Un millennio in pillole.. – Il Conte Rosso! – Il periscopio! – Le radici. – La stagione dei Bogre! – La forchetta. – La forchetta – XXIV Maggio, il calvario degli Alpini… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Un millennio in pillole…
Viviamo ormai in un mondo all’insegna della guerra dei codici informatici, con l’intelligenza

artificiale ancora più pervasiva e la lotta al cambiamento climatico che diventerà una chiamata alle armi obbligatoria. Prima di tutto però serve riscrivere il contratto sociale tra governi, aziende e cittadini, per capire questi anni ruggenti del XXI secolo andiamo a vedere cosa è successo negli anni venti dei secoli passati nell’ultimo millennio, per andare avanti nel futuro e capire quali scelte migliori, ricordiamoci della storia passata. Gli anni Venti dell’XI secolo sono per l’Europa cristiana un periodo di transizione. La prima parte del decennio è dominata dall’intesa tra Enrico II, imperatore del Sacro Romano Impero Germanico, e il Papa Benedetto VIII. Nel 1022 respingono insieme con le armi la pressione su Roma dei bizantini, padroni dell’Italia meridionale, e presiedono a Pavia un sinodo in cui vengono emanate norme contrarie al matrimonio degli ecclesiastici. Però nel 1024 muoiono. Con Enrico II, detto il Santo poiché sarà canonizzato nel 1146, finisce la dinastia degli Ottoni. Gli subentra Corrado II, primo esponente della dinastia Salica, che fatica un po’ a imporsi in Italia. Prima di essere incoronato imperatore a Roma da Giovanni XIX nel 1027, Corrado II riceve la corona d’Italia nel 1026 dall’arcivescovo di Milano Ariberto d’Intimiano, personalità che avrà un ruolo importante nell’estendere il potere della diocesi. Il Concordato di Worms, stipulato il 23 settembre 1122 nella città tedesca tra l’imperatore Enrico V e il papa Callisto II, è l’evento principale negli anni Venti del XII secolo. L’intesa pone fine alla lotta per le investiture, che riguarda il conferimento delle cariche di vescovo e di abate. Al Papa viene riconosciuta la priorità nell’investitura spirituale, ma si decide che in Germania, non in Italia e nel Ducato di Borgogna, essa sia preceduta dall’investitura relativa ai diritti feudali da parte dell’imperatore. Così il potere pontificio si assicura una larga autonomia. Non c’è pace però per l’Impero né per la Chiesa. Lotario II, successore di Enrico V, deve affrontare nel 1127 la ribellione del futuro Corrado III, che finirà per succedergli fondando la dinastia Hohenstaufen. Nel 1130, alla morte di Onorio II, successore di Callisto II, saranno eletti due Papi rivali, Innocenzo II e Anacleto II: il primo prevarrà solo nel 1137. Figure eccezionali segnano gli anni Venti del XIII secolo. Innanzitutto Francesco d’Assisi. Reduce dal viaggio in Medio Oriente che lo aveva visto incontrare il sultano al-Kamil, nel 1223 ottiene l’approvazione pontificia della seconda Regola del suo ordine religioso, meno rigorosa della prima, e realizza il primo presepe a Greccio in provincia di Rieti. Nel 1224 riceve le stigmate e muore nel 1226. In quel periodo sul trono imperiale c’è il carismatico Federico II di Svevia, lo Stupor Mundi, che nel 1228 è scomunicato dal papa Gregorio IX perché non si decide a intraprendere una crociata. Allora Federico II parte per la Terrasanta e qui si accorda pacificamente con il sultano al-Kamil, ottiene che Gerusalemme, di cui s’incorona re nel 1229, sia consegnata ai cristiani, ma priva di mura e indifendibile. In Asia muore nel 1227 Gengis Khan, sovrano dei mongoli che ha conquistato un impero immenso. Nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321 muore a Ravenna, in esilio, Dante Alighieri. Nel 1323 viene canonizzato Tommaso d’Aquino. Nel 1324 il filosofo Marsilio da Padova pubblica il Defensor Pacis, in cui sostiene che il potere dei sovrani non deriva da Dio, ma dal popolo: un cambio totale di paradigma. Sono anni di contrasti, in un’Europa sofferente per gli strascichi della grande carestia che l’ha colpita tra il 1315 e il 1317. In Germania prevale Ludovico il Bavaro, che il Papa francese Giovanni XXII, residente ad Avignone, si rifiuta di incoronare imperatore. Il tedesco marcia su Roma e nel 1328 riceve la corona imperiale come Ludovico IV dal capitano del popolo Giacomo Sciarra Colonna. Poi dichiara il Papa eretico e fa eleggere al suo posto Niccolò V. Quest’ultimo, scomunicato nel 1329, si sottomette a Giovanni XXII, ma il conflitto tra Ludovico IV e il papato resta aperto. La Chiesa ha risolto il Grande scisma d’Occidente nel 1417, ma gli anni Venti del XV secolo sono turbolenti. Nella guerra dei Cento anni tra inglesi e francesi, Enrico V d’Inghilterra si è imposto come reggente di Francia ed erede del re Carlo VI di Valois. I due monarchi muoiono però nel 1422 e si riapre il conflitto per il trono di Francia tra i figli: l’inglese Enrico VI (ancora in fasce) e il francese Carlo VII. L’Inghilterra sembra prevalere, ma nel 1429 scende in campo la giovane contadina Giovanna d’Arco, che si dice ispirata da forze divine e guida le truppe di Carlo VII che tolgono l’assedio alla città di Orléans. Giovanna sarà arsa viva dagli inglesi nel 1431, ma la sua azione avvia la riscossa vittoriosa della Francia. In Boemia si combatte la crociata hussita, con cui i cattolici cercano invano di schiacciare gli eretici cechi seguaci del teologo Jan Hus, finito sul rogo nel 1415. Negli anni Venti nel XVI secolo esplode il contrasto tra la Chiesa cattolica e Martin Lutero, che viene scomunicato da papa Leone X nel 1521. In Germania scoppiano violente rivolte mentre in Italia si affrontano i due sovrani più potenti d’Europa: il re di Francia, Francesco I, e l’imperatore germanico Carlo V, che è anche re di Spagna. Vinta la battaglia di Pavia nel 1525, Carlo V diventa padrone della penisola, ha condannato Lutero, ma entra in dissidio con il papa Clemente VII e nel 1527 invia le sue truppe nella città eterna. Ne consegue il sacco di Roma, con atrocità che lo stesso sovrano condanna. Nel 1521 Hernán Cortés ha conquistato il Messico in nome di Carlo V e nel 1522 sono tornati in Spagna i superstiti della spedizione guidata dal portoghese Ferdinando Magellano, ucciso nelle attuali Filippine nel 1521, che ha circumnavigato per la prima volta il pianeta. Scoppiata nel 1618, la guerra dei Trent’anni, che devasterà la Germania in modo spaventoso, comincia a svilupparsi negli anni Venti del XVII secolo. Nel 1620 le forze dell’imperatore cattolico Ferdinando II d’Asburgo vincono la battaglia della Montagna Bianca e sottomettono la Boemia protestante. Poi nel 1625 interviene a favore dei luterani il re Cristiano IV della Danimarca, che però viene battuto dalle armate imperiali, che ne invadono il Paese e lo costringono a ritirarsi dal conflitto nel 1629. La guerra proseguirà fino al 1648. Mentre gli eserciti combattono, progredisce la scienza: nel 1623 il matematico tedesco Wilhelm Schickard costruisce la prima calcolatrice; nel 1628 il medico inglese William Harvey descrive la circolazione sanguigna. Intanto nel 1620 sono arrivati in America i Padri pellegrini della nave Mayflower, progenitori degli Stati Uniti. Lo zar Pietro I il Grande coglie i frutti del suo lungo regno negli anni Venti del XVIII secolo. Nel 1721 si chiude con la vittoria sulla Svezia la Grande guerra del Nord e le forze russe avviano una campagna in Persia che porta altre conquiste. Nello stesso anno Pietro I si proclama imperatore. Quando il sovrano muore, nel 1725, il Paese è ormai una potenza di prim’ordine, proiettata su due continenti. Sempre nel 1725 l’esploratore danese Vitus Bering, al servizio della Russia, avvia una spedizione che si spinge fino alla penisola della Kamchatka, estremità orientale della Siberia. Più tardi giungerà a sbarcare sulle coste dell’Alaska: darà il nome allo stretto che divide Asia e America. Tra il 1700 e il 1722 a Marsiglia e in Provenza infuria l’ultima grande epidemia di peste in Europa, con circa 120 mila morti. Nel 1726 esce il romanzo di Jonathan Swift I viaggi di Gulliver. La morte di Napoleone, il 5 maggio 1821, apre gli anni Venti del XIX. secolo con i primi segnali di crisi dell’assetto imposto all’Europa dalle potenze restauratrici che avevano sconfitto Bonaparte. C’è il triennio liberale in Spagna dal1820-23, concluso però con il trionfo della reazione. Ci sono i moti carbonari repressi in Italia, nel Regno delle Due Sicilie e in Piemonte. Nel 1821 comincia la guerra d’indipendenza della Grecia contro i turchi, decisa dall’intervento franco-russo-britannico che annienta la flotta ottomana a Navarino nel 1827. In Sudamerica prosegue l’azione di Simón Bolivár contro il dominio spagnolo: l’ultima tappa è la liberazione del Perù nel 1824. Anche il Brasile, nel 1822, diventa indipendente dal Portogallo. E nel 1823 il presidente degli Stati Uniti James Monroe enuncia la dottrina per cui le potenze europee non devono ingerirsi negli affari americani. La Prima guerra mondiale termina nel 1918, ma le sue conseguenze s’irradiano negli anni Venti del XX secolo. In Italia nel 1922 va al governo Benito Mussolini, che nel giro di pochi anni impone la dittatura. In Unione Sovietica Iosif Stalin prevale nella lotta per la successione a Vladimir Lenin, morto nel 1924, e instaura un rigido dispotismo personale. In Germania fatica a consolidarsi la Repubblica di Weimar, obbligata a pagare ingenti danni di guerra e colpita dall’iperinflazione tra il 1921 e il 1923. La seconda metà del decennio vede una ripresa economica confortante, ma il 1929 stronca ogni speranza. Il crollo di Wall Street si riflette anche in Europa, con una crisi devastante che favorirà l’ascesa di Adolf Hitler. In Urss Stalin decide la collettivizzazione delle terre, espropriando e deportando i contadini più operosi: ne conseguirà pochi anni dopo una disastrosa carestia. Adesso il Covid-19 ha travolto l’umanità e cancellato un’illusione: le pandemie non appartengono al passato. Anzi. Sars-CoV-2 si è diffuso con inedita rapidità proprio per i tratti del mondo attuale: connesso, veloce, impreparato. E se il futuro non è noto, una certezza c’è: Covid-19 non sarà l’ultima pandemia. Per affrontare le prossime, però, ci sono le lezioni apprese finora.
Favria, 18.05.2021    Giorgio Cortese

Buona giornata. Essere giovani ed essere vecchi sono due fasi dell’esistenza. Nella prima si anela alla conoscenza, nella seconda è la conoscenza stessa che ci rivela la nostra ignoranza. Felice martedì.

Il Conte Rosso!

In questo periodo dove l’italico stivale viene dipinto in vari colori per contenere la pandemia, ed in attesa di una seria campagna vaccinale vi voglio parlare di un personaggio storico che venne chiamato il Conte Rosso. Amedeo VII conte di Savoia, detto il Conte Rosso secondo alcuni storici a causa  del colore dei suoi capelli, mentre secondo altri, si prese a soprannominarlo Conte Rosso poiché nel 1383, impegnato nelle Fiandre in una campagna militare in difesa del duca di Borgogna,  sotto l’assedio di Bourbourg, E sotto le mura di questa città che per festeggiare la notizia della nascita del suo primogenito Amedeo il 4 settembre 1383 lasciò il lutto per la morte del padre e si vestì di rosso, di qui il soprannome di Conte Rosso, con cui è conosciuto. Il Conte Rosso tra il 1385 al 1386 fronteggiò una ribellione in Canavese detta tuchinaggio, fomentata dai Visconti e da Teodoro di Monferrato. Questa ribellione finì soltanto dopo il suo accordo con Gian Galeazzo Visconti. Il suo  più grande successo fu l’acquisto della città e contea di Nizza,  così la casa di Savoia aveva finalmente quello sbocco al mare che già Amedeo VI detto il Conte Verde, per l’abitudine di vestirsi di verde durante i tornei e anche dopo quando divenne conte. L’’occupazione di Nizza rialzò il  prestigio dei conti di Savoia nella politica italiana. Il governo di  Firenze si mise gli occhi sul conte di Savoia e  pensò di trascinarlo ad una coalizione contro Milano.  Il Conte Rosso acconsentì ad ascoltare le proposte venute da Firenze, di attaccare cioè da occidente Gian Galeazzo e gli venivano offerti in cambio i territori milanesi occidentali che avrebbe potuto dividere col re di Francia, il quale a sua volta avrebbe dovuto entrare nella lega. A questo punto Amedeo. comprese che sarebbe diventato uno strumento della politica fiorentina e si arrestò. Egli aveva concluso un trattato di alleanza con Gian Galeazzo nel 1385 e lo rinnovò nel 1390: aiuto reciproco, denuncia reciproca di nemici, di congiurati. Astutamente il Conte Rosso lasciava libertà d’azione all’alleato Lombardo verso Venezia, in questo modo distoglieva le attenzioni nelle regioni pedemontane dove i Visconti avevano delle mire dove mirava ad estendere la sua egemonia, il Conte Rosso teneva una politica prudente nello scacchiere italiano. Una caduta da cavallo durante una caccia gli determinò una ferita alla coscia destra e l’infezione portò ad un processo di setticemia per tetano. Il conte morì giovane  non ancora trentaduenne. La tradizione volle vedere nella sua morte un avvelenamento. Dalla consorte Bona di Berry aveva avuto un maschio, Amedeo nato nel 1383 poi il primo ad assumere il titolo di Duca di Savoia e anche Principe di Piemonte e di Acaia, Conte di Aosta, Ginevra, Moriana e, Nizza. Giuseppe Giacosa ha scritto una dramma storico Il Conte Rosso del 1880 sulla figura di Amedeo VII di Savoia, nel dramma all’inizio un messo annuncia al conte di San Martino che nelle sue terre, nel Canavese, i villani sono in rivolta: hanno fatto gravi danni e ucciso brutalmente un cugino di San Martino, colpevole di avere a sua volta ucciso una giovane contadina che non gli si voleva concedere. Mentre tutti riprovano il comportamento dei villani, il solo Challant lo giustifica. Berry consegna a Challant un fermaglio, il segnale che gli aveva promesso nel caso ne avesse accettato la corte.  Amedeo, preso da parte Challant, gli confida il suo disegno segreto. Egli è disgustato dal governo tirannico della madre e degli altri nobili, e da anni sta segretamente pensando a come instaurare un governo illuminato e giusto e a come rendere la madre «umana suo malgrado». La rivolta in Canavese gliene dà occasione. Una curiosità amedeo è  anche il nome di una moneta d’oro di Vittorio Amedeo I, duca di Savoia, del valore di dieci scudi d’oro, emessa nel 1633 dalla zecca di Torino da non confondere con il beato amedeo, moneta d’argento del valore di 9 fiorini fatta coniare nelle zecche di Torino e di Vercelli dal 1609 al 1629 da Carlo Emanuele I duca di Savoia, così chiamata perché nel rovescio presenta l’effigie del beato Amedeo IX di Savoia.

Favria, 19.05.2021  Giorgio Cortese

Buona giornata. Molte persone si arrendono appena prima di farcela, il bello della vita è che non sappiamo mai quando il prossimo ostacolo sarà l’ultimo.  Felice mercoledì.

Il periscopio!

Oggi se pensiamo al periscopio la prima immagine è l’utilizzo nel sottomarino per vedere sopra il limite dell’acqua, ma l’utilizzo per i sottomarini è arrivato nel 1902 ad opera di Simon Lake che utilizzò dei  periscopi. Dei prototipi di periscopi sperimentali erano stati inventati anche in Italia, da  Paolo Tiulzi dagli ingegneri navali  Russo e Laurenti. Nella forma più semplice il periscopio è un tubo alle cui estremità vi sono degli specchi paralleli tra loro e posti ad un angolo di  45° rispetto alla linea passante per essi. In quelli più complessi è costituito da un insieme di prismi che riportano la visione su un piano diverso da quello iniziale, permettendo così una visione a giro d’orizzonte, mantenendo nascosto l’osservatore, appunto per questo venne usato anche nelle trincee durante la prima Guerra Mondiale. Uno sviluppo importante venne d Rudolf Gundlach, che produsse il periscopio girevole, permettendo ai comandanti dei carri armati di avere una visione a 360 gradi senza muoversi. La parola periscopio deriva dall’inglese periscope formato dalle parole greche peri e scopio, osservare  intorno, ma pochi sanno che il primo utilizzo del periscopio sembra vada attribuito  a Johann Gutenberg,  l’inventore della stampa, che lo usò per consentire ai pellegrini di vedere sopra le teste della folla ad una festa religiosa svoltasi ad Aquisgrana nel 1430. Concludo con questa piccola e semplice riflessione, ogni giorno il vero viaggio nella vita quotidiana non consiste nel cercare nuovi luoghi o nuove emozioni ma nel cercare di avere sempre nuovi occhi, senza nessun periscopio ma di mostrarci ai nostri simili così come siamo.

Favria,  20.05.2021  Giorgio Cortese

Buona giornata. La vita sembra a volte che si restringa o si estenda in proporzione al nostro personale coraggio quotidiano. Felice giovedì.

Le radici.

Le radici, dietro ad ogni pianta, dietro a dei bellissimi fiori c’è una storia avventurosa: come è riuscita ad adattarsi a un ambiente spesso inospitale, resistendo al vento, alla salsedine, al calpestio dei visitatori, proprio come dietro ad ogni persone c’è una storia di generazioni che hanno lottato per dare un futuro migliore ai loro discendenti. Sono sempre affascinato dalle radici, mi viene in mente un verso del poeta  Michelet quando affermava: “Avrei voluto esplorare, sotto la foresta di foglie superba e incantevole, la foresta delle radici: i subterranea regna, misteriosi e anche loro viventi…” Le radici non si offrono  volentieri alla mia vista, con la loro rara bellezza, che  deriva dalle loro forme così varie, sono fini, arricciate, sfilacciate, intrecciate o nodose , ma il loro fascino è che  portano con sé il segreto della terra, delle profondità, mi  parlano di un mondo di cui conosco poco.  La scienza, mi insegna che le radici permettono alle piante anche di accumulare riserve, di comunicare tra di loro attraverso associazioni simbiotiche formando vere e proprie comunità vegetali e persino di creare un suolo vivente.  Le radici le noto, come tutti solo quando pianto degli arbusti, travaso dei delle piante dai vasi o una tempesta li sradica, dal suolo, e conservo ben vivo nella memoria quando venne scradicato il secolare cedro nel parco Martinotti a Favria. Quando guardo un giardino, so che là sottoterra, in Primavera  c’è tutto un fervore di radici che si allungano nel buio e scandagliano il suolo senza sosta, di micorrize che creano arabeschi e geografie inaudite. Un mondo parallelo, brulicante di vita e necessario.  Che bello il creato!

Favria,  21.05.2021   Giorgio Cortese

Buona giornata. Oggi i presunti grandi si sentono grandi solo perché noi siamo in ginocchio, coraggio alziamoci e non buttiamoci giù! Felice venerdì

La stagione dei Bogre!

Nel pieno del Medioevo, un fantasma si aggira per l’Europa. Come un’ombra, penetra dappertutto e adopera tanti nomi: bogomilo, albigese, manicheo, tessitore, cataro, il nome della setta bogomili viene fatta risalire alla voce bulgara bogu-mil, caro a Dio, secondo altri storici il nome della setta venne dato dal soprannome del pope, religioso ortodosso che l’aveva fondata. In piemontese l parola bogre ha assunto il significato di ribaldo, furfante e sodomita. Il lemma piemontese deriva dal francese antico bolgre, eretico con cui si indicavano i bogomili, provenienti dalla Bulgaria.  Era anticamente un tipo di epiteto ingiurioso usato in Canavese, ne ho trovato traccia in un fatto di sangue avvenuto nel settecento in un paese del Canavese tra giovani di comuni diversi, fatto che parlerò con altro racconto. Tornando alla parola bogre, oggi è solo più una parola solo sussurrata, nascosta come un tracciato carsico, raccolta nella medesima parola trasformatasi, nella tradizione occitanica, come prima detto in un insulto. Nel Medioevo le idee viaggiavano e questa eresia viaggiò infatti tanto, da est a ovest, dando vita, fino al XIII secolo, a una internazionale eretica, nemica della Chiesa di Roma, composta da sedici comunità o, meglio, come le chiamavano gli stessi adepti, Chiese, perché dotate di vescovi e di organizzazione, che definivano un contropotere rispetto alla Chiesa cristiana tradizionale. Nell’Italia centrosettentrionale le comunità erano numerose. Presenti a Desenzano, Brescia, Concorezzo, Monza e Brianza, Vicenza, Firenze, Spoleto, Perugia. In Oriente, ce n’erano in Bulgaria, in Romania, nell’attuale Bosnia e perfino a Costantinopoli.  Ma fu soprattutto nel Sud della Francia che il movimento crebbe: nelle cittadine di Béziers, Montségur, Alby, Montaillou, Carcassonne, nel momento di esplosione della grande cultura occitanica. L’eresia sbocciò ovunque arrivasse e creò sconcerto. Soprattutto, colpiva per il suo rifiuto del potere costituito, per la sua integrità evangelica. E fece proseliti sia nelle élite che nel proletariato urbano e perfino tra gli stessi uomini di Chiesa, chierici, monaci, prelati. Un movimento capace di fare breccia, grazie all’esempio e alla trasparenza degli atteggiamenti, nonostante un’incessante propaganda avversa da un capo all’altro d’Europa. Una comunità che professava un cristianesimo che non poteva coincidere in niente con quello di Roma. A partire dall’idea fondante del credo eretico, un universo diviso in due, manicheo, impastato di influenze persiane, sospinte in Europa chissà come e da chissà chi. Forse quel credo venne portato dalle truppe gote che giunsero dal centro dell’Asia in Bulgaria, molti secoli prima, oppure arrivò sulle ali di un Mediterraneo aperto che, intorno all’anno Mille, aveva ancora come centro di diffusione di nuove idee la città posta tra due continenti, Costantinopoli. Nell’idea catara, insomma, Bene e Male si fronteggiano. Con la lotta interminabile tra un Dio puro spirito e un demiurgo con il volto di Satana, che strattona angeli e uomini verso un mondo composto di pura materia. I catari si ritenevano i puri per eccellenza, dallo stile di vita integerrimo. Che esprimono rituali assunti in parte dal cristianesimo, però modificati nella sostanza, e pertanto non più fedeli al messaggio cristiano, tra cui l’esaltazione della preghiera del Padre nostroo la condivisione del pane. Senza contarne altri, misteriosi e iniziatici, come il Consolamentum, che prevedeva l’imposizione delle mani e l’ostensione del libro per eccellenza della comunità catara, il Vangelo di San Giovanni. I catari vennero annientati con roghi, uno dei quali avvenuto all’interno dell’arena di Verona il 13 febbraio 1278 e delle abiure estorte con violenza. L’episodio centrale è la Crociata contro gli albigesi, i catari di Provenza, cominciata nel 1209. Un’operazione di spietata estirpazione dell’eresia, condotta senza limiti né morale, come nel corso del massacro di Béziers, il 22 luglio 1209, quando l’abate Amaury avrebbe pronunciato, di fronte al massacro indistinto di cattolici e catari, la frase: “Dio riconoscerà i suoi”. Con il soffocamento di ogni anelito di libertà religiosa proseguito per decenni, fino all’eccidio della fortezza di Montségur, la rocca imprendibile, estrema ridotta catara, dove si produsse un assedio interminabile dall’estate del 1243 fino al marzo del 1244. Quando terminò, ai sopravvissuti fu rivolta l’estrema proposta dell’abiura o il rogo. Furono 222 quelli che scelsero di farsi bruciare vivi.  Purtroppo la storia umana è intessuta anche dal filo della violenza, un’ininterrotta catena di intolleranza alla base della civiltà europea, dal Medioevo a oggi. Ma personalmente nutro speranza per l’avvenire, il 16 ottobre 2016 il vescovo di Pamiers, Jean-Marc Eychenne, della chiesa Cattolica con un grande atto ha chiesto perdono nel luogo simbolo, il castello di Montségur. Otto secoli dopo,  il solo segno di riconciliazione nello straziante ricordo.

Favria, 22.05.2021   Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana è facile governare una barca quando il mare è sereno. È nella tempesta che dobbiamo dimostrare di sapere manovrare il timone e mantenere la rotta. Felice sabato.

La forchetta.

Oggi la forchetta come posata non manca sulle nostre tavole ma nei  millenni ci si è sempre serviti delle mani, o dei coltelli appuntiti, per portare alla bocca i pezzi di cibo ancora caldi, anche se esistevano vari strumenti, fatti di materiali dall’osso al ferro, per infilzare le carni in cottura. Ma la forchetta, che arrivò dopo il cucchiaio e il coltello, quando e dove nacque? Vi stupirà ma, nonostante fosse conosciuta già nell’antica Grecia, la forchetta come la intendiamo noi è un’invenzione abbastanza recente. Infatti originariamente la cosa più simile alla nostra forchetta” era quello che oggi noi chiameremmo forchettone, uno strumento a due rebbi, denti, utilizzato principalmente per cucinare e servire il cibo. Al tempo infatti per mangiare si preferivano dita, cucchiai e coltelli. Pensate che in un trattato scritto a metà dell’XI secolo san Pier Damiani offre una stupita testimonianza delle abitudini alimentari di una principessa bizantina, sposa del figlio del doge di Venezia. L’orribile fine della nobildonna, morta di cancrena, conferma a san Pier Damiani l’opinione che la forchetta sia uno strumento di diabolica perversione in quanto scrive che non toccava le pietanze con le mani ma si faceva tagliare il cibo in piccolissimi pezzi dagli eunuchi. Poi li assaggiava appena portandoli alla bocca con forchette d’oro a due rebbi, questa è la prima testimonianza dell’uso in Occidente di questo utensile allo sconosciuto. Nell’ambiente bizantino l’accessorio è già presente almeno dal 400 d.C. In quell’epoca l’imbeccatoio romano, un pugnale appuntito, si trasforma prima in uno spillone e poi in una forchetta per infilzare il cibo. Come si vede questa posata arriva in Europa grazie alle strette relazioni tra Bisanzio e Venezia ed è perfetta per la pasta. Le prime attestazioni che illustrano la forchetta compaiono in una miniatura dell’XI secolo contenuta nel manoscritto De Universodi Rabano Mauro, che rappresenta re Rotari a tavola mentre impugna l’utensile. Dal XII secolo è giunta fino ai nostri giorni un’altra miniatura, quella dell’Ultima cena, contenuta in un codice dell’Hortus deliciarumdella badessa Herrad, o Herrada, di Hohenbourg. In pieno Medioevo l’uso della forchetta si diffonde in Italia con il consumo della pasta, perché strumento utile per infilzare quel cibo bollente e scivoloso.  Intorno al 1392, nel suo Trecentonovelle, Franco Sacchetti racconta di due amici intenti a manfiare usando la forchetta.  Alla fine del XV secolo le forchette vengono utilizzate abitualmente dalle famiglie nobili di Firenze, nella loro collezione i Medici ne vantano ben cinquantasei.  L’uso della forchetta rimane in Italia,  il resto d’Europa invece ne ignorava pressoché l’uso. In cucina si usava una specie di forchettone per tenere ferma la carne mentre la si tagliava con il trinciante e poi i vari bocconi venivano poi mangiati con le mani. Le forchette propriamente dette erano usate soprattutto per alcuni tipi di frutta o per i dolci. Nel 1518 il mercante viaggiatore francese Jacques le Saige partecipa a un banchetto del doge di Venezia e constata con stupore vche a Venezia quando vogliono mangiare prendono il cibo con la forchetta d’argento. Verso il 1533 Caterina de’ Medici, moglie del re di Francia Enrico II, cerca d’introdurre la forchetta a corte, ma senza successo. Solo nel 1684 Luigi XIV riesce a promuoverne l’uso. Nel 1609, descrivendo con dovizia le abitudini alimentari dei turchi, il signore di Villamont osserva che non usano assolutamente delle forchette come fanno i lombardi e i veneziani e riconosce implicitamente che si trattava ancora di un’usanza prettamente italiana. In quello stesso periodo lo scrittore Thomas Coryat scopre la forchetta in Italia durante i suoi viaggi nel BelPaese che a tavole  tavola gli italiani usano sempre una specie di piccolo utensile per tenere ferma la carne. Coryat si appassiona all’usanza e la porta in Inghilterra. Nel corso del XVII secolo la forchetta viene sdoganata in tutta Europa, ma subisce qualche leggera modifica. Spetta nel settecento al ciambellano di Ferdinando IV di Borbone, Gennaro Spadaccini, la diffusione della versione con quattro rebbi corti, adatti sia ad arrotolare gli spaghetti sia a infilzare la carne. Concludo riflettendo che certe persone sono utili al bisogno come una forchetta nel brodo anche se in apparenza pensano di essere sottili e pungenti, come una forchetta appunto.

Favria, 23.05.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. A volte anche dalle persone che sanno poco, può esserci tanto da imparare. Felice domenica

24 maggio. il calvario degli Alpini

Il 24 maggio 2021, sono le sei di sera, passo davanti al monumento degli Alpini davanti al palazzo Comunale e mi fermo da solo, per meditare e lasciare che per una manciata di attimi i ricordi corrano liberi nel mio animo. Come è lontano solo gli anni prima quando questa sera commemoravano, come Alpini l’inizio della Grande  Guerra e dei morti che ha causato e poi appena due anni fa, sembra passato un secolo, la fine di questa inutile strage. Sembra lontano il tempo, adesso che non possiamo sfilare, posare la corona d’alloro e commemorare pubblicamente cosa è stata la Grande Guerra, con i milioni di soldati e civili morti in Europa.  Già sembra solo ieri, quando si commemorava il 4 novembre 1918 quando il generale Armando Diaz, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito italiano, comunicava alla Nazione che “la guerra contro l’Austria-Ungheria iniziata il 24 maggio 1915 … è vinta”. Dopo 41 mesi di conflitto, dopo Caporetto la difesa del Piave il 4 novembre di quell’anno Trento e Trieste diventano italiane, tutta la Patria si riunisce finalmente. Mi fermo e penso agli amici Alpini che qui si sono trovati  in tantissimi anni qui davanti e adesso, non sono più tra noi, hanno posato lo zaino facendo un passo avanti.  Vengono in mente le prime parole della canzone Monte Grappa: “ Monte Grappa tu sei la mia Patria…” che non sono parole banali e vuote ma vogliono  ricordare il sacrificio di chi militare e civile  ha sofferto per la guerra. Poi penso ancora davanti al monumento dell’Alpino la canzone dell’Ortigara: “Ta-pum” che era il caratteristico rumore che i soldati italiani sentivano stando in trincea quando i tiratori austriaci sparavano con il loro fucile. Infatti gli spari partivano da lontano e prima veniva sentito il rumore dell’arrivo del proiettile, “ta” e successivamente il suono della denotazione “pum”. Questa canzone venne scritta da un ardito, come mio nonno paterno,  la notte prima dell’assalto quota 2015, un canto accorato e disperato, tra i lugubri duelli delle artiglieria, il balenio spettrale dei razzi, il gemito dei feriti, il tiro infallibile dei cecchini. E qui il mio pensiero vola all’ “Ortigara monte santo dell’Alpino la tua croce invoca al cielo solo pace, sol pietà”.  Forse queste semplici parole di questa canzone alpina sono il vero significato del 4 novembre, fuori dalla roboante retorica e dei grandi discorsi. Forse aiuta con il periodo di pandemia riflettere da soli anche senza cerimonie ogni volta che passiamo davanti ad un monumento degli Alpini e alla  vicina stele che ricorda i caduti della Grande Guerra di tutti quei soldati che hanno dato la loro giovane vita per la nostra Italia. Tutti i paesi d’Italia hanno infatti il loro monumento ai Caduti. Pensate: si celebra allo stesso modo, lo stesso giorno, in tutta la Patria  per ricordare rispettosamente il valore di quelle persone cadute,  quelle tante vite sacrificate per l’Unità della nostra Nazione. Si può riflettere e festeggiare anche così, sostando solo alcuni attimi di tempo come ho fatto io questa sera, senza cerimonie e fastosi discorsi. Ritengo che ogni tanto non sarebbe male fermarci e riflettere sul sacrificio di chi ha donato la sua giovane  vita per la Patria e  ringraziare le nostre forze armate,  oggi è la loro festa, per capire il significato profondo dell’essere italiani. Prima di accomiatarmi dal monumento rifletto sul  senso della guerra, sempre ingiusta, sempre dolorosa, sempre crudele, sempre disumana, sempre sbagliata, sempre evitabile. Questo pensiero fa parte del patrimonio di noi Alpini che dobbiamo sempre divulgare e coltivare nelle giovani generazioni  per rafforzare in tutti noi italiani  un forte sentimento di ripudio verso la guerra e una forte volontà di coltivare sempre la pace, il rispetto per gli altri, la democrazia, e una chiara determinazione a mettere in pratica questi valori nella nostra vita di tutti i giorni, come recita  l’articolo 11 della Costituzione italiana: “ “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come strumento di risoluzione delle controversie internazionali…” lascio con questo pensiero finale il ricordo dei nostri caduti in guerra che mi aiuti ogni giorno a lavorare sempre per la pace. Perché solo la pace, il dialogo, il confronto e l’onestà sono sempre l’unica strada da percorrere, sono i nostri valori Alpini.

W gli Alpini!

Favria, 24.05.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno dobbiamo sempre essere gentili con le persone durante l’erta salita della vita, perché potrei incontrarle durante la discesa.  Felice lunedì