosi di conoscere culture e modi di pensare differenti, scoprivano terre lontane e luoghi selvaggi. Esploravano nuove mete, si informavano, leggevano, macinavano chilometri con un continuo desiderio di stupore e di avventura. Gli artisti, scrittori e musicisti viaggiavano invece per stimolare l’immaginazione, trovare la musa ispiratrice, comporre, creare, trasformare parole, forme e colori. Un esercizio quotidiano, necessario per la mente e per i sensi, da fare soli, immersi completamente nella natura, o in compagnia di amici e sconosciuti. Per alcuni, come  Jean-Jacques Rousseau  il camminare diventava un’esperienza educativa di grande valore. Oggi chi cammina conosce la libertà, può andare dove vuole, può dimenticare gli impegni,  e coltiva il silenzio e la solitudine, lontano dai rumori delle città, dai chiacchiericci e dalle notizie, ma anche dal brusio interiore con il quale giudichiamo noi stessi e gli altri. Chi  cammina sente il bisogno di rallentare, per scardinare la convinzione che la velocità aiuti a guadagnare tempo, quando invece è vivendo con lentezza che le giornate sembrano più lunghe, fanno vivere di più, in ogni secondo. Del cammino fanno parte l’incespicare e il cadere, gambe pesanti e spirito stanco, preoccupazioni e gioia, esperienze che pesano ed esperienze che incoraggiano. Poi intorno trovi sempre persone che ti rialzano e ti avvicinerai alla mèta. Camminare è importante e senza arrivare ai 3.000.000 di passi dell’amico Sergio, ovvero  2.400 km, senza arrivare a questo ogni giorno è importante camminare, partecipando ai gruppi di cammino. Camminando si apprende la vita, camminando si conoscono le persone, camminando si seguono le orme di altri passi. Concludo che otto chilometri vengono coperti con circa 13-15 mila passi, un’ora e mezza alla media di 5,5 km ora, e una passeggiata nella natura riceviamo molto di più di ciò che cerchiamo.

Favria, 13.04.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Non lasciamoci trascinare dalle paure della mente. Lasciamoci guidare dai sogni del nel nostro cuore. Felice  sabato

La bestia di Gevaudan

La prima apparizione della bestia, come poi venne chiamata, fu nel marzo del 1764, fuori dal villaggio di Langogne, nella zona del Gévaudan, Linguadoca, nel sud della Francia. Una giovanissima pastorella che stava accudendo la sua mandria di buoi fu improvvisamente aggredita da una creatura mostruosa, la cui apparizione mise in fuga i cani. A salvarla furono proprio i buoi, che per difendere le femmine si avventarono contro l’aggressore, mettendolo in fuga. Tornata al villaggio la ragazza raccontò il terrificante episodio, descrivendo l’animale come un grosso lupo dalla strana coda, con la peluria nera e rossiccia. Ma nessuno aveva mai visto un animale con quelle fattezze e la fanciulla non venne creduta. Qualche tempo dopo, il 30 giugno, un’altra ragazzina, la 14enne Jeanne Boulet, fu aggredita dalla misteriosa bestia. La giovane fu meno fortunata e il suo corpo mutilato, sgozzato e parzialmente divorato fu trovato in un campo. In realtà l’episodio, per quanto drammatico, non suscitò particolare scalpore, poiché gli attacchi dei lupi erano molto frequenti in quella zona. Ma quelle due aggressioni furono solo l’inizio di una lunga serie, che in poche settimane gettò la regione nel terrore. Successivamente la bestia uccise una ragazza 15enne, poi un ragazzo della stessa età, e poi ancora una donna e due ragazzini. Nell’agosto dello stesso anno una ragazza scampò miracolosamente all’assalto della creatura, descrivendola molto più grossa di un comune lupo. La bestia colpiva in un raggio d’azione molto ampio, di circa 90 chilometri, ma sempre circoscritto nella regione del Gévaudan. Inafferrabile e indescrivibile In circa tre anni la bestia aggredì, secondo i documenti del tempo, 240 persone, quasi tutte donne e bambini, le sue prede preferite. Più di un terzo delle vittime trovò la morte, le altre sopravvissero all’attacco riportando ferite ࣅsiche e soprattutto psicologiche. La bestia usava sempre la stessa modalità omicida, sgozzando e straziando le vittime, per poi divorarle in parte. Gli archivi delle parrocchie riferivano di corpi dilaniati da gigantesche zanne. I sopravvissuti, chiamati a descrivere la bestia, parlavano di un enorme animale dall’aspetto di un canide, che attaccava da solo e in pieno giorno, cosa insolita per un lupo che abitualmente attacca col branco. Gli abitanti del villaggio da tempo avevano smesso di mandare in giro da soli ragazzi e donne, che venivano accompagnati da uno o più uomini armati di randelli e forconi. Cosa però non sempre possibile, poiché gli uomini erano impegnati ogni giorno nei campi. Furono allora organizzate diverse battute di caccia dall’amministratore della diocesi di Mende, Étienne Lafont, con la speranza di abbattere la bestia, ma i risultati furono nulli: il misterioso animale trovava le sue vittime ma non si lasciava trovare. La realtà è che le varie descrizioni non corrispondevano e la fantasia spesso prevaleva sulla realtà. La superstizione si era impadronita della gente del posto, che tirava in ballo persino il demonio, capro espiatorio in tutti i casi inspiegabili.Molti pensarono che la bestia fosse un  flagello divino, per punire le colpe della popolazione, e anche questa era un’opinione popolare piuttosto diffusa in caso di calamità. Perciò il Vescovo di Mende lanciò un invito alla preghiera e alla penitenza, ma chi sperava che fosse questa la soluzione, rimase deluso. Lafont, constatato che semplici cacciatori e volontari non potevano avere ragione di un simile mostro, fece ricorso al conte di Montcan, governatore in Linguadoca, che a sua volta chiese consiglio a Parigi. A questo punto, il re Luigi XV decise di intervenire personalmente, inviando un’unità di 57 dragoni agli ordini del capitano Jean Boulanger Duhamel. La strategia messa a punto dal capitano era semplice: cacciare e abbattere ogni lupo che vivesse nell’area delle aggressioni. Fu una strage meticolosa: decine di lupi furono sterminati, senza che gli assalti solitari ai malcapitati cessassero. Duhamel, che doveva rispondere direttamente al re del suo operato, le pensò tutte: disseminò i boschi di carcasse avvelenate e fece vestire da donna i suoi militari più coraggiosi, che si aggirarono ovunque, cercando di attirare l’attenzione della bestia, ma senza risultati. Ci voleva il cacciatore del re Finché, il 5 ottobre del 1764 la bestia venne finalmente avvistata presso il castello di Busset, mentre si accingeva ad assalire un pastorello. Colpita da alcuni colpi di fucile, l’animale riuscì ad alzarsi e ad allontanarsi zoppicando. I militari di Duhamel si misero alla ricerca dell’animale ferito, ma senza risultato. Ancora una volta era riuscito a dileguarsi, e due giorni dopo venne trovata, nelle vicinanze, l’ennesima vittima, decapitata, la cui testa fu rinvenuta solo la settimana successiva. L’abilità della bestia e l’incapacità di soldati e cacciatori in breve diffusero fra la gente l’idea che l’animale fosse un essere soprannaturale. Secondo Duhamel, invece, si trattava di un ibrido, simile a un lupo ma grosso quanto un vitello. Nel gennaio del 1765 un gruppo di pastorelli venne aggredito: la bestia riuscì ad afferrare uno dei bambini,  e a trascinarlo via con sé. Gli altri, però, dopo aver tentato di scappare spaventati, furono istigati da uno di loro, Jacques André Portefaix, ad aiutare lo sventurato compagno. Preso coraggio, i pastorelli, armati di bastoni, riuscirono a scacciare l’animale, salvando il loro amico. Portefaix non solo fu acclamato come eroe dai villaggi del posto, ma ricevette persino un premio dal re, che cominciava a prendere a cuore il problema del Gévaudan. Gli attacchi del mostro però non accennarono a diminuire, divennero anzi più frequenti e addirittura più audaci: ora non si limitava ad aggredire persone isolate, ma iniziava a spostarsi verso i villaggi, avvicinandosi persino alle case. Proprio in uno di questi attacchi, nel marzo del 1765, avvenne uno degli episodi più drammatici. La bestia penetrò nel cortile di un’abitazione e aggredì una bambina. Sua madre, Jeanne Jouve, sentite le sue urla, corse in soccorso della figlia, ma l’animale agguantò il fratellino, JeanPierre di 6 anni. Jeanne si lanciò sull’animale per salvare il piccolo, ma fu graffiata e morsa. Solo l’arrivo dei ࣅgli maggiori della donna riuscì a far fuggire la belva. Come ricompensa per il suo atto eroico, Luigi XV assegnò a Jeanne una somma di 300 lire, ma il piccolo Jean-Pierre morì 5 giorni dopo per le ferite subite. Ci andarono di mezzo lupi incolpevoli Ormai la gente non si sentiva al sicuro neanche nelle proprie case. A ciò si aggiungeva il malcontento verso i soldati del re, colpevoli di non aver mai pagato vitto e alloggio durante il loro soggiorno, oltre ai danni procurati ai raccolti con le loro infruttuose battute di caccia. Nel frattempo re Luigi XV, constatando il fallimento di Duhamel, richiamò i militari e inviò nel Gévaudan uno dei suoi uomini più fidati: il nobile bretone Jean Charles d’Enneval, considerato il più grande cacciatore di Francia; era un tentativo estremo, un uomo solo ma davvero esperto poteva far meglio di un reggimento di pasticcioni. L’arrivo di D’Enneval fu acclamato dagli abitanti dei villaggi del Gévaudan e subito si organizzarono diverse battute di caccia, nel corso delle quali furono abbattuti decine di lupi incolpevoli. In quei mesi di alacre caccia al mostro, il bretone rivendicò più volte l’uccisione della bestia, esponendone le pelli nei vari villaggi della regione. Tuttavia gli assalti non cessavano e la gente del posto dovette rassegnarsi a convivere col terrore. Le vittime continuavano ad aumentare al punto che il re impose ai curati di campagna di non riportare più il numero dei morti nei registri. Successivamente, il sovrano esonerò anche d’Enneval da questo incarico, inviando nel Gévaudan il “Gran portatore dell’archibugio del re”, ossia il capo dei guardacaccia reali, il volonteroso François d’Antoine. Questi, accompagnato dal figlio e da dodici tra i migliori guardacaccia di Francia, era fermamente convinto che la bestia non fosse un comune lupo, ma forse un incrocio tra due canidi. Nell’agosto del 1766 il misterioso predatore aggredì Marie-Jeanne Valet, perpetua del parroco di Paulhac: a salvarla fu il suo istinto di sopravvivenza e il pugnale dato ormai da tempo in dotazione a tutti gli abitanti della regione che lo richiedessero La donna riuscì a infilzare la bestia, che dopo spaventose grida di dolore scappò nel bosco. Oggi una statua nel villaggio di Auvers ricorda l’episodio. Fine dell’incubo. O no? Questa nuova aggressione, con la descrizione della bestia fatta da Marie-Jeanne, sembrava confermare la teoria di d’Antoine sull’ibrido. Infatti, nel settembre successivo il cacciatore avvistò un lupo dalla stazza formidabile, che riuscì ad abbattere solo con diverse fucilate. L’animale era lungo quasi due metri, alto al garrese 86 centimetri e pesante oltre 65 chili. Persino alcuni dei sopravvissuti riconobbero in quel lupo l’autore degli assalti. D’Antoine venne acclamato come un eroe e la gente del Gévaudan festeggiò la fine di un incubo. Il formidabile cacciatore imbalsamò il lupo e lo portò al re, ma incaricò suo figlio di restare nei boschi del Gévaudan: infatti, erano stati avvistati la compagna dell’animale ucciso e alcuni cuccioli. Furono così cacciati e abbattuti anche loro. Luigi XV dedicò a d’Antoine onori reali e lo ricoprì letteralmente d’oro. La carcassa fu imbalsamata ed esposta al Museo Nazionale di Parigi fino agli inizi del XX secolo, quando perse il pelo e fu gettata via. Non solo il Gévaudan ma tutta la Francia tirava un sospiro di sollievo per la morte di quello che tutti definivano “il flagello di Dio”. Ma ben presto si scoprì che ancora una volta la soluzione del problema era stata un’illusione. L’11 dicembre dello stesso anno la bestia tornò a colpire, uccidendo una bambina di 11 anni. Il Gévaudan ripiombò nel terrore, fino a quando non entrò in scena una figura ancora oggi avvolta dal mistero: Jean Chastel. In realtà quest’uomo, oste e cacciatore, aveva già partecipato ad alcune battute di caccia organizzate da d’Antoine, con il quale si era scontrato, venendo accusato di ostacolare la caccia alla bestia con false informazioni. Per questo, lui e i suoi figli erano stati arrestati e rilasciati solo dopo la partenza del celebre cacciatore. Alle battute di caccia organizzate nei mesi successivi partecipò lo stesso Chastel e nel giugno del 1767 fu proprio lui a incontrare la bestia. L’oste riuscì a ucciderla con pallottole d’argento ricavate da alcune medagliette della Vergine Maria, mentre l’animale, stranamente docile, gli andava incontro. Anche in questo caso si trattava di un lupo dall’aspetto gigantesco: sebbene un po’ più piccolo di quello ucciso da d’Antoine, presentava la muscolatura anteriore deformata e la mascella molto sviluppata. Successivamente si fecero le più svariate ipotesi sulla natura di questo incredibile animale. La teoria prevalente era che fosse l’incrocio tra un cane, probabilmente un molosso, e un lupo. Altri invece sostenevano che si trattasse di un lupo affetto da acromegalia, una malattia, con qualche caso anche umano, che ingigantisce arti e volto. Chastel e i suoi figli imbalsamarono malamente l’animale e lo portarono al cospetto del re, che però vedendolo in avanzato stato di decomposizione, e probabilmente con poca voglia di sborsare una nuova ricompensa, cacciò via i tre cacciatori, dando ordine di distruggere la carcassa. Per il sovrano la vera bestia era stata uccisa da d’Antoine. Tuttavia da quel momento cessarono gli attacchi nel Gévaudan, tanto che la gente del posto considerò Chastel il vero uccisore della bestia, dedicandogli una lapide come riconoscimento. Si concluse così questa inquietante vicenda, che per molti studiosi resta in gran parte misteriosa. Ovviamente escludendo tesi soprannaturali, come quella del licantropo, basata sul fatto che Chastel utilizzò proiettili d’argento, o di altre creature mostruose, molti aspetti in questa storia non tornano. Da un mistero nasce una leggenda Non convince fino in fondo l’esistenza di lupi così grossi, come quelli uccisi da d’Antoine e da Chastel: probabilmente si trattava di ibridi, nati dall’unione di un cane e un lupo, capaci di suggestionare l’immaginario popolare. A oggi la teoria più accettata è quella di più animali antropofagi, giganteschi canidi che cacciavano in solitudine. Quindi si dovrebbe parlare non di mostro ma di mostri del Gévaudan. Secondo altre ipotesi successive, basate su testimonianze, resoconti e cronache dell’epoca, la bestia non sarebbe stata un lupo, ma un’altra specie capitata chissà come nel Gévaudan, come una iena, o addirittura un leone -fuggito dalla gabbia di un circo itinerante dell’epoca o da uno dei tanti serragli nobiliari diffusi fra gli aristocratici più eccentrici,  poiché i sopravvissuti agli attacchi parlavano di un animale dal pelo corto sul corpo e più folto fra testa e schiena. Ma l’ipotesi che si trattasse di un animale esotico e non di un lupo aprirebbe scenari ben più inquietanti, come quello immaginato dalle fantasie più ardite, secondo le quali la bestia non cacciava spinta dalla fame, infatti divorava solo in parte le sue vittime, preferendo dilaniarne i corpi, ma perché addestrata da qualcuno a uccidere, forse un nobile annoiato: un serial killer protetto dal titolo aristocratico. Ma probabilmente questa idea era legata al malcontento popolare verso i nobili, in un periodo che di lì a poco avrebbe portato la rivoluzione in Francia. È evidentemente un mistero irrisolto, e come spesso accade dal mistero nacque la leggenda del mostro, che si fece beffe perfino del re di Francia Luigi XV. Secondo alcuni studiosi, per far chiarezza sulle stragi del Gévaudan, sarebbe importante soffermarsi sul contesto storico. La ricercatrice Nicole Castan, dell’università di Tolosa, studiando la media annua di omicidi nella Linguadoca in quel periodo, ritiene che buona parte di essi non sarebbe opera della bestia. Nel tardo XVIII secolo, infatti, le campagne di quella regione erano infestate non solo da lupi, ma anche da banditi. Quindi rapine, rapimenti e agguati erano all’ordine del giorno. Secondo la ricercatrice cadaveri abbandonati dai briganti sarebbero poi stati parzialmente divorati dagli animali dei boschi. Quindi sarebbe stata la fobia generale ad attribuire alla fantomatica bestia anche omicidi opera di criminali comuni. Altri invece ritengono che la vicenda della bestia sia stata ingigantita per motivi politici: la nobiltà francese avrebbe voluto spostare l’attenzione pubblica sugli omicidi del Gévaudan, così da far passare in sordina la sconfitta della Francia nella Guerra dei Sette Anni, 1756-1763.

Favria, 14.04.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno siamo consapevoli, grati, positivi e gentili, siamo noi stessi. Felice  domenica.

Il Leone Alato.

Il Leone Alato è uno dei grandi simboli della civiltà europea. Ha sventolato da Bergamo a Cipro, da Udine a Lepanto. È vero che a Lissa i marinai asburgici gridarono “Viva San Marco”: erano quasi tutti veneti e giuliani. Eppure le due bandiere, il leone di San Marco e il tricolore italiano, possono stare insieme. Si può essere veneziani, veneti, italiani, europei; proprio come Ciampi, cui la sua città, Livorno, all’epoca amministrata dai 5 Stelle, rifiutò di intitolare una rotonda, si sentiva livornese, toscano, italiano, europeo. Ma c’è una storia veneziana che lo prova. Nel 1848 l’insurrezione parte dall’Arsenale. La guarnigione che sorvegliava gli arsenalotti era composta per metà da soldati slavi, e per metà da veneti di terraferma, che non amavano i veneziani, i quali li avevano tenuti sotto il tallone per secoli. Il capo era un croato, tale Marinovich, uomo spietato: ogni volta che gli operai chiedevano un aumento della loro magra paga, rispondeva: “Forse la prossima settimana”. Ora gli operai fanno prigioniero Marinovich, lui tenta di scappare ma viene pugnalato a morte, chiede un prete, e gli viene risposto: “Forse la prossima settimana». A quel punto la guarnigione ha l’ordine di aprire il fuoco, ma avviene il miracolo: veneti rifiutano di sparare su altri veneti; italiani evitano di colpire altri italiani. La folla libera dal carcere i patrioti Niccolò Tommaseo e Daniele Manin. Risorge la Serenissima, ma come bandiera non viene scelto il glorioso vessillo di San Marco, bensì il tricolore italiano, con un leone in alto a destra. Segno che le due bandiere e le due patrie possono e debbono convivere. E che il legame con la città, il campanile, il dialetto, non è incompatibile con quello che ci unisce alla madrepatria comune, l’Italia.

Favria, 15.04.2024 Giorgio Cortese

Buona giornata. Il solo Tempio veramente sacro è il mondo degli uomini uniti dall’amore. Felice  lunedì

Il sangue è una vita, Condividilo! Il sangue viene rigenerato dopo pochi mesi, ma la vita no, per favore dona il tuo sangue. Vi invitiamo a donare il sangue per una ragione che si chiama vita.  vita. Lo scopo della vita di noi essere umani è quello di accendere una luce di speranza nei nostri simili anche donando il sangue. Ti aspettiamo a FAVRIA MERCOLEDI’ 17 APRILE  2024, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te.  Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio