Semel in anno….- La Mongolia di Gengis Kan e degli ultimi cacciatori con le aquile. – Il trattato di Maastricht. – Il cavatappi. -Alessandro Magno. – La nascita dei toponimi.. – Can e barian. – Sauterelle. LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE.

Semel in anno… Il detto: “ Semel in anno licet insavire”, una volta all’anno, ogni schema

può essere ribaltato. E’ In fondo, il principio del carnevale, dove dietro ad un rito spassoso e festoso si nasconde il desiderio di un rovesciamento o, ancora, quel sfondo violento e sovversivo che soggiace ad ogni desiderio di profondo annullamento sociale e spirituale.  Con il Carnevale si annullano per un attimo le convenzioni sociali e ribaltando l’ordine precostituito della collettività, costituisce una valvola di sfogo delle tensioni sociali. Al di là dell’accostamento del motto con il carnevale, l’adagio è oggi usato per giustificare un momento di gioia sfrenata e disinibita. Una situazione “ fuori dagli schemi” che, una volta soltanto è più accettabile. Nel concreto, può essere quello strappo alla regola che naufragare ogni velleità di dieta a partire da un’abbondante festa di torta 900. Questo detto nasce nel Medioevo, anche se già nell’Antica Roma, un passo di Seneca nel “De superstition”, opera perduta ma  trascritto in alcuni brani da S. Agostino nel De civitate Dei. Da questi frammenti dello scritto di Seneca sappiamo che si riferisce agli adoratori di Osiride, culto di origine egiziana.  costoro praticavano ritualità volte a compatire la morte della divinità e a gioire della resurrezione, il tutto con uno spiccato realismo quasi stessero vivendo questi fatti in prima persona, per questo Seneca commenta che tutto sommato , comportarsi da folli , se capita una sola volta all’anno è tollerabile: “ Torelabile est semel anno insanire, è cosa sopportabile la follia una volta all’anno.” Riprende quindi il tema nel De tranquillitate animi, anche se con valore diverso: qui sottolinea la piacevolezza dell’impazzire una volta ogni tanto, una volta ogni tanto: “ Aliquando et insanire iucundum est: talora è piacevole impazzire”. Al di là di tali precedenti espressioni si diffonde nel Medioevo  e approda , come detto, alla frequente identificazione con un ribaltamento di tipo carnevalesco. Chiudo il discorso con le parole seicentesche di un nobile aretino che fu scienziato, medico di corte dei Medici ed anche accademico della Crusca, Francesco Redi, in occasione dello  “stravizzo” un pranzo collegiale con tutti i colleghi della Crusca, egli recita una “ cicalata” per  tessere le lodi dei vini toscani, ottimi allora come oggi.  Talmente buoni che l’autorizzazione a impazzire una volta all’anno si sestuplica: “ Vino, vino  ciascun bevere bisogna/ se fuggir vuole ogni danno/ e non mi par mica vergogna/ tra i bicchieri impazzir sei volte  all’anno. Bacco in Toscana.” Quello in risposta a chi dice che bere un poco di vino fa male e restringe il cervello, magari chi scrive questo non l’ha mai sviluppato.
Favria,  6.02.2024 Giorgio Cortese

Buona giornata. Abbiamo  a disposizione la sapienza di millenni ma la barattiamo con i reality show. Felice martedì.

La Mongolia di Gengis Kan e degli ultimi cacciatori con le aquile”

Docenti: Pierluigi Bernard e Cristina Martinetti

mercoledì  7 febbraio 2024 ore 15,30 -17,00

Conferenze UNITRE’ di Cuorgnè presso ex chiesa della SS. Trinità –Via Milite Ignoto

Per secoli, nella remota regione degli Altai, nella Mongolia occidentale ,  comunità nomadi hanno tramandato di padre in figlio l’antica tradizione kazaka della caccia con l’aquila reale. La caccia con l’aquila è un’antica tradizione della Mongolia risalente al 940 d.C che sta scomparendo. Conosciuti come burkitshi, il termine kazako per indicare i cacciatori con le aquile, sono famiglie nomadi che vivono nella remota provincia di Bayan-Ulgii. Durante i mesi estivi, queste famiglie si spostano in cerca dei pascoli freschi per nutrire il loro bestiame, mentre durante l’inverno, quando la pelliccia delle loro prede è più spessa, approfittano della neve per cacciare con le loro aquile reali.

Il trattato di Maastricht

Firmato nel 1992 sulle rive della Mosa dai dodici Paesi allora membri della Comunità Europea, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e Spagna. Il trattato di Maastricht sancì un cambio di passo decisivo nella realizzazione di un’Unione sempre più stretta, gettando le basi per la realizzazione della moneta unica. Altre importanti decisioni furono l’istituzione della cittadinanza europea e l’inaugurazione di una politica estera di sicurezza comune. Fu inoltre promossa una più intensa collaborazione tra autorità giudiziarie e servizi di polizia. Il trattato fu una conseguenza della fine della Guerra Fredda, che all’inizio degli anni Novanta indusse le cancellerie europee a riprendere in mano il progetto di unione e portarlo ad un livello più alto. Dopo la sigla del nuovo trattato, che entrò formalmente in vigore il 1 novembre 1993,  data di istituzione ufficiale dell’Unione europea,  i parlamenti nazionali furono chiamati a ratificarlo, in alcuni casi dopo un referendum: un percorso che si dimostrò più accidentato del previsto,  in Francia i “sì” al trattato vinsero con un esiguo margine e in Danimarca venne addirittura respinto,  svelando quanto l’entusiasmo che Che aveva portato i governi alle decisioni varate a Maastricht non fosse pienamente condiviso dalle popolazioni dei diversi Paesi. In molti stati, infatti, i cittadini erano preoccupati da questioni quali la possibile perdita dell’identità nazionale o l’impatto sul lavoro e sull’economia generato dai migranti. Si temeva anche che un’Unione costruita su rigidi parametri neoliberisti potesse minacciare il lavoro e i diritti sociali. Tutte questioni, per la verità, ancora oggi aperte ad oltre un quarto di secolo dalla firma, come mostra la crescita degli “euroscettici” ed eventi eclatanti quali la Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Gli ideali europeisti devono ancora fare i conti con gli egoismi nazionali.

Favria, 7.02.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Quando abbiamo a che fare con una persona che si crede superiore agli altri e ne è fermamente convinta, ridiamoci sopra e assecondiamola, perché non è bello rovinare i sogni di un idiota. Felice mercoledì.

Il cavatappi.

Stappare una bottiglia di vino è un rituale che ha sempre qualcosa di magico: gli occhi dei presenti sono concentrati su chi svolge l’operazione. Viene rimosso il sigillo di stagnola e posizionata la punta del cavatappi al centro del turacciolo. La vite affonda nel sughero fino a perforarlo ed infine con lo sforzo di trazione necessario il tappo fuoriesce dal collo della bottiglia con un leggero schiocco. Il turacciolo viene estratto e annusato per verificare se presenta odore. Il nettare degli dei ora è pronto da servire e degustare. Noi tutti siamo abituati ad utilizzare questo oggetto per stappare una bottiglia, è un gesto consueto ed automatico che ci permette di accedere ad uno dei piaceri della vita. Ma quando inizia quest’affascinante storia? Non è facile rispondere a questa domanda, ma possiamo fare delle ipotesi attendibili. Partiamo da due certezze: il cavatappi nasce per estrarre un tappo di sughero da un recipiente di vetro anche se non necessariamente da una bottiglia contenente vino. Il  primo brevetto di un cavatappi risale al 1795, ed è dell’inglese Samuel Henshall. All’inizio del XVIII secolo il contenitore di vetro a bottiglia era un oggetto raro, costoso, fragile e dalla capacità non sempre uguale. In Italia sino al 1728 il commercio del vino in contenitori di vetro era vietato e uno dei motivi principali era dato dall’esigenza di opporsi alle frodi visto che la produzione allora artigianale, non consentiva di produrre bottiglie tra loro identiche e con la stessa capacità. Fu infatti il regio decreto del 25 maggio 1728 ad autorizzarne la vendita e questo è legato alla comparsa di bottiglie più solide, provenienti dall’Inghilterra, del tipo detto “a vetro nero” che garantivano una omogeneità di capienza. Sino ad allora il commercio del vino avveniva in fusti e botti, la bottiglia e il boccale erano utilizzati solo per portare il vino dalle cantine alla tavola e queste stesse bottiglie erano tappate con pezzi di legno cui si avvolgeva attorno della canapa o della stoppa allo scopo di renderle sufficientemente ermetiche. In seguito si utilizzarono tappi di sughero che però oltrepassavano il collo della bottiglia ed erano di conseguenza facili da rimuovere. In sostanza l’imbottigliamento era considerato una operazione destinata a durare poche ore o pochi giorni. Gli inglesi, paese di abili commercianti e navigatori, erano anche amanti del buon vino che importavano da Italia, Francia e Portogallo, nazioni produttrici anche di sughero. Quindi vetro, vino e tappi di sughero. Abbiamo quindi tutte le premesse per l’invenzione del cavatappi, ma a cosa ci si è ispirati per realizzarlo? La teoria più attendibile ci dice che esisteva allora un oggetto metallico dalla punta attorcigliata, semplice o doppia, che serviva da cavapallottole, attrezzo in uso già a partire dalla metà del XVII secolo. Contemporanea sembra essere anche l’invenzione dei cavatappi in miniatura, spesso in materiali preziosi, che avevano la funzione di permettere l’apertura di flaconcini e ampolle contenenti profumi, unguenti di bellezza e preparazioni farmaceutiche. Ecco la breve storia del tirabuscione, adattamento italiano del francese tire-bouchon, cavatappi, una parola in uso soprattutto nei secoli 18° e 19° che troviamo anche nel lemma piemontese tirabosson.

Favria,  8.02.24  Giorgio Cortese

Buona giornata. Non fingiamo di essere saggi ma siamo saggi davvero, ogni giorno non abbiamo bisogno di apparire sani, ma di esserlo veramente. Felice giovedì.

Alessandro Magno.

A soli vent’anni Alessandro ereditò dal padre Filippo II di Macedonia un progetto di guerra contro l’impero persiano, che occupava il Vicino Oriente fin dal VI secolo a.C. Lo raccolse e, con un’impressionante sequenza di battaglie, in meno di dieci anni occupò quello stesso impero. Poi si dedicò alla sua organizzazione, sfruttando la preesistente e sofisticata burocrazia amministrativa persiana, di cui accolse aspetti tecnici e funzionari. Morì nel 323 a.C., a 33 anni, per un’improvvisa malattia, mentre si preparava per nuove spedizioni, sicuramente in Arabia e forse altrove. L’elemento più noto della straordinaria traiettoria di Alessandro sono indubbiamente i grandi successi militari della spedizione asiatica, la collezione di vittorie che lo portarono in breve tempo dalla costa asiatica del Mar Egeo alle vette più alte dell’Hindu Kush e al fiume Indo, con la sconfitta del shahanshah, il «re dei re», Dario III, l’ultimo sovrano della dinastia Achemenide, di cui si proclamò il successore. La famosa battaglia di Isso del 333 a.C. è l’oggetto del recente libro di Gastone Breccia, Il demone della battaglia. Alessandro a Isso, che ne discute tattica e importanza storica. Se questo sia lo scontro raffigurato nel famoso mosaico da Pompei conservato al Mann di Napoli, è dibattuto: alcuni sostengono che vi sia raffigurata la battaglia di Gaugamela del 331 a.C., decisiva per la vittoria finale, a partire dal paesaggio sullo sfondo, collegabile con il Jabal Maqlub, vicino a Mosul in Iraq. Il grande conquistatore dovette arrendersi, tuttavia, nella tarda estate del 326 a.C., dopo l’ammutinamento dei suoi soldati, stanchi di una spedizione che sembrava non avere mai fine, presso il fiume Ifasi, odierno Beas in Punjab, che Alessandro voleva attraversare per inoltrarsi nel territorio indiano verso il Gange. Dopo avere tentato di convincere le truppe con discorsi accolti in totale e gelido silenzio, iniziò il viaggio di ritorno. Siamo in presenza di un personaggio storico e insieme di una leggenda; ciò è dovuto al fatto che non solo la storiografia superstite, prevalentemente di età imperiale romana (Diodoro Siculo, Curzio Rufo, Plutarco e Arriano), ma anche gli storici precedenti, i compagni d’armi, e lui stesso operarono una rielaborazione della sua memoria, costruendo il modo in cui doveva essere ricordato. La sua vita fu subito oggetto di spettacolarizzazione, generando un intero filone letterario di aneddoti sulle sue conquiste. Un tema ricorrente è l’idea che volesse  attuare la fusione dei popoli di Europa ed Asia, per creare un’unità del genere umano. Questa convinzione deriva dal ritratto agiografico che ce ne dà Plutarco nei Moralia, e si basa in parte sulla notizia, storica, di un matrimonio collettivo, avvenuto nella capitale persiana di Susa nel 324 a.C., tra veterani greco-macedoni e donne asiatiche. Una grande cerimonia in stile persiano, durata cinque giorni, in cui circa diecimila soldati macedoni si unirono con donne locali, con cui probabilmente avevano già contratto unioni di fatto nel corso delle campagne. Anche Alessandro, nonostante fosse già sposato con la principessa battriana Roxane, avrebbe preso due ulteriori mogli: Statira, figlia del re Dario III, e Parisatide, figlia di Artaserse Oco. Questo matrimonio di massa colpisce per la apparente volontà di integrare gli ex nemici, generando figli con loro; in realtà stipulare alleanze matrimoniali poligamiche con le principesse di regni confinanti per favorire concordia e amicizia era la prassi in Macedonia. In ogni caso il matrimonio di Susa suscitò forti malumori presso i Greci, soprattutto quando videro che Alessandro faceva addestrare alla macedone trentamila giovani iraniani. Sebbene scambi di popolazione tra Europa e Asia possono essere stati tra i progetti di Alessandro, il sistematico proposito di fondere i popoli è oggi ritenuto elaborazione letteraria: nella spedizione asiatica Alessandro si configurava anzitutto come campione e vendicatore dei Greci. Inoltre non c’era reciprocità, perché se uomini macedoni sposavano donne asiatiche, non avveniva mai il contrario. Ciò si lega alla fondazione di moltissime città chiamate in suo onore “Alessandria”, spesso simili ad accampamenti militari, dove insediò i suoi veterani, che uniti a donne locali avrebbero generato figli sanguemisti; in questo modo i veterani non sarebbero più tornati in Macedonia, ma avrebbero costituito una guarnigione permanente del nuovo regno. Ai figli di queste unioni Alessandro concesse il privilegio di un’educazione greca da uomini liberi. Possiamo quindi parlare di un capo pragmatico, consapevole delle emergenze del nuovo enorme regno, più che di un utopista visionario.

Favria, 9.02.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana non è solo per quello che facciamo che siamo ritenuti responsabili, ma anche per quello che non facciamo. Felice venerdì.

La nascita dei toponimi.

Il processo di nascita dei nomi che designano i vari luoghi della penisola italiana segue uno standard che si ripete spesso inalterato in ogni tempo. Di norma, esiste un nome locale che non necessariamente include tutto il territorio e che esprime come le popolazioni del luogo si autodefiniscono nella propria lingua. Se avviene poi un incontro tra popoli, è sulla base delle interazioni e della quantità di informazioni che ricaviamo dall’uno e dall’altro o sulla prevalenza dell’uno sull’altro che si creano una genesi e una eventuale imposizione del nome. Quando i Greci conobbero l’Egitto, lo chiamarono Aiguptos, forse derivandolo da Hut ka Ptah, “casa del ka, anima, di Ptah, dio di Menfi,”.  Poi usarono parole della loro lingua per chiamare monumenti e località: le grandi tombe dei faraoni diventarono piramidi, cioè tortini di cereali, perché ne avevano la forma. Gli  obelischi ottennero questo nome perché simili agli obelòi, gli spiedi e il delta del Nilo fu chiamato così perché la sua forma ricorda quella della lettera greca rovesciata. Quando Cristoforo Colombo, cercando le Indie, si imbatté in un nuovo continente, lo battezzò Indie Occidentali, questo nome rimase a lungo, fino a quando grazie ad Amerigo Vespucci, agli inizi del XVI secolo d.C., iniziò a comparire, nelle carte più aggiornate, il nome di Nuovo Mondo o America. Anche il popolo che la storiografia occidentale conosce come Aztechi si chiamava in realtà Mexica, e noi chiamiamo così gli Inca per la scelta degli spagnoli di usare il vocabolo quechua inca, cioè capo, imperatore, mentre il nome che in origine il popolo Inca aveva dato all’insieme dei territori governati dalla monarchia era Tahuantinsuyu. Anche per l’Italia antica è avvenuto qualcosa di simile, uno dei primi nomi della penisola fu Enotria: un nome che sicuramente è collegato al significato generale di terra degli Enotri, ma anche alla vite e al vino, essendo l’oinótron, in greco, il paletto su cui poggia la giovane vite. L’Italia fu nota ai Greci anche come Ausonia, perché abitata dagli Ausoni e come Esperia, cioè terra dell’Occidente e in questo caso i Greci si rifecero alla natura, e al fatto che vedevano calare il sole dalla parte della penisola. Esiste poi l’ipotesi che la parola Italia, al di là dell’artificiosa congettura antica che la associa al re Italo, provenga dal nome Italòi con cui i Greci designavano una tribù che abitava l’estrema punta dell’odierna Calabria, e che più tardi, per estensione, il termine sia stato usato per tutti i territori confinanti. Non è poi da escludere che il nome Italòi fosse legato al culto del simulacro di un vitello, vitulus in latino e ouitluin osco-umbro, da cui la parola Ouitoulìa, terra dei Vituli o dei vitelli, forse in questo caso così chiamata anche dagli indigeni, che avrebbe poi perso la v per caduta del digamma, la lettera persa dal greco classico. Alcuni indizi toponomastici, tradotti in latino dai conquistatori Normanni, potrebbero confortare tale ipotesi: basti pensare a Taurania, Taureana di Palmi, Gioia Tauro, Taurianova, Botemporali. Possiamo dire già da ora, però, che con la divisione del Paese in regiones sotto l’impero di Augusto si raggiunge il punto di arrivo di un processo iniziato nove secoli prima: la Regio I fu il Latium et Campania; la II Apulia et Calabria; la III Lucania et Bruttii; la IV Samnium; la V Picenum; la VI Umbria et ager Gallicus; la VII Etruria; la VIII Aemilia; la IX Liguria; la X Venetia et Istria; la XI Regio Transpadana. A queste si aggiungevano la Provincia di Sicilia e la Provincia di Sardinia. È evidente dai nomi scelti che prevalga un forte senso di riorganizzazione italica, mentre dello straordinario passato greco non rimane traccia. Con l’introduzione giuridica delle regioni in tempi ben più recenti, possiamo dire che la strada seguita riprende, almeno per la metà, quella scelta nel periodo augusteo: rileggendo i nomi delle regiones, infatti, troviamo una  corrispondenza di molte con quelle attuali. Ma di fatto, al di là dei nomi dati dagli altri, dei confini variabili, delle fusioni di popoli, le radici nascoste di chi aveva sempre abitato quei luoghi o di chi quei luoghi venne ad abitarli persistettero tenacemente. E con un’idea di quello che troveremo, ma sempre pronti a farci sorprendere dagli antichi Italici, andiamo alla scoperta della loro storia e di quello che ci hanno lasciato.

Favria,  10.02.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana il segreto per andare avanti è iniziare. Felice  sabato.

Can e barian

La tradizione popolare interpreta il detto “A iera can e barian” per significare una presenza ampia durante un avvenimento equiparabile all’italiano: “ C’erano cani e porci”. Ma usata anche  come riferimento ad una lite insanabile  tra persone, in italiano sono come  cani e gatti e qui: “J’en cmè can e barian”, forse il ricordo tra antiche famiglie di Casale  dei  Cane e dei Balliano sanate dal santo predicatore frate Bernardino da Siena. Questo santo predicatore passo da Casale tra il 1418 o il  1435 per la  predicazione pasquale. Per l’evento religioso era stato nella Piazza Grande un palco. Dai borghi vicini era accorsi tanti fedeli in processione con gonfaloni e stendardi. Grazie alla sua predicazione, gruppi di famiglie casalesi, fra cui i Balliano,  e  Cane, da tempo nemici si rappacificarono

Favria, 11.02.2024 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita le persone sagge sono quelle che si stupiscono di tutto. Felice domenica.

Sauterelle

L’Arbalète sauterelle tipo A, o semplicemente Sauterelle, in francese  cavalletta, era una balestra lanciabombe utilizzata dalle forze francesi e britanniche sul fronte occidentale durante la prima guerra mondiale. Era stato progettato per lanciare una bomba a mano in traiettoria alta nelle trincee nemiche. Inizialmente fu congedato dall’esercito francese, ma il generale Henri Berthelot pensò che avesse un valore pratico. Era più leggera e portatile della Leach Trench Catapult, ma meno potente. Pesava 24 kg  e poteva lanciare una granata F1 o una bomba Mills a 110-140 m (120-150 yd). La Sauterelle sostituì la Leach Catapult in servizio in Gran Bretagna fino a quando non fu sostituita nel 1916 dal Medium Trench Mortar da 2 pollici e dal mortaio Stokes.

Favria, 12.02.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Se  dipendesse da me renderei contagiosa la salute invece che la malattia. Felice lunedì.

Il sangue è una vita, Condividilo! Il sangue viene rigenerato dopo pochi mesi, ma la vita no, per favore dona il tuo sangue. Vi invitiamo a donare il sangue per una ragione che si chiama vita.  vita. Lo scopo della vita di noi essere umani è quello di accendere una luce di speranza nei nostri simili anche donando il sangue. Ti aspettiamo a FAVRIA VENERDI’ 29 MARZO  2024, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te.  Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio