Festa sociale Fidas favria 19 giugno – La teiera, una fiaba di Hans Christian Andersen – I gatti nell’Antico Egitto! – La pera Williams Bon Chretien. – Lo stupore. – Buzkashi, acchiappa la capra! – Camminare! – Ci vuole naso!…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Gruppo donatori di Sangue FidasADSP   Favria   TO Festa sociale

Cara/o  donatrice/donatore, con la presente Ti avvisiamo della festa sociale che avverrà domenica 19 giugno con il seguente programma:

ore 9,30 ritrovo in sede cortile interno del Comune.

Ore 10 avvio corteo e sfilata.

Ore 11 S.Messa , ore 12 premiazione donatori benemeriti.

Ore 12,30 pranzo sociale  presso Agriturismo La PRATERIA DI Rosanna e Giovanni. Via Conti  S. Martino fraz. San Giovanni- Castellamonte.

L’accompagnatore e l’alfiere dei gruppi invitati saranno graditi ospiti.

Hanno diritto al pranzo gratuito tutte le medaglie oro, Re Rebaudengo e tutti i premiati. 

Costo pranzo euro per tutti gli altri euro 30,00

per  i bambini  0 -2 anni non pagano; 3/5 anni  euro 6,00. Per i bambini 5/7 anni Euro 10,00. Per bambini tra 7 e 10 anni Euro 15,00.

Prenotate con urgenza ai seguenti recapiti:

Macri Nicodemo cell 3498889303 – Manca Simona cell  3392230882 –

Varrese Vincenzo cell 3469651812 – Cortese Giorgio 3331714827

Entro il  1 giugno sino ad esaurimento posti disponibili come da norme anti covid.

DIPLOMI.

Amato Daniela – Bernardi Ghisla Elisa –  Bettas Begalin Lara – Bollero Alessio – Caboni Salvatore – Caresio Denis Simone  – Chiatello Elisa – Conta Silvio – Cresta Lucia – De Nardo Francesca – Dell’Agnese Giada – Dematteis Matilde – Dorma Emanuele – Faletti Enrico Giuseppe – Ferrari Federico – Garavoglia Daniele – Giannone Mery – Guglielmetti Manuela – Lifone  PierLuca  – Mancuso Graziella – Marchetto  Francesca  Masili Manuela – Messina Simone – Mihai Rodis – Milano Gianluca – Miletta Maurizio Rosario  Naretto Nicoletta – Nicita Erika – Osella Andrea Giovanni – Pallante Barbara – Perona Daniela – Quondamatteo Marco – Rositi Giovanni – Salato Giacomo – Salfa Massimo – Sesto Tiziana – Tarizzo Matteo – Tocci Gabriele – Trachi Bouzekri – Vironda Emanuela – Vittone Fabrizio Lodovico – Zucca  Bernardo Gerri

MEDAGLIA DI BRONZO

Bellone Cappuccio Giuseppe – Bollero Francesco – Ciullo Antonello – Curcio Ilaria – Eggert Hans Erich – Feira Loris – Foresta Antonio – Gini Niki – Miele Franco – Migliore Rosario – Milano Andrea Giovanni – Rossetto Fabrizio – Sesto Loredana – Sisto Riccardo – Tarello Federica – Tarizzo Renza – Tocci Marco – Trinchero  Marita – Zaccaro Morena

MEDAGLIA D’ARGENTO

Arrò Domenica Manuela  – Bertone Antonella -Bezgina Anastasiya – Brillante Angelo – Bruatto Massimo – Campaniolo Giuseppe Gaspare – Castello Alex Angelo – Colacino Tommaso – Confalonieri Roberto – Di Chio Leonardo –  Di Liberto Pietro – Ferrara Alessandro –  Forneris Paolo – Furin Fabio – Galeano Gonzalo Hernan – Gallo Lassere Moreno – Gentile Laura –  La Marmora Franco – Leone GianFranco – Mancuso Roberto –  Mazzetto Andrea – Motto  Giorgio – Musto Michele – Notari Aurora – Rositi Nicoletta – Sesto Marco – Soria Roberta – Spaducci Antonello – Trevisan Luca

PRIMA MEDAGLIA D’ORO (50 donazioni)Cantafio Antonio,  Capozzielli GianLuca, Eggert Friedrich, Greco Titina. Morra Pietro,  Profeta Giuseppe Elia, Rozzarin  Valter, Sacco Giuseppe, Santinato Maurizio, Santoro Antoine, Tamburro Andrea 

SECONDA MEDAGLIA D’ORO (75 donazioni) Caboni  Bartolomeo, Costa  Roberto, Dematteis Paolo,  Fratto Salvatore, Gavardoni Antonio,Lonigro Matteo, Querio Dario Giovanni, Simonetta Lorenzo, Spezzano Antonio, Vitton Gomma Roberto

TERZA MEDAGLIA D’ORO (100 donazioni) Bacolla Giovanni,  D’Angelo Claudio.

QUARTA MEDAGLIA D’ORO (125 donazioni)  Cortese Giorgio Domenico

QUINTA MEDAGLIA D’ORO (150 donazioni)  Giolitto Deina Giovanni 

Grazie a tutti i donatori del bene che fate. Grazie

La teiera, una fiaba di Hans Christian Andersen

C’era una teiera orgogliosa, orgogliosa della sua porcellana, del suo lungo beccuccio, del suo largo manico. Aveva qualcosa davanti e qualcosa dietro, il beccuccio davanti e il manico dietro, e parlava sempre di quelli, ma non parlava mai del coperchio che era scheggiato; quello era una mancanza, e delle proprie mancanze non si parla volentieri non lo fanno nemmeno gli altri. Le tazze, la zuccheriera e il bricco del latte, tutto il servizio da tè avrebbe certamente ricordato il coperchio rotto più che non quel manico e quello splendido beccuccio; la teiera lo sapeva bene. “Li conosco!” diceva tra sé. “Conosco anche la mia mancanza e la riconosco, in questo sta la mia modestia, la mia umiltà; tutti abbiamo difetti, ma abbiamo anche pregi. Le tazze hanno un manico, la zuccheriera ha un coperchio, io ho ricevuto entrambe e una cosa in più, che gli altri non hanno, ho ricevuto un beccuccio che mi rende regina del tavolo da tè. La zuccheriera, il bricco del latte si vantano di essere le ancelle del buon sapore, ma io sono colei che distribuisce, che domina, io spargo la benedizione tra l’umanità assetata; dentro di me le foglie cinesi trasformano l’acqua bollente senza sapore”. Tutto questo la teiera l’aveva detto nella sua tranquilla gioventù. Ma ora stava sul tavolo apparecchiato, e venne sollevata dalla mano più curata ma la mano più curata era maldestra, così la teiera cadde, il beccuccio si ruppe e pure il manico, per non parlare del coperchio di cui abbiamo già detto fin troppo. La teiera rimase svenuta sul pavimento e l’acqua bollente uscì fuori. Fu un brutto colpo, ma la cosa peggiore fu che tutti risero, risero di lei e non della mano maldestra. “Quello me io ricorderò sempre!” diceva la teiera quando ripensava alla vita trascorsa. “Venni chiamata invalida, messa in un angolo, e il giorno dopo regalata a una donna che mendicava; caddi in miseria, rimasi stupefatta e incerta sul da farsi, ma proprio in quello stato cominciò la mia vita migliore: si è una cosa e si diventa un’altra. Dentro di me fu messa della terra e questo per una teiera significa essere seppellita, ma nella terra fu posto un bulbo; chi lo fece, chi lo donò, lo ignoro, ma accadde, e fu una ricompensa per quelle foglie cinesi e per quell’acqua bollente, una ricompensa per il manico e il beccuccio rotti. Il bulbo rimase nella terra, rimase dentro di me, divenne il mio cuore, il mio cuore vivente: uno così non l’avevo mai avuto prima. C’era vita in me, c’era nuova forza energia, il polso batteva, il bulbo gettò le gemme che stavano per scoppiare a causa dei pensieri e dei sentimenti; poi sbocciarono in tanti fiori; io li vidi li portai, dimenticai me stessa nella loro bellezza. È meraviglioso dimenticare se stessi per un altro! Quelli non mi dissero grazie, non pensarono affatto a me, vennero ammirati e lodati, io ne ero felicissima, come non potevano essere neanche loro stessi. Un giorno sentii dire che il bulbo meritava un vaso migliore. Mi ruppero a metà e mi fece molto male, ma il fiore ebbe un vaso migliore e io venni gettata nel cortile e mi trovo lì come un vecchio coccio, ma ho i ricordi, che non perderò mai.”

Favria, 17.05.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Tutti vogliono governare ma poi molti di loro non riescono neppure a badare a se stessi. Felice martedì.

I gatti nell’Antico Egitto!

Nell’antico Egitto, i gatti erano considerati sacri e venivano raffigurati in dipinti, sculture e incisioni. Ma perché i gatti erano venerati dagli Egizi? In Egitto il gatto era l’animale più diffuso fin dall’antichità e la sua fama lo portò, col tempo, a diventare da semplice animale domestico ad animale sacro, per poi divenire una vera e propria divinità. Circa 4.500-4000 anni fa, nel periodo dell’Antico Regno, gli antichi Egizi cominciarono ad avvicinare i gatti, allora animali selvatici, offrendogli del pesce per attirarli nelle loro case. I felini, forse grati per il cibo offerto, o più semplicemente per il loro istinto di predatori, cominciarono a dare la caccia a tutti gli ospiti sgraditi presenti nelle abitazioni dell’Antico Egitto: scorpioni, serpenti, ratti.  I gatti inizialmente venivano utilizzati per cacciare ed uccidere queste bestie, diventando così protettori delle case, a testimonianza di questo, esistono diversi dipinti dell’epoca raffiguranti scene in cui i gatti uccidono dei serpenti. Pian piano gli Egizi iniziarono a considerare i gatti come veri e propri membri delle loro famiglie e li trattarono con lo stesso rispetto e dignità con cui venivano trattati i figli. A partire dal Medio Regno gatti e gattini cominciarono ad apparire nei dipinti accanto alle tavole imbandite, specialmente vicino alle donne, e cominciarono ad essere simbolo di fertilità. Durante il Nuovo Regno i gatti assunsero in maniera definitiva una connotazione divina. Le loro figure vennero inizialmente raffigurate su oggetti di vita quotidiana, gioielli, braccialetti d’oro, amuleti e anelli ma il gatto fu anche rappresentato in moltissime statue in bronzo destinate per lo più a tombe e monumenti funebri. La maggior parte delle statuette aveva le orecchie forate con orecchini d’oro o d’argento e occhi intarsiati di pietre semi-preziose. Una delle  prime divinità dell’antico Egitto fu la dea Mafdet a cui la gente si rivolgeva nella speranza di ottenere protezione contro animali velenosi come serpenti e scorpioni. Per questo motivo fu la prima ad essere ritratta con una grande varietà di forme feline. A volte essa veniva raffigurata col corpo di donna e la testa di una leonessa o di un gatto, altre volte con il corpo di un gatto e la testa di una donna. Per via della capacità dei gatti di tenere al sicuro le case degli Egizi dalle bestie velenose, Mafdet venne considerata protettrice della casa e del regno stesso. Come lei, anche Sekhmet, dea della guerra, delle epidemie e delle guarigioni, veniva ritratta con corpo di donna e testa di leonessa. Più avanti nella storia Egiziana, la dea Bastet, o Bast, come era inizialmente conosciuta nel Basso Egitto prima dell’unificazione delle culture dell’Egitto, rimpiazzò Mafdet come dea dalle sembianze feline preferita. Essa infatti era raffigurata con il corpo di donna e la testa di gatto. Anche lei fu considerata impavida protettrice della casa, specialmente dei bambini, delle donne e delle famiglie reali,  proprio grazie alla famosa abilità dei gatti di uccidere scorpioni, serpenti ed altre bestie nocive. I suoi seguaci la chiamarono  Occhio di Ra, Udjat, perché reggeva un amuleto avente poteri magici.  Questo amuleto veniva riprodotto anche nelle decorazioni all’interno dei templi e delle case come protezione da malattie, rapine ed infortuni. Tutt’ora, se portato al collo, si dice che protegga i viaggiatori. Bastet fu paragonata alla dea greca Artemide, a causa delle caratteristiche simili come la protezione per la famiglia. La gatta venne inoltre paragonata alla luna mentre il gatto maschio al sole, perché gli antichi  Egizi avevano  osservato negli occhi di una gatta le varie fasi lunari dato che luna piena splendono di più mentre la loro luminosità diminuisce con la luna calante e il gatto maschio muta l’aspetto dei suoi occhi in relazione al sole, infatti quando il sole sorge la sua pupilla si allunga, verso mezzogiorno si arrotonda e la sera non si vede affatto e sembra che l’intero occhio sia omogeneo. I seguaci del culto di Bastet erano soliti mummificare i gatti e  piangerli nello stesso modo in cui piangevano i loro stessi familiari. Gli Egizi credevano che anche per i gatti esistesse l’aldilà e perciò anch’essi venivano mummificati e sepolti con tanto di funerale. Allora i gatti erano considerati animali sacri al punto che, se accidentalmente ne veniva ucciso uno, il responsabile doveva essere punito con la morte. Anche in caso di una qualsiasi emergenza, come ad esempio un incendio, che richiedeva l’evacuazione di una casa, i gatti dovevano essere salvati per primi. Erodoto, a riguardo, scrisse al riguardo che quando scoppia un incendio, ai gatti succede qualcosa di veramente strano, gli Egiziani lo circondano tutt’intorno pensando più ai gatti che a domarlo, ma gli animali scivolano sotto o saltano sugli uomini e si gettano tra le fiamme. Quando questo succede, in Egitto è lutto nazionale, gli abitanti di una casa dove un gatto è morto di morte naturale si radono le sopracciglia, i gatti vengono portati in edifici sacri dove vengono imbalsamati e seppelliti nella città di Bubasti.” Bubasti era  una località vicino all’attuale città di Zagazig,  la città sacra a Bastet .  Nei testi antichi, infatti si narra che Bastet, morsa da uno scorpione, fu guarita da Ra. Gli antichi documenti riportano che Ra infuriato, provocò una siccità e mandò Bastet a uccidere gli uomini. Quando si fu calmato, Ra mandò Thot a cercare Bastet in Nubia, ma la dea si nascondeva sotto forma della di leonessa, Sekhmet. Discendendo il Nilo, Bastet si era bagnata nel fiume in una città sacra a Iside, trasformandosi di nuovo in gatta entrando a Bubasti, la città dei gatti, ,dove  fu trovata da Thot”. Per questo motivo il 31 ottobre di ogni anno aveva luogo una festa in suo onore, della quale si trova traccia in uno dei testi dello storico greco Erodoto.  Certo quello che credevano gli Antichi Egizi è solo un mito e leggenda, forse non sono dei perfetti custodi di casa. Ma fermati un attimo e osservate il micio  mentre dorme appallottolato su sé stesso, osservate mentre si stiracchia, ascoltate quando fa le fusa. Beh io mi sento già meglio,  forse sono davvero creature magiche!

Concludo che se un cane è prosa, un  gatto è poema, quando un gatto mi fissa  immobile mi domando sempre se sta  creando una poesia o scoprendo un varco nell’universo.

Miao!

Favria, 18.05.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno dobbiamo andare avanti con buon coraggio, con la luce della speranza senza mai tirarci indietro. Felice mercoledì.

La pera Williams Bon Chretien.

La pera Williams ha origini inglesi  e selezionata prima volta nella seconda metà del ‘700 da un maestro di scuola elementare di nome  Wheelerin un villaggio alla periferia di Londra, Aldermaston. Il nome Williamssi deve a colui che presentò il frutto alla Royal Horticultural Society: Mr. Richard Williams, un vivaista di Turnham Green che si premurò di diffondere questa varietà in tutta l’Inghilterra. Oltre che con la storpiatura di “pera William” spesso utilizzata in Italia, questa qualità di pera è conosciuta nel mondo con altri nomi ad esempio negli Stati Uniti e Canada pera Bartlett e Red Bartlett,  derivante dal nome di colui che la introdusse per primo in America Enoch Bartlett, e dal colore rosso che caratterizza la variante americana della Williams. Viene chiamata anche pero Aldermaston, dal nome appunto del villaggio inglese dove fu isolato il primo seme nel 1765. In Francia  viene chiamata pera Bon Chretien,  secondo la tradizione francese che ne attribuisce la paternità a Francesco di Paola, un guaritore calabrese giunto alla corte di Luigi XI in Francia che offrì al re un seme di questa pera proveniente proprio dal suo paese d’origine; essa fu poi coltivata per volere del sovrano in ossequio all’uomo e in inglese dettea pera good Christian,  che ovviamente è dovuto alla traduzione in inglese del nome “Bon Chretien”, in  ogni caso, sempre di pera Williams si tratta: il suo nome ufficiale completoè come detto all’inizio pera Williams Bon Chretien. La sua provenienza è molto probabilmente legata alla specie del Pyrus communis, il “pero comune”, la varietà di pianta di pero che cresce e si diffonde nelle zone centrali e centro-orientali d’Europa, ma anche in Medio Oriente e nel sud est asiatico. Le sue varie denominazioni derivano invece dai suoi diffusori principali, coloro che l’hanno fatta conoscere e ne hanno introdotto il commercio dopo la metà del XVIII secolo.  Pensate che i primi a a consumare e commercializzare la pera williams, al tempo non ancora nota con questo nome, furono gli Egizi, che la introdussero e la fecero conoscere anche alle popolazioni degli antichi Greci e degli antichi Romani. L’incremento del commercio di questa pera fu poi facilitato dai traffici di mercanti che collegavano Europa e Asia, lungo la via della seta, fino ad arrivare in Cina. Poi eccoci alla moderna  pera  Williams, con la sua forma, fisionomia e colore grazie agli  esperimenti e incroci alimentari effettuati nel Seicento e nel Settecento in Europa, soprattutto in Inghilterra. Le prima testimonianze documentarie evidenziano la forte presenza di questo frutto nelle contee inglesi del diciottesimo secolo, in particolar modo nella contea di Berkshire. Qui un giovane imprenditore decise di spendere tutti i suoi risparmi per acquistare un lotto di terreni coltivati e puntare tutto sulla produzione e sulla vendita di questa varietà di pera, dandole il proprio nome, “William Pear”. La stessa scommessa imprenditoriale fu tentata il secolo seguente da un altro giovane di belle speranze, questa volta un americano, che a sua insaputa coltivava e seminava i semi della pera williams, ma non essendone consapevole decise a sua volta di dare il proprio nome a quella fortunata varietà di pera. Ecco spiegato il perché del secondo nome di questo frutto, pera Bartlett e Red Bartlett. Un vecchio proverbio francese narra che la pera bollita salva la vita e si formaggio, pane e pere, è pasto di cavaliere!

Favria, 19.05.2022   Giorgio Cortese

Buona giornata. Per rendere migliore la nostra vita dobbiamo farci entrare alcune persone. Per renderla perfetta bisogna mandarne a quel paese altre. Felice giovedì.

Lo stupore.

Una moltitudine dei narcisi simili ad una nuvola che galleggia in alto sulle pendici del monte Verzel. Che spettacolo, che meraviglia una  moltitudine di bianchi narcisi che nei campi fluttuavano e danzavano nella brezza del pomeriggio. Tutto intorno, una nuvola di narcisi simili alle stelle che splendono e scintillano come  nella Via Lattea, si stendevano nei campi senza soluzione di continuità. I narcisi tra ogni filo d’erba sembrano contenere una biblioteca dedicata alla meraviglia, al silenzio e alla bontà. E SI, il meraviglioso è sempre bello, anzi, solo il meraviglioso è bello. Vi invito, se non siete stati ad andare al  Pian delle Nere è un largo spazio pianeggiante sulle pendici del monte Verzel da cui si gode una bellissima vista sul Canavese e sulla Serra e in questi giorni  i prati attorno all’area si colorano di bianco grazie alla fioritura dei narcisi.

Favria, 20.05.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. La gioia può nascere e morire in pochi istanti. Felice venerdì

Buzkashi, acchiappa la capra!

Il Buzkashi, è una  competizione ancestrale,  uno degli sport tuttora più amati in Asia Centrale e che, in un certo senso, ne racconta la storia. Antico progenitore del polo, questo gioco vi aprirà ad un mondo lontano, che resiste con orgoglio alla prova del tempo. Il Buzkashi, venne portato in Asia Centrale dalle varie migrazioni di popoli nomadi turchi che lì si stanziarono. Il nome del gioco significa letteralmente, acchiappa la capra,  e spiega perfettamente scopo e modalità. Questo sport consiste infatti nel trascinare una carcassa di capra, meglio se di vitello per la consistenza della carne a bordo di cavalli, puntando o a seminare i rivali o a lanciarla in un’area definita. Il tutto in 2 formazioni composte entrambe da 5 cahapandoz, cavalieri. Questa competizione è lo sport nazionale in Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan, venne proibito in Afghanistan con l’arrivo dei talebani ma una volta spodestati il gioco ha subito ripreso ad essere praticato e attualmente di nuovo proibito. Per lunghissimo tempo il Buzkashi non ha goduto di una vera e propria regolamentazione, facendo sì che in molte gare gli atleti subissero gravi e pesanti infortuni. Le versioni esistenti sono tante e variano da paese a paese, da città a città, secondo la tradizione. Solitamente si gioca divisi in due squadre, ma esistono pure versioni in modalità “tutti contro tutti”. Lo scopo del gioco consiste nel riuscire a portare la carcassa di una capra oltre la linea di fondo campo o all’interno di un’area delimitata sul terreno. Sì, avete capito bene: nessuna palla, nessun oggetto della più strampalata forma. No, la carcassa di una capra che viene  usata per il gioco sottostà a precise procedure atte a realizzarla. L’animale viene infatti decapitato, poi eviscerato e viene infine lasciato ore o giorni a mollo in una soluzione acquosa. Prima dell’uso viene anche riempito di sabbia, in modo da renderlo più pesante e pronto per il gioco! La situazione si è però trasformata di recente, fornendo a questo sport un regolamento semplice ma chiaro che ha permesso al gioco il salto ufficiale nel professionismo. Sia chiaro: la carcassa rimane sempre, però le regole lo hanno modernizzato moltissimo, rendendolo più chiaro e sicuro. Grazie a quest’ultime, infatti, il Buzkashi  si svolge in tempi definiti, in Afghanistan 2 tempi da 45 minuti, non è più permesso colpire volutamente gli avversari ed è stata introdotta la figura dell’arbitro. Il nome non è di certo tra i più facili da ricordare, ma la sua traduzione in lingua italiana lo è certamente di più. Se in Italia il calcio è religione, il buzkashi scalda in modo analogo gli animi dei popoli dell’Asia centrale lo prtaticano soprattutto d’inverno e a inizio primavera, quando il caldo non si fa ancora opprimente. Di primo acchito questa pratica potrebbe ricordare il polo o l’horse-ball, ma con essi il buzkashi condivide solamente il principio che vede i partecipanti montare un cavallo mentre giocano. Un chiaro regolamento e l’etica infatti non sono sicuramente di casa su questi “campi” da gioco: botte da orbi, frustate ai cavalli e anche agli avversari, gente disarcionata dai corsieri e chi più ne ha più ne metta. D’altronde, pure gli spettatori rischiano grosso visto che il terreno di gioco spesso non è ben delimitato e la foga dei giocatori non ha limiti. Gli infortuni, a volte anche gravi, non si contano e la contesa è sempre molto violenta. L’origine del buzkashi si perde nella notte dei tempi. Secondo alcune teorie, già gli antichi greci conobbero questa bizzarra pratica da alcune tribù che popolavano i territori oggi afghani, ma la teoria più diffusa vuole che questa pratica risalga ai tempi di Gengis Khan, quando pare si usassero addirittura i prigionieri quale oggetto di contesa. Nei secoli, i modi e le regole sono cambiati, ma non l’estrema violenza, che continua a restare un elemento intrinseco al gioco. Una distrazione dalle sofferenze della guerra per gli afghani, uno sport addirittura professionistico per i kazaki, i quali dispongono di vari campionati di kokpar, la loro versione di buzkashi.  Il gioco resta tuttavia una delle più belle rappresentazioni dei tempi che furono, custoditi gelosamente in queste aree del mondo. Con questo sport è possibile rivivere la magia primordiale dei popoli nomadi innamorati del proprio cavallo e del vento fra i capelli, gioiosi dello scontro in ogni sua forma. Se volete giocare a questo sport e non avete però abbastanza cavalli? Non preoccupatevi, nessun problema! Si può sempre giocare alla versione cinese, montando degli yak!

Favria, 21.05.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno mi aggrappo alla speranza per trasformarla in un sogno. Felice sabato.

Camminare!

Sulla soglia di casa, metto le scarpe da ginnastica ai piedi e la mia mente già fantastica come se fossi già fuori a camminare. Non resta che partire, ma l’avventura è iniziata tempo prima quando ho ricevuto sms che il gruppo di cammino di Oglianico si trovava al lunedì.

Camminare sembra una parola comune con il significato di muoversi a piedi, il lemma è un derivato di di cammino, dall’ipotetica voce tardo latina camminus, di origine celtica. Secondo gli studiosi filologi la radice celtica era cam, che in origine indicava anche il piede, le proprie gambe. Gli antichi Romani avevano già delle parole come gressus, iter e cursus. Ma con la conquista della Gallia portarono all’inclusione del lemma camminnus nel tardo impero che poi ricompare nell’italiano volgare che prese un ruolo di primo piano, tanto che il camminare sostituisce i  latinismi ambulare e incedere.

Oggi il camminare descrive l’atto consueto dello spostarsi a piedi, un atto basilare, che ha trovato brillanti trasposizioni figurate. Infatti diventa anche il procedere, il progetto cammina nonostante le difficoltà, è un po’ che gli affari non camminano come un tempo e il funzionare, l’orologio non cammina più.

Il camminare è l’andare avanti vitale per noi esseri umani anche se oggi perdere  tempo a camminare appare come un atto anacronistico in un mondo dominato dalla fretta e dalla velocità.   Ma il camminare introduce ad una dimensione piacevole del tempo, come dei luoghi. Oggi camminare per la Oglianicese rappresenta uno scarto, uno sberleffo alla nostra idea di modernità. Il camminare intralcia il ritmo sfrenato della vita ma è anche un modo pacifico per prenderne le distanze.

Il lunedì pomeriggio con il Gruppo di Cammino di Oglianico promosso dall’Asl con la collaborazione del Comune di Oglianico, mi porta ad assaporare la vita con calma, durante il cammino scaricando tutte quelle tensioni che normalmente accumuliamo.

Grazie all’Amministrazione Comunale, al Gruppo di Cammino ben diretto dai due walking Leader formati dall’Asl:  Sergio  e Costanzo.

Che rende sempre attuale il pensiero del filosofo Martin Buber, che scrisse che la vera casa dell’essere umano non è un luogo statico, ma l’essere in cammino da percorrere insieme.

Favria, 22.05.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno per cercare di attrevasare  il mare della quotidiana giornata devo sempre avere il coraggio di perdere di vista la riva del mattino. Felice domenica

Ci vuole naso!

L’olfatto, per molte persone, è il più sacrificabile dei cinque sensi. Ma anche se non ci facciamo caso, offre una preziosa mappa di orientamento nel mondo, affinata da molti millenni di evoluzione. Se a bruciapelo chiediamo a qualcuno quale senso, dovendo scegliere, sarebbero disposti a rinunciare, state pur certi che quasi nessuno risponderà la vista, che è  statisticamente l’ultimo senso di cui le persone possono immaginare di fare a meno. Molto più probabile che sceglieranno l’olfatto che dei cinque, per molti, il più sacrificabile. Ma siamo sicuri che meriti questa fama di senso di second’ordine? I nostri antenati, sia gli australopitechi o i grecopitechi, capirono che l’olfatto non li salvava dagli attacchi dei predatori, in quanto, se le fiere attaccavano sotto vento il loro odore non poteva essere percepito e quindi non potevano mettersi in salvo. 

La posizione eretta che associava la vista all’olfatto permise loro di potersi evolvere e di passare da pitechi a ominidi e quindi uomini. Da quel momento, la vista prese il sopravvento e fece sottovalutare le altre informazioni sensoriali che lungi dall’essere trascurabili avevano e hanno un valore ben preciso nel nostro universo sensoriale.

In questo ultimo anno l’olfatto ed il gusto hanno subito l’attacco del Covid anzi, più del gusto, l’olfatto legato com’è al respiro, che il virus insidia. Infatti l’olfatto e il gusto sono fra i sintomi più diffusi della malattia, dunque quasi un segnale d’allarme. Oggi poi le mascherine che ormai fanno parte del nostro vivere quotidiano con i nostri simili, abituati ormai a portare nei luoghi chiusi e spesso pure all’aperto, impongono anche a chi non è affetto dal virus l’esperienza di un ottundimento olfattivo: come se, da mascherati, avessimo un raffreddore cronico. Questa era la mia riflessione quando sono entrato in una profumeria con mia moglie. Pensavo poi al naso, e oggi quanto hanno buon naso, nel senso di avere un buon intuito, qui rappresentato dal naso nel senso di fiuto, inteso come capacità di giudizio. Purtroppo le mascherine certi giorni, rendono il naso rosso come un peperone. Certe persone a volte non ricordano dal naso alla bocca, modo di dire per chi manca causalmente di memoria, dimenticandosi delle cose in fretta e facilmente, e sarà per questo che non vedono più in là del proprio naso finchè non sbattono il naso sui problemi che hanno ignorato. Con il loro modo di comportarsi poi non si devono lamentare se battono la porta sul naso, ricevendo dei rifiuti netti e decisi. Questo succede perché continuano a soffiare il naso alle galline, modo di dire per indicare una azione stupida, inutile, ridicola, intestardendosi in un’impresa impossibile. Nella vita se si prosegue il cammino a lume di naso, senza dati precisi, senza elementi concreti, con il solo aiuto dell’intuito qui rappresentato dall’uso del fiuto, si procede in modo approssimativo. Bisogna anche stare attenti ad andare in giro col naso per aria, camminando così, guardandosi intorno senza badare a dove si mettono i piedi si rischia anche di inciampare e cadere. Questo può portarci ad arricciare il naso, manifestando la nostra disapprovazione mista a disgusto e contrarietà. Poi non si devono lamentare se gli bagnano il naso, quando vengono battuti dagli avversari e così rimangono con un palmo di naso, sconfitti, delusi e scornati. Non vorrei dar di naso, essere noioso e molesto con questo parlare dell’organo dell’olfatto, ma non voglio sicuramente farla  sotto il naso, raggirandovi con questo mio cianciare. Certo  potrei essere visto come un ficcanaso per la mia curiosa invadenza ne voglio menarvi per il naso, raggirarvi, ma se mettete il naso fuori casa magari troverete chi vi mette sotto il naso, dimostrandovi  in maniera molto chiara ed evidente, come mettendogliela vicinissima, direttamente sotto gli occhi, così che non possa non vederla. Beh adesso non state col naso all’aria, inoperosi, magari con gli occhi fissi nel vuoto come se si fosse intenti a guardare attentamente qualcosa. Perché nella vita potete sempre vincere di un corto naso, di stretta misura. Vi saluto ricordando a tutti che una vita senza olfatto è insopportabile. Ritengo che  di  tutti i sensi, l’odorato è quello che mi colpisce di più. Come fanno i nostri nervi a farsi sfumature, interpreti sottili e sublimi, di ciò che non si vede, non si intende, non si scrive con le parole? L’odore è come un’anima, immateriale, perché i ricordi e le evocazioni sono sempre associate al senso olfattivo, il semplice annusare il libro appena acquistato e lo scorrere le dita tra le pagine, per me è pura felicità

Favria, 23.05.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno  comincio col fare ciò che è necessario, poi cerco di fare quello che è possibile. Alla sera  mi sorprendo che sono riuscito a fare l’impossibile. Felice lunedì