Sorbole. – La fine dei cavalieri Rodi. – La battaglia dei cento uccisi. – La Notte di Natale. – Natale, siamo nudi qui a Saint Paul. – 25 dicembre 800 Carlo Magno viene incoronato imperatore. – Braccio di Ferro…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Sorbole! È un’esclamazione che in Emilia viene usata per esprimere

sorpresa, stupore ma anche dolore e a seconda dell’ambiente in cui è pronunciata viene considerata di origine più o meno scurrile. Un frutto che pochi ricordano sono le sorbe, piccoli portafortuna molto diffusi tra contadini e pastori, consumati durante il periodo invernale e natalizio. I frutti venivano in passato usati a scopo alimentare, ma oggi non vengono quasi più adoperati. Il sorbo, tipico della Macchia Mediterranea, con i suoi frutti è una pianta antichissima: le prime notizie risalgono al 400 a.C. in Grecia; i Romani lo fecero conoscere al resto dell’Europa. Le leggende popolari raccontano della sorba, ovvero, la bacca a forma di mela o pera polposa e di colore rosso bruno, come di un portafortuna contro la miseria e la fame e che, grazie ai suoi colori caldi ed intensi, ha il potere magico di allontanare tutti i mali. Attorno alla sorba si narra una leggenda di origine popolare. Veniva infatti considerato come il frutto portafortuna contro la povertà, in grado allontanare la miseria. La sua forma a metà tra una mela e una pera, e il suo colore rosso bruno, venivano considerati dalle leggende popolari quasi magiche. Nell’antichità il frutto era molto apprezzato, grazie al suo gusto dolcissimo e alla sua consistenza morbida. Veniva impiegato per preparare ottime confetture o particolari liquori. Virgilio, nelle Georgiche (III, 380), narrando di popolazioni che vivevano nell’Europa dell’Est, a nord del Mar Nero, racconta che, dopo le cacce al cervo nella neve, si riunivano in grotte dove accendevano grandi fuochi e bevevano una miscela di orzo fermentato e acide sorbe. L’etimologia del latino sorbus è incerta: secondo alcuni deriverebbe dal verbo sorbeo, ossia bere, assorbire, in quanto i frutti del sorbo arrestano i flussi dell’intestino. Dioscoride e Galeno erano concordi su quest’uso terapeutico. Tuttavia, pare assai più verosimile un’etimologia indoeuropea, da sor-bho cioè rosso, corrispondente al colore dei frutti. Con il termine sorbo si indicano alcune specie vegetali appartenenti alle Rosacee, che si presentano come piccoli alberelli o grossi cespugli. Producono fiori regolari, a cinque petali liberi, generalmente biancastri, e maturano piccoli frutti globosi o oblunghi, giallastri o rossi. Il frutto ha diversi nomi con cui veniva chiamato. Comunemente si utilizzava quello di sorbole, poi sorba o zorba. Esistono due varietà del frutto, una piriforme e una maliforme. Nell’antichità, ma anche nel passato recente, questo frutto era immancabile nella dieta dei contadini ed era considerato un piccolo portafortuna. In molte leggende europee il sorbo è una pianta che protegge chi ne possiede un esemplare, scacciando in questo modo gli spiriti maligni. “Sorbole”, cioè sorbe, è anche una tipica esclamazione dialettale bolognese, che sta ad indicare stupore, meraviglia, sorpresa.
Favria, 19.12.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. I ricordi, come le candele, bruciano di più nel periodo natalizio. Felice martedì.

La fine dei cavalieri Rodi   20 dicembre 1522

Il 20 dicembre 1522, dopo sei mesi di assedio da parte del sultano Solimano, i militi cristiani lasciarono l’isola egea per rifugiarsi a Malta I  20 dicembre 1522, dopo sei mesi di assedio da parte del sultano Solimano I l’isola di Rodi capitolava. Dal 1306 essa era sede dell’Ordine di San Giovanni (quello che oggi comunemente chiamiamo Ordine di Malta). I cavalieri si erano trasferiti a Rodi dopo la caduta del Regno di Gerusalemme. Da allora le loro navi erano state una spina nel fianco di tutto l’Oriente islamico, in particolare della potenza ottomana. Dopo la conquista di Costantinopoli, nel 1453, Maometto II aveva chiesto loro un formale atto di sottomissione. Se avessero accettato di abbandonare l’attività militare e dedicarsi all’assistenza dei pellegrini, sulla falsariga dei francescani di Gerusalemme, sarebbero potuti restare sull’isola, pagando però un tributo annuo. Ovviamente, l’Ordine, nato  specificatamente per scopi militari aveva rifiutato. Dopo anni di schermaglie, nel 1479 Maometto II aveva attaccato l’isola. Per la guida delle sue truppe aveva scelto Michele Paleologo, un nipote dell’ultimo imperatore bizantino Costantino XI, che s’era convertito all’Islam adottando il nome di Mesih Pasha. Sette mesi d’assedio, però, non erano bastati e, alla fine, i cavalieri avevano avuto la meglio. Poco dopo aver ritirato le truppe, Maometto II era morto: per oltre quarant’anni l’Impero non aveva più tentato l’assalto. I cavalieri, comunque, erano restati ben consapevoli che un nuovo scontro era solo rimandato. Per preparare l’isola all’inevitabile, avevano scelto un italiano: il cavalier Filippo Del Carretto, figlio del marchese di Finale, che, ventenne, aveva già combattuto nell’assedio del 1480. Nel 1513 era stato eletto Gran maestro e nel 1514 aveva ottenuto poteri speciali per organizzare la difesa dell’isola. Forte dell’esperienza maturata durante il periodo convulso delle prime guerre d’Italia, chiamò a Rodi architetti e ingegneri, per dotare l’isola dei più moderni sistemi di fortificazione. Un altro suo grande merito era stato, poi, quello di sviluppare una quasi frenetica attività diplomatica. Strinse alleanze con lo scià di Persia e con il sultano d’Egitto per cercare di distrarre gli ottomani con attacchi da altri fronti. Sfortunatamente per i cavalieri, il sultano Selim I li aveva sconfitti entrambi. Stava, quindi, per organizzare l’assalto a Rodi, quando morì improvvisamente, lasciando il trono al figlio Solimano. Anche Del Carretto morì, nel gennaio 1521. Suo successore fu eletto il francese Philippe de Villiers de l’Isle-Adam, cui toccò in sorte di affrontare il pesante assedio. Era il giugno 1522. Gli storici calcolano che le truppe turche ammontassero a 200.000 uomini. Contro di esse erano 700 cavalieri e circa 15.000 soldati. La solidità delle mura di Rodi non bastava a compensare la differenza. Al Gran maestro era chiaro che la vittoria sarebbe stata possibile solo se fossero arrivati aiuti. Si affrettò quindi ad inviare lettere a papa Adriano VI, all’imperatore Carlo V e ad altri sovrani. Non nutriva, però, molte speranze. L’anno prima era scoppiata l’ennesima guerra d’Italia fra Carlo V e il re di Francia Francesco I. Contemporaneamente, la Dieta di Worms, con l’attacco papale alle tesi di Lutero, aveva segnato un altro passo verso la fine dell’unità dei cristiani. In Europa, insomma, si pensava ad altro. Fra i pochi che non rinunciarono a prestare soccorso, fu Gabriele Tadino, detto il Martinengo. Già comandante delle truppe veneziane a Creta, giunto a Rodi fu fatto subito cavaliere e gli fu affidata la gestione delle fortificazioni. Martinengo fu uno dei protagonisti della difesa di Rodi: colpito alla testa da una schioppettata turca, sopravvisse per miracolo e riprese a combattere appena possibile. Perse l’occhio destro e così appare nel ritratto che Tiziano gli fece nel 1538. Come Villiers temeva, dall’Europa non giunse nessuno, o quasi. I cavalieri si difesero al meglio. Molte furono le pagine di disperato eroismo, ma era chiaro che senza aiuti non avrebbero potuto resistere. Man mano che i mesi passavano, si moltiplicavano, poi, i casi di tradimento. Il più grave fu quello, mai del tutto chiarito, del Gran cancelliere dell’Ordine, il portoghese André do Amaral, accusato d’aver inviato lettere al campo turco, per concordare una sorta di pace separata alle spalle del Gran maestro, fu decapitato il 4 novembre. A dicembre Solimano e Villiers cominciarono a trattare e il 20 dicembre fu raggiunto un accordo. I cavalieri, i loro soldati e la popolazione che li avesse voluti seguire avrebbero potuto lasciare l’isola indisturbati. La partenza avvenne il 1° gennaio. La flotta dei cavalieri aveva lasciato Rodi da pochi giorni, quando il Martinengo, ormai in salvo sull’isola di Zante, scriveva una drammatica lettera all’amico Daniele Renier: “sia certa che Rodi è stata così ben difesa come terra mai fosse combattuta, … fossero venuti mille uomini di soccorso, mai Rodi si perdea”.  Lo spagnolo Blas Ortizi scrisse al riguardo sulla stupidezza e negligenza inaudita, commentando l’atteggiamento dei sovrani europei. Va detto, però che l’epoca degli ordini militari-cavallereschi, figli del Medioevo e delle crociate, era ormai finita. Negli stessi mesi in cui Rodi era sotto assedio, un giovane militare spagnolo, Ignazio Lopez di Loyola, decideva di votare la propria vita a Cristo: un decennio più tardi, avrebbe fondato la Compagnia di Gesù, un ordine militante, più adatto ai nuovi tempi. In quanto ai cavalieri, nel 1530 l’imperatore Carlo V concesse loro l’isola di Malta subendo altro assedio ad opera dei Turchi, ma qui furono vittoriosi, episodio che racconterò prossimamente. I cavalieri di Rodi, poi chiamati di Malta rimasero nell’isola sino a quando, nel 1798, ne furono cacciati da Napoleone.

Favria, 20.12.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Gli ipocriti ogni giorno hanno un solo vantaggio, credono solo a se stessi. Felice mercoledì

21 dicembre 1866La battaglia dei cento uccisi

L’episodio storico noto anche come “massacro di Fetterman nel dicembre 1866, non fu propriamente un massacro ma una vera e propria battaglia combattuta nell’ambito di quella lunga sequela guerresca chiamata “La guerra di Nuvola Rossa”. Fu battaglia perché combattuta in campo aperto tra due forze militari organizzate che sapevano bene a cosa andavano incontro. Di più: i soldati bianchi erano lungamente meglio armati dei guerrieri indiani anche se non avevano ancora i temibili fucili a retrocarica che avrebbero sorpreso gli indiani non molto tempo dopo. Si trattò, più esattamente, e oggi tutti gli storici concordano in questo giudizio, di un trionfo militare di Nuvola Rossa e Cavallo Pazzo e di una delle più ingloriose sconfitte dell’esercito statunitense prima del Little Big Horn, addebitabile alla leggerezza e alla presunzione del giovane capitano William Judd Fetterman, imbaldanzito, come Custer, ma senza possedere un grammo della sua intelligenza, dai successi militari riportati durante la Guerra Civile. Proprio nel corso del sanguinoso conflitto tra Nord e Sud Fetterman si era conquistato un grado assai onorevole di cui fu autorizzato a fregiarsi anche a guerra finita. Fetterman ebbe quasi subito modo di mettere a rischio la propria vita e quella dei suoi uomini nel corso di un primo “salvataggio” operato in favore dei boscaioli di stanza al forte. Gli indiani avevano attaccato i lavoranti ed il baldanzoso capitano si era precipitato in loro aiuto con un folto gruppo di soldati. Il salvataggio rischiò seriamente di finire in tragedia, tanto che dal forte furono costretti a spedire un grosso contingente per salvare i salvatori. Il combattimento avvenne nella zona del Powder River, già dominio dei Corvi, ma conquistata proprio in quell’anno dai Teton Lacota. Quell’area era molto appetita anche dai bianchi, data la sua vicinanza ai territori auriferi del Montana. Dopo la Guerra Civile, le esauste casse del Governo avevano necessità d’oro e di vie di comunicazione sicure con i centri minerari. Il Colonnello Henry Bebee Carrington, uomo di scarsa esperienza bellica, ma eccellente amministratore e ingegnere, venne incaricato di costruire un nuovo Forte sul Powder River. I boscaioli che dovevano procurare il materiale indispensabile all’edificazione del Forte vennero fatti subito oggetto di costanti e continui attacchi da parte di bande Lacota. Carrington assegnò allora delle scorte militari ai carri del legname, ordinando però ai suoi uomini di non abboccare alle provocazioni indiane e soprattutto di non lanciarsi in rischiosi inseguimenti. Queste raccomandazioni derivavano dai consigli che gli venivano dati dagli scout in servizio presso il forte, uomini rudi e profondi conoscitori dei rischi della frontiera e delle numerose astuzie dei Lacota. Fetterman, dal canto suo, non stimava affatto gli indiani come combattenti e giudicava Carrington, il suo comandante, un totale incompetente. Famosa divenne la sua frase “Con un’ottantina di uomini sarei in grado di spazzare via l’intera nazione Sioux!”. Di Carrington pensava che fosse solamente adatto a bere forte e ubriacarsi. Così, alla prima occasione, violò gli ordini e andò all’attacco insieme al suo amico capitano Fred Brown, e alla guida di ottanta soldati, di cui quarantanove fanti. Nei fatti, i soldati furono attirati in una trappola piuttosto banale: alcuni guerrieri Lacota, tra cui, pare, anche Cavallo Pazzo,  fecero finta di essere rallentati nella fuga dalla neve e da un comportamento bizzoso dei propri ponies. Alla vista dei soldati simularono paura, inducendo Fetterman a spronare i suoi uomini all’assalto, pregustando una facile vittoria. Non fu così e i soldati caddero in trappola. Il cosiddetto “massacro” fu il risultato di questa sconsiderata azione. Ma come morirono Fetterman e Brown? Qui le versioni sono contrastanti. Ufficialmente essi, vistisi circondati e perduti, si uccisero l’un l’altro, contando fino a tre e sparandosi alle tempie, come prescriveva il codice d’onore militare in questi casi: mai consegnarsi vivi agli indiani, oltretutto si sarebbe rischiata una fine assai più penosa! Però un rapporto del chirurgo Samuel H. Horton, che esaminò i corpi dei due ufficiali prima della sepoltura, rivelò all’apposita commissione che Fetterman aveva la gola tagliata da un coltello e nessun foro alla tempia. Più tardi Cavallo Americano, un cugino di Nuvola Rossa, confermò questa versione, rivendicando a sé l’uccisione di Fetterman. Una simile verità sollevava un dubbio imbarazzante: che Fetterman avesse precipitosamente sparato alla tempia di Brown, senza poi trovare il coraggio di suicidarsi? Dunque la commissione, per non rendere ancor più censurabile il comportamento di Fetterman, preferì ufficializzare una versione più “onorevole”. Il mattino seguente Carrington stesso guidò una colonna di ottanta uomini sulla scena del massacro per recuperare i resti degli altri sventurati caduti e anche lui si trovò di fronte a qualcosa di inimmaginabile. C’erano corpi congelati sparsi in tutta la valle, tutti fatti oggetto di orrende mutilazioni, e pozze di sangue ghiacciato ovunque. Insomma, una scena orripilante. Il perché di tanta bestiale ferocia da parte degli indiani è difficilmente comprensibile se non messo in relazione con anni di frustrazioni e di odio crescente per i bianchi, ma soprattutto come rivalsa per l’analogo, orrendo scempio di corpi perpetrato dai soldati del colonnello Chivington contro un inerme accampamento  di Cheyenne e Arapaho a Sand Creek due anni prima.  Temendo il peggio, Carrington aveva riunito nel deposito delle munizioni le donne e i bambini con l’ordine di fare saltare tutto in aria se gli indiani si fossero impadroniti dell’avamposto e ciò per impedire che potessero cadere vivi nelle mani degli indiani. Inviò poi un messaggero a Fort Laramie per portare la notizia dell’eccidio e la richiesta urgente di rinforzi. Il messaggero, si mosse con cautela di notte fino al sorgere dell’alba per poi fermarsi di giorno trovando riparo tra arbusti e crepacci o cavalcando in luoghi solitari fino all’arrivo della notte successiva. Procedette così di notte in notte con un solo pensiero nella mente: salvare coloro che erano in pericolo e giunse infine a Fort Laramie la sera della vigilia di Natale avendo percorso 236 miglia con un’estenuante cavalcata in aperto territorio indiano e in una autentica tormenta di neve. La notizia dell’eccidio di Fetterman si diffuse nell’intero Paese e creò un clima di grande apprensione per la sorte degli avamposti militari lungo il Bozeman Trail. A Fort Laramie, intanto, cominciarono preparativi frenetici per approntare una colonna di soccorso da inviare a Fort Phil Kearny, ma a causa di condizioni meteorologiche estremamente avverse i rinforzi non poterono partire prima del 6 gennaio. Per questo motivo a Fort Phil Kearny, dove la guarnigione era ridotta di un terzo degli effettivi, in sei mesi erano stati uccisi 96 soldati), e poteva contare su scarse munizioni, si vissero settimane di grande tensione per la minaccia incombente di un possibile nuovo attacco da parte degli indiani. A dar loro un aiuto inatteso ci pensò la stagione che si presentò con un inverno rigidissimo. Con l’inizio del mese della Luna del ghiaccio sulla tenda, gennaio, gli indiani abbandonarono ogni operazione sul campo e si ritirarono nei loro tepee in attesa che il grande gelo terminasse. Alla fine, il 16 gennaio a Fort Phil Kearny arrivò il generale di brigata Henry W. Wessells con due compagnie di cavalleria, quattro di fanteria e con i rifornimenti necessari per mettere in sicurezza quell’avamposto. Paradossalmente c’era stato bisogno di un massacro per inviare a Fort Phil Kearny quei rinforzi che Carrington aveva inutilmente richiesto fin da luglio, quando aveva iniziato la costruzione del forte. Le conseguenze del massacro di Fetterman furono pesanti e il generale Philip St. George Cooke, comandante del Dipartimento del Platte e diretto superiore di Carrington, alla ricerca di un capro espiatorio da offrire all’opinione pubblica, attribuì la colpa di quella tragedia proprio a Carrington, mentre Fetterman veniva celebrato come “martire ed eroe nazionale”. È interessante notare che la spiegazione che il Dipartimento degli affari indiani fornì per l’attacco degli indiani era che essi erano stati “resi disperati a causa della fame”. Biasimato dalla stampa e dall’opinione pubblica, Carrington venne rimosso dal suo incarico su disposizione del generale Cooke e come comandante del forte gli subentrò il generale Wessells. Carrington lasciò Fort Kearny il 23 gennaio insieme alla moglie, alle altre donne (inclusa la moglie incinta del defunto tenente Grummond) e ai bambini. Durante l’estenuante viaggio verso Fort Caspar (Wyoming), circa 200 miglia più a sud, essi dovettero affrontare temperature di parecchi gradi sotto lo zero per cui metà dei 60 soldati di scorta ebbe seri problemi di congelamento alle parti esposte del volto e agli arti. Pochi giorni dopo anche il generale Cooke subì la stessa sorte di Carrington e fu sostituito come comandante del Dipartimento della Platte dal generale Christopher C. Augur.  Nel contempo a Washington la politica si sentì pesantemente coinvolta e il governo decise che la pista Bozeman non poteva più essere protetta e la chiuse definitivamente al traffico civile, tranne che per i fornitori di approvvigionamenti militari. Su sollecitazione del Senato il presidente il 18 febbraio istituì una speciale commissione con il compito di visitare i territori indiani e di accertare come si erano realmente svolti i fatti. La primavera successiva, in un’audizione a Fort McPherson, Carrington fu scagionato da ogni responsabilità. Nel suo rapporto dell’8 luglio 1867, la commissione confermò che più volte Carrington aveva ripetuto il suo ordine che la colonna di soccorso di Fetterman non avrebbe dovuto superare il Lodge Trail Ridge. Il rapporto concludeva anche che l’ufficiale comandante del Dipartimento del Platte non gli aveva fornito truppe e rifornimenti necessari per affrontare una situazione di guerra aperta. Il generale Sheridan, neo responsabile del Dipartimento Militare del Missouri, dichiarò esplicitamente «Il rapporto del colonnello Carrington, per quanto a sua personale conoscenza, è stato pienamente convincente». Malgrado ciò, la reputazione di Carrington subì danni pesanti da tutta quella vicenda ed egli concluse la sua carriera militare assegnato a compiti di minore importanza. Dopo aver lasciato l’esercito il 15 dicembre 1870, Carrington con l’apporto della seconda moglie trascorse il resto della sua vita lavorando a varie pubblicazioni con il solo fine di riabilitare il proprio nome. Nel 1908, Carrington fu il relatore ufficiale per la celebrazione del 4 luglio, in occasione del ‘Quarantesimo anniversario dell’apertura del Wyoming’ e di una riunione dei sopravvissuti di Fort Phil Kearny a Sheridan, Wyoming ed anche in quell’occasione nel suo lungo monologo egli ribadì la sua totale innocenza. Nella primavera del 1868, quando la ferrovia Union Pacific  Railroad  fu completata, l’alto costo sostenuto dal governo per la protezione del Bozeman Trail non fu più ritenuto necessario. Il 29 luglio di quell’anno i soldati lasciarono Fort C.F. Smith che subito dopo venne bruciato da Cavallo Pazzo e dai suoi guerrieri. Qualche giorno dopo le ultime unità dell’esercito abbandonarono Fort Phil Kearny e Fort Reno come condizione preliminare per la negoziazione da parte di Nuvola Rossa di un nuovo trattato di pace. Ancor prima che le colonne dell’esercito fossero uscite dal territorio, Sioux e Cheyenne diedero fuoco anche a questi due forti ponendo così fine a quel conflitto successivamente chiamato dagli storici guerra di Nuvola Rossa.  Dopo lunghe trattative, la maggior parte dei capi indiani riuniti a Fort Laramie accettò i termini di un nuovo trattato, ma fu solo a novembre che Nuvola Rossa firmò l’accordo. Il  trattato di Fort Laramie del 1868 soddisfaceva quasi tutte le richieste di Nuvola Rossa, tra cui l’abbandono dei tre forti nell’area contesa e la chiusura del Bozeman Trail, e istituì la grande riserva Lakota che  includeva le Black Hills, colline ritenute sacre dagli indiani Lakota.  Due anni dopo Nuvola Rossa incontrò a Washington il presidente Grant. In quell’occasione egli disse «Noi mangiamo, noi dormiamo, noi riposiamo e staremo presto di nuovo tutti meglio». Questa situazione, però, non era destinata a durare. Il dominio dei Sioux sulla regione del fiume Powder, infatti, si sarebbe infranto appena otto anni dopo.

Favria, 21.12.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Diventiamo ogni giorno energia di amore che cambia tutto. Felice giovedì

La Notte di Natale

Ogni volta che il Natale ritorna, in molti di noi si muove qualcosa di speciale, qualcosa che è difficile definire, un impulso tanto irriducibile alla retorica del buonismo quanto reale e perfino vertiginoso. Cos’è questo quid se non il bisogno di rivolgere attenzione ai segni di quell’Altrove, di quel Mistero che è sempre presente nel mondo ma a cui, di solito, non dedichiamo molto tempo? Per quanto mi riguarda, sento con dolore e con forza, in controcanto a quest’altro Natale che arriva, il desiderio di ripensare a due persone finite tragicamente.  Immaginiamo che, alle sette di un mattino qualunque il suono del campanello mi ha svegliato di soprassalto: la voce di carabiniere al citofono c chiede se conosciamo l’uomo che, poco prima, si era “defenestrato”, se abitava li? Guardo dalla finestra, il corpo di un suicida, quasi sotto il balcone era  coperto da un telo. Dopo qualche minuto questo è stato rimosso dagli agenti di polizia. Era terribile: colui che era stato, fino a pochi minuti prima, un essere umano, una creatura viva, un miracolo, adesso era solo un manichino, un oggetto senz’anima, una cosa greve e senza senso. Anche adesso non so niente di lui: non so il suo nome, non conosco nulla della sua storia. Oggi la  vita  di chi conosciamo è come un romanzo e non chiediamo mai di raccontarcelo. Mi viene da domandare cosa passa nella mente di chi si suicida, quale dubbio abissale si insinua per fare si che il suicida cancelli sé stesso in modo tale da arrivare a combaciare completamente col nulla, da finire per non essere mai stato? Il Santo Natale ci ricorda a tutti noi esseri umani che il Bambino che nasce è il miracolo. La natura sacra di ogni neonato, cioè il dono divino dell’Essere, l’esistenza del mondo nella sua meravigliosa gratuità. Forse alcuni tra coloro che si suicidano sono idealmente fratelli o sorelle di Bartleby, lo scrivano ottocentesco di Melville che a un certo punto decide di opporre all’arida realtà che lo circonda, uno squallido ufficio di copisti, il suo totale diniego, il suo “preferirei di no,  I would prefer not to”. Certo Bartleby ha molta parte di ragione: il suo rifiuto è, in primo luogo, una forma di disobbedienza non lontana dal dissenso civile di Thoreau; il suo “no” dice anzitutto il non voler diventare complice di una società fondata sulla pura e semplice ripetizione di parole vacue, superflue, prive di senso e d’anima. L’errore di Bartleby, però, è di spingere il dissenso fino al punto di negare tutto ciò che la vita offre, a partire dalla vita stessa. Così, trascinato dall’illusione di poter trovare solo nel “no” la propria dimora, negando addirittura il cibo egli finirà per morire. In un certo senso Bartleby è, senza saperlo, succube di una delle più ingannevoli sirene moderne, il nichilismo. Il pensiero nichilista è tendenzioso perché non riconosce la straordinaria parte di bellezza intrinseca di Dio, e potrei aggiungere che l’idea del nulla che lo guida è opposta al Nulla dei mistici, orizzonte primo e ultimo della pienezza dell’Essere, luogo puro dell’indicibile, fondo senza fondo della realtà di Dio. Ma, nonostante il suo errore di prospettiva, non possiamo giudicare Bartleby, non possiamo crederci capaci d’interpretare la sua anima. Allo stesso modo non possiamo certo giudicare chi si suicida gettandosi sotto un treno o da una finestra: solo Dio lo può. Gesù è nato anzitutto per creature come loro, per ritrovarle nell’abbraccio, nel calore, nella misericordia del suo Natale: per rivelare loro, proprio nell’attimo in cui avranno creduto di trovare un rifugio nel nulla, che c’è sempre una realtà più accogliente: la sostanza divina di Dio,  dono piccolo ma assoluto come una culla, dono immenso e lucente come il cielo della Notte Santa.

Favria, 22.12.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Dove nasce Dio, nasce la speranza: Lui porta la speranza. Dove nasce Dio, nasce la pace. E dove nasce la pace, non c’è più posto per l’odio e per la guerra. Felice  venerdì.


Natale, siamo nudi qui a Saint Paul

Riporto il sermone di John Donne: “Ora siamo nudi, qui, nella chiesa di Saint Paul, e non possiamo tacere. È quasi mezzanotte. Dowland ha acceso questo grande fuoco al centro della chiesa. Non possiamo avere freddo. Dobbiamo restare in preghiera, noi, chiusi in questo silenzioso mausoleo con i nostri corpi nudi, nudi come lo furono alla nascita, senza lo straccio di una veste, senza l’orpello di un abito, scorticati da ogni lusso superfluo, con i nostri corpi, giovani, vecchi, bambini, adulti, nel giorno della massima festività: il Natale del 1630, la nascita di Cristo, Nostro Signore.”  Passo del sermone pronunciato da John Donne la notte di Natale del 1630, nella chiesa di Saint Paul a Londra.

Favria, 23.12.2023   Giorgio Cortese

Buona giornata Una buona coscienza è un Natale perpetuo. Felice  sabato

La stella cometa!

In queste fredde notti di fine dicembre ecco una luce sfavillate, improvvisa e abbagliante, che viaggia su nel cielo e sfida il grande gelo della tenebrosa notte. La vera stella cometa su di una  grotta si è posata e l’ha tutta illuminata: la Madonna, il bambinello, San Giuseppe e l’asinello; i Re Magi e i loro ori e le greggi coi pastori. Qui a Favria nella borgata Madonna della Neve sulla facciata della cappella una stella cometa si è posata, ha  una coda questa stella che la rende molto bella. Vi spiego subito il motivo, anche a Favria di Gesù annuncia l’arrivo! Ecco la luce sfavillante che tutti allieta, ecco la stella cometa! La luce della stella cometa dice al nostro cuore che ci sia pace sulla terra, sia pace e non più guerra.

Favria, 24.12.2023   Giorgio Cortese

Buona giornata. Auguro a tutti che la notte di Natale brilli per tutti  di luce, grazia e amore… felice  sabato e Buon Natale!

25 dicembre 800 Carlo Magno viene incoronato imperatore.

La notte tra il 24 e il 25 dicembre dell’anno 800 Carlo, re dei Franchi e dei Longobardi, veniva solennemente unto con l’olio santo e incoronato imperatore a Roma da papa Leone III. Nasceva cosi, con un atto che fu presentato ai contemporanei come estemporaneo e inaspettato,  in realtà era stato preparato con cura e da tempo – quello che sarebbe più tardi passato alla storia con il nome di “Sacro Romano Impero”. Cosi narrò lo storico evento il “Liber Pontificalis”: “Ricorrendo il Natale di nostro Signore Gesù  Cristo, tutti si riunirono nella basilica di San Pietro e il venerabile pontefice con le proprie mani incorono Carlo imperatore, ponendogli sul capo una corona preziosissima. Fu allora che tutti i fedeli romani, tenendo presente la grande protezione e il particolare amore che Carlo aveva sempre offerto alla Chiesa romana e al Sommo Pontefice, esclamarono all’unanimità  e ad altissima voce per ispirazione di Dio e di San Pietro, custode delle porte del regno dei Cieli: “A Carlo, piissimo Augusto, coronato da Dio grande e pacifico imperatore, vita e vittoria”. Dinanzi alla sacra tomba del beato Pietro apostolo, invocando molti Santi, ripeterono questa invocazione tre volte: e cosi Carlo fu riconosciuto da tutti Imperatore dei Romani”. Il nuovo organismo statale, ispirato all’eredità romana, si sarebbe imposto nell’immaginario come l’incarnazione del potere universalistico medievale, capace di accorpare in sé popoli ed etnie diverse sotto il comune segno della religione cristiana. In realtà  la compagine territoriale, che molti vogliono antesignana dell’Europa moderna, portava con sé, sin dal principio, contraddizioni, luci e ombre, cosi come ne aveva il carattere del suo ideatore.

Favria, 25.12.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Per questo Natale vi auguro di ricevere meno auguri via SMS, Facebook o WhatsApp. E che le persone veramente care bussino alla vostra porta per un caffè, due chiacchiere, un abbraccio. Buon Natale.

Braccio di Ferro.

Quando nel 1929 il fumettista americano Elzie Crisler Segar decise di creare il celebre Braccio di Ferro, Popeye, trasse ispirazione da un eccentrico personaggio conosciuto nella vita reale. Si chiamava Frank Fiegel ed era un immigrato di origini polacche nato nel 1868 e trasferitosi in seguito a Chester, Illinois, città natale di Segar. Assunto come buttafuori in una taverna, Frank viveva con la madre ed era noto a tutti per l’indole guascona e l’incredibile forza, che gli valse il soprannome di Rocky (Roccioso). Pur non essendo un marinaio e amando molto più gli alcolici che gli spinaci, Fiegel aveva vari tratti in comune con il suo alter ego a fumetti: era alquanto irascibile e fu spesso coinvolto in risse, dalle quali usciva quasi sempre vincitore grazie alla prestanza fisica. Proprio come Braccio di Ferro, Rocky aveva un animo gentile e amava fumare una pipa di pannocchia che teneva costantemente in bocca. Fu solo nel 1938 che scoprì di essere stato l’ispirazione per il personaggio di Segar. Morto nel 1947 all’età di 79 anni, Frank Fiegel fu seppellito in un’umile tomba di Chester accanto alla madre. Nel 1996, The International Popeye Fan Club vi ha collocato una lapide che ricorda il suo legame con il celeberrimo marinaio dei fumetti. Rocky non fu peraltro l’unico personaggio della saga di Braccio di Ferro ispirato a un concittadino di Segar: Olivia Oil, la smilza compagna di Popeye, assomigliava infatti a una tale Dora Paskel, proprietaria di un negozio di alimentari di Chester.

Favria, 26.12.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni tanto imparare ad aver cura di se stessi è l’essenza della vita. Felice martedì e buon S. Stefano!